Capitolo II
La luce del sole inondava la stanza.
Mi stiracchiai con un gemito, poi mi volsi verso
comodino di fianco al letto. L’orologio da polso,
sdraiato su un fianco, sonnecchiava ancora. Lo svegliai
con uno sguardo di velluto al quadrante. Le nove. Dalla
cucina mi giungeva un lieve vociare, misto al tintinnio
di qualche stoviglie e una sommessa risata.
“Oliver…” pensai. Poi mi resi
conto che non era lui. Il ricordo della notte appena
trascorsa mi schiaffeggiò svegliandomi del tutto. L’avevo
baciato. No, lui aveva baciato me. Beh, no, poi ci
eravamo baciati. Era stato piacevole, al buio, al freddo
della notte, prigioniera nella morsa delle sue braccia
forti, del suo sapore di sigaretta e di birra. Chiusi
gli occhi e stiracchiandomi mi allargai in un sorriso.
- Ciao,
mondo. - Feci una lunga pausa. - Ciao… Quaggiù.
Dopo essermi lavata rapidamente, mi
vestii in modo adeguato all’occasione, jeans un
maglioncino di pile nero a collo alto (se ero di buon
umore, curiosamente, indossavo sempre il nero. Essendo
bionda trovavo che mi donasse) e anfibi. Ero molto
fiera dei miei anfibi. Avevo comprato quei Caterpillar
a New York e ne facevo una questione di orgoglio e
prestigio. Mi truccai leggermente. Le ore sottratte al
sonno avevano lasciato il segno. Avevo gli occhi
leggermente abbottati, e un generale stato di gonfiore
al viso. Meno male che prima di partire mi ero fatta
rifare il naso. Almeno quello, in quella particolare
occasione, non avrebbe aggravato la situazione. Così
restaurata, feci capolino nella cucina.
- Ehi!
Eccoti qui. Allora hai dormito bene?
Lui era esattamente come la sera
prima, come la notte prima, come se nulla fosse
successo, come se non fosse evidente che aveva dormito
3 ore. Annuii e sorrisi.
- Santoddio,
Izzy! Sei l’unica donna che conosco che pure
truccata ha l’aria di una che si è appena
svegliata…
- Io mi
sono appena svegliata… comunque grazie
Oliver.
Danielle non c’era. Lui gira
intorno al tavolo sul quale, per quell’ora del
mattino, c’era già una sorprendente confusione, si
avvicina fino a toccare col suo fianco il mio e con
quella voce bassa ed erotica semplicemente chiede:
- Caffè?
- Volentieri,
grazie.
- Allora
Oliver, vuoi cominciare a preparare almeno la
carne?? Devo fare tutto io in questa casa…
- Vacci
piano amico… tua moglie ha detto di aspettarla…
visto che è andata a prendere dell’altra carne
non mi sembra una brutta idea. Piuttosto, che ne
dici di un’altra birra?
Inorridii.
- Cielo,
Oliver! Sono le nove!
- Dai,
bambina… non ho chiesto certo burboun…
- Ci
mancava solo questo…
- Ma
scusa non sei tu che metti la grappa nel caffè??
Russell sbarrò gli occhi e lo
interruppe.
- Aspetta,
aspetta!! Cos’è questa cosa? Cosa hai detto?
-
Io non feci una piega.
- Sei stato in Italia, se non
ricordo male giusto?
- Sì è
così.
- Ricordi?
Il caffè italiano è molto forte e ridotto nelle
quantità.
- Sicuro, l’”espresso”.
Buono. Uno ti basta per una settimana, è piombo.
- Ok. Al
mio paese, ci si mette dentro un goccio di grappa.
La grappa è… acquavite, un prodotto di non so che
lavorazione. E’ molto alcolica, ma rende
interessante il gusto del caffè. E questa cosa si
chiama “correzione”.
Lui mi guardò e sfoderò il primo
sorriso sornione della giornata (almeno per me).
- Tu sei
una tosta, eh?
Io sorrisi.
- Per un
caffè corretto? Tu sogni.
- Non
conosco donne che metto superalcolici nel caffè
alla mattina.
- Il
vostro non è caffè ma sciacquatura di piatti e
la grappa non esiste in nessun altro posto al
mondo se non in Italia.
Oliver s’intromise.
- Dimentichi
la Cina.
- Oliver,
hai mai provato a correggere il caffè con la
grappa di rose?
Russell fece una smorfia di
disgusto. La risposta di Oliver non arrivò.
- Allora
taci.
Oliver si scocciò.
- Ehi, ma
che hai? Sembra che tu non abbia dormito affatto…
Russ ed io ci scambiammo una lunga
occhiata.
- In
effetti… io ho dormito male, ma sai. Per me è
sempre così.
- Già
dimenticavo… dai, bevi la sciacquatura di
piatti. Ti riprenderai e sarai nuovamente pronta
per una giornata esplosiva!! Ho ragione amico?
Russ annuì.
Di lì a poco arrivò Danielle,
carica come Babbo Natale. La sua voce risultò
gradevole come le unghie grattate sulla lavagna.
- Russell!
Vieni a darmi una mano per piacere…
- Dani,
tesoro… arrivo.
Oliver mi stava guardando. Io mi
sentii subito a disagio.
- Che c’è?
- Tutto
bene?
- Sì.
Scusa per prima.
- Cosa?
- Se ti
ho risposto male.
- Figurati.
Ci sono abituato.
Lo guardai con un sorriso acido.
Oliver continuò a guardarmi. Poi posò la sua tazza,
girò intorno al tavolo e mi venne vicino.
- Sei
sicura che sia tutto a posto?
Lo guardai in un misto di
curiosità e preoccupazione.
- Oliver,
cosa dovrebbe esserci che non va?
- Oh,
niente - fece lui, allontanandosi - solo… -
tornò sui suoi passi - sta’ molto attenta a non
cacciarti nei guai.
Dovevo essere diventata di mille
colori, perché il suo sguardo si fece più aperto ed
esplicito e io capii. Capii che i due amici erano
molto più amici di quanto avessi potuto capire dalle
criptiche spiegazioni di Oliver, capii che Russell gli
aveva già parlato.
- Oliver,
ci siamo soltanto dati un bacio.
- Non mi
frega di quello che fai, Izzy, sei una donna
adulta e mi auguro consapevole. Soltanto mettiti
in testa una cosa. Quell’uomo è sposato, che
sia felice o no, non sta a te giudicarlo. E
soprattutto è una figura pubblica. Ma non come il
sindaco di Coffs Harbour, è una star
internazionale, Izzy, se Russell si mette le dita
nel naso a tavola in casa sua tutta la stampa
mondiale lo viene a sapere!! E’ una persona
esposta, Izzy, e non è bene che faccia passi
falsi.
- Già.
Tipo prendere a cazzotti un giornalista, una fan a
maleparole o scatenare una rissa in qualche
ristorante? Cristo, Oliver, dobbiamo proprio
cazzeggiare su queste piccolezze? Erano le quattro
del mattino, eravamo nella sua proprietà, ci
siamo scambiati un bacio, tutto qui!!
- Io ti
ho avvisato. Se non hai pensieri per te, cerca di
far mantenere un profilo alto a lui.
- Nel
senso che se venisse a letto con me, il suo
profilo si abbasserebbe?
Non stavamo alzando la voce, ma si
capiva che la discussione era diventata concitata, dal
tono sottovoce ma nervoso, e dalle espressioni del
viso. Russell irruppe in cucina.
- Eccoci
qua! Direi che possiamo cominciare! Ehi Oliver,
brutto bastardo, vieni a darmi una mano!! Lasciamo
alle donne il lavoro della marinatura della carne!
Oliver ed io ci scambiammo un’occhiata
complice, poi lui e Russell uscirono a preparare
tavoli, sedie e carbonella. Danielle ed io restammo in
cucina a scartocciare la carne.
- Questo
posto è splendido, Danielle.
- Già.
Peccato sia un mortorio. Lontano da tutto. A Coffs
Harbour ci saranno si e no una gelateria, un
droghiere e fortunatamente la stazione dei
pompieri. Sette ore da Sidney si sentono, credimi.
- Beh
posso immaginarlo. Ma desiderando un po’ di
tranquillità questo mi sembra il posto ideale.
- Che ne
dici, mettiamo tutto su questi piatti ovali?
Capii che, soltanto con una
asettica frase cordiale, selezionata per fare dell’innocente
conversazione, avevo toccato un tasto dolente. Lei
voleva la vita di società. Lui voleva una vita
tranquilla. Bel problema.
- Ehi
Oliver! Aiutami con questa carbonella… ehi…
ehi! Lascia stare la birra, amico!
Oliver si staccò a fatica dalla
bottiglietta di Budweiser e seguì Russell alla brace.
I lunghi tavoli di legno erano coperti da tovaglie di
carta e un numero inimmaginabile di bicchieri e piatti
erano allineati lungo di essi. Feci capolino dalla
casa sullo spazio antistante.
- Avete
bisogno di una mano? - Mi coprii la fronte con una
mano, la temperatura era fresca ma il sole era
brillante.
- Izzy!
Vieni qui, per favore, il tuo amico Oliver non
collabora!
- Oliver,
ti sembra bello? Il padrone di casa ha bisogno del
tuo aiuto!
Sorrisi e mi avvicinai mentre
Oliver faceva finta di spostare i piatti sui tavoli in
una vana ottimizzazione dello spazio.
Le mani esperte di Russell
mescolavano la carbonella, cercando di ridurre il
fuoco vivo a braci più adatte alla cottura della
carne.
- Avete
finito con la carne?
- Più o
meno. Credo che Danielle riesca benissimo a
lavorare anche senza di me.
Lui mi guardò, un lungo sguardo
senza parole. Poi lo volse nuovamente alle braci.
- Non sta
attraversando una fase di socializzazione
particolarmente entusiasmante.
- No, non
sembra.
- Non
credevo che sarebbe finita così.
- Così
come?
- Danielle
e io stiamo per divorziare. Abbiamo deciso di
provare ancora un po’ a stare insieme, ma non mi
pare che la cosa funzioni molto. Lei non mi sembra
molto convinta. Mi sono fatto quest’idea… che
lei abbia un altro.
- Oddio…
- Beh,
Izzy, sono cose che succedono.
- Già,
lo so bene.
Lui mi guardò di nuovo.
- Scusa,
non ci avevo pensato.
- E a
che? Bisogna imparare un po’ tutti a convivere
con le delusioni.
Si allontanò per andare a
stapparsi una birra che stava in una cassetta (insieme
ad altre 3 cassette) accanto al bbq. Poi tornò alla
sua postazione continuando ad evitare il mio sguardo.
- Io mi
chiedo come fai.
- A far
che?
- Io…
intuisco… posso solo intuire, quanto male ti
abbia fatto questa storia anche se è passato del
tempo. Eppure mi sembri… controllata, fredda.
Quasi distaccata. Come fai?
Sorrisi mestamente.
- Il
tempo della disperazione, delle grida e delle
lacrime è finito. Da tempo. Sto ancora coccolando
il mio dolore. In silenzio. Non c’è ragione di
urlarlo al mondo, ti pare?
- Sì,
capisco. Eppure ho l’impressione che tu abbia la
situazione perfettamente sotto controllo.
- Non è
così. Te l’ho detto ieri notte, non sono più
innamorata ma neppure riesco più a creare una
situazione per cui nel mio cuore possa albergare l’amore.
E’ come se fossi diventata un pezzo di pietra. E
questo mi fa soffrire.
- Allora
non sei un pezzo di pietra. Generalmente le pietre
non soffrono.
- Ti si
sta bruciando il polsino della camicia.
- Oh
cazzo!
Russell si allontanò e cercò di
soffocare la fiammella che si era accesa sotto il
polso schiacciando il braccio sul prato.
- Russell!!
Sei pronto? Dave e Garth stanno arrivando!
Danielle gli si avvicinò
grintosamente, divorando il prato a grandi passi. Poi
bisbigliò ma con tono di voce sufficientemente alto
da farsi sentire.
- E cerca
di non sbronzarti già dalla mattina…
- Una
birra non credo che faccia la differenza.
- Già…
la prima di una lunga serie.
Il viso di Russell s’indurì,
guardò Danielle con uno sguardo carico di rabbia,
quasi crudele.
- Pianatala
Danielle. Ne possiamo parlare stasera, ok?
Lei si voltò e tornò sui suoi
passi senza aggiungere una parola.
Dopo un’ora circa il prato che
abbracciava la casa era completamente invaso di
persone. Parenti, amici, un corollario di facce
sorridenti, di brindisi fatti di colli di bottiglie di
birra che tintinnavano uno contro l’altro, di
bicchieri di vino rosso, di risate e un rumoroso
mormorio di sottofondo.
Io me ne stavo in un angolo a bere
e a fumare tutta la mia tristezza che non era inusuale
balzasse fuori in occasioni come quelle. Oliver mi
raggiunse mentre si sbranava una costoletta.
- Ehi,
bellezza! Che ci fai qui tutta sola?
- Mi godo
il divertimento degli altri.
- Mamma
mia. Il festival del buon umore. Che è successo?
- Niente,
Oliver, niente. Sono solo… un po’ mesta.
Passerà.
- Me lo
auguro. Ma hai sentito queste costolette?
- Ma hai
sentito questo vino?
- A dire
il vero non proprio. Ho bevuto più birra che
altro. Sto per decollare.
Dopo una manciata di mezze ore, una
bella voce profonda mi richiamò alla realtà.
- Izzy!
Vieni, è il tuo dolce, pensaci tu, vuoi?
Mi allontanai dalla tranquillità
che mi ero ritagliata per quasi tre ore per immergermi
nella vita sociale.
Russell mi presentò meglio ai suoi
amici.
- Ehi,
amici! Questa è Izzy, un’amica di Oliver. Viene
dall’Italia! E ha preparato un dolce che ha una
faccia bellissima!
- Già…
- feci io - speriamo che sia altrettanto buono.
Avrei bisogno di un coltello e di un mestolino.
- Vado
io.
Russell si allontanò e tornò
dalla cucina con gli attrezzi che avevo richiesto,
quindi cominciai a tagliare la ciambella a fette
abbastanza sottili da porterla gustare ma da essere
sufficienti per il maggior numero possibile di persone
(per tutti non sarebbe sicuramente bastata) e aggiunsi
su ogni piatto che Russell mi porgeva mezzo mestolino
di crema. I tributi positivi non tardarono ad
arrivare.
- Ehi
Izzy! E’ buonissima!
- Davvero!
- Straodinaria!
- Ma usi
cioccolato o polvere di cacao per la ciambella?
- La
prossima volta fanne due!
- No, una
grossa il triplo!
- E
quadrupla razione di crema!
- Posso
passare il dito nella ciotola?
- Come
prepari questa crema?
L’ultima domanda mi scosse. Lui
era lì, che con la sua gladiatorea bellezza
raccoglieva briciole di cioccolato inzuppate delle
ultime stille di crema che aveva nel piatto.
- Faccio
una crema pasticcera e poi ci aggiungo panna
montata.
- Crema
pasticcera?
- Uova,
farina, latte aromatizzato con una stecca di
vaniglia.
- E panna
montata.
- E panna
montata.
- Panna
montata.
Fece una pausa mentre inseguiva una
briciolina che non voleva saperne di farsi mangiare da
lui.
- Izzy,
ti piacciono i bambini?
Arrossii violentemente. Non tanto
perché qualcuno mi avesse rivolto quella domanda,
quanto perché me l’aveva rivolta lui.
- Sì.
- Izzy…
- Cosa
vuoi? - il mio sguardo aveva più una connotazione
disperata che quella di una risposta.
- Domattina
devo venire a Sidney per incontrare il mio agente.
Ti va se ci vediamo per pranzo?
- Non
posso, ho una riunione alle 10,30 e il mio capo
vorrà sicuramente che lo accompagni al
ristorante.
- A cena,
allora?
- Non so
a che ora finisco, probabilmente tardi però.
- Izzy…
- Che c’è?
- Dimmi
di sì. Per favore.
Lo guardai. Aveva una
sfacciataggine che meritava un riconoscimento.
Rivolgeva un invito ad un’altra donna in mezzo a
tutta quella gente, parlando sì piano, ma sfidando l’udito
acuto sempre in agguato di qualche involontario
ascoltatore e soprattutto quello di sua moglie. Me lo
fissai per sempre nella memoria, la barba lunga, quel
detestabile berretto del suo gruppo, la camiciola “plaid”
di flanella aperta sulla t-shirt, ex-bianca, sulla
quale campeggiava uno schizzo di olio della carne
grigliata, i jeans sporchi. E sempre, delicato, appena
percettibile, il suo profumo. Non aveva lo sguardo di
un uomo che stava implorando, ma che decide di
mostrarsi indifeso al suo “nemico”, conscio di
quello che il nemico può togliergli così come di
quello che lui ha da donargli. Era sensuale, quasi
erotico. Deposi le armi. Che altro potevo fare.
- Lavoro
in Crown Street al 142. Giusto, magari lo sai da
te, visto che ci lavora anche Oliver. Non prima
delle otto.
- Le
otto?! Ma cosa vi fanno fare laggiù, avete i
ceppi e uno schiavista come capufficio?!
- Dopo la
riunione e il pranzo dovrò recuperare il casino
che si sarà accumulato sulla mia scrivania.
- Ci
sarò.
La bella giornata sul prato a
divorare bistecche di cavallo e a bere birra si snodò
per un’altra oretta, poi gli ospiti cominciarono ad
avviarsi verso le loro case. Russell approfittò
ancora di un momento di generale distrazione per
passarmi un foglietto in mano.
- Izzy,
questo è il mio cellulare. Chiamami qualche
volta, ok? E comunque ci vediamo domani.
- Va
bene. Grazie per la bella giornata, mi sono
divertita, hai una casa bellissima.
- No, non
ti sei divertita…
- No,
davvero, sono stata bene. Il bello delle case
grandi è proprio quello, che hai tanto spazio
dove poterti ritagliare uno… spazio per farti
gli affari tuoi.
- La mia
casa diventa bellissima quando c’è una bella
donna dentro. Ieri notte era bella Izzy, la mia
casa ieri notte era bellissima.
Oliver ci raggiunse.
- Izzy,
andiamo?
- Certo.
- Grazie
per essere venuti, Izzy grazie del vino e del
dolce.
In macchina mi appisolai. Alla
stazione di servizio aprii un occhio e scesi per farmi
un caffè, nel disperato tentativo di staccare la
lingua gonfia incollata al palato per il vino, la
carne e le sigarette fumate. Oliver mi raggiunse
mentre il benzinaio faceva il pieno.
- Ordinane
due.
- Già
fatto.
- Quando
dormi e ti svegli hai sempre una faccia orrenda…
- Grazie
Oliver, sei sempre un tesoro.
- Sei
più adombrata del solito…
- E’
soltanto sonno. Vuoi il cambio?
- Molto
incoraggiante… no, me la cavo alla grande.
- Come
vuoi.
- Tu non
insisti mai, vero?
- Ho
imparato negli anni a non rompere le scatole alle
persone.
- A te
però piace se la gente con te insiste.
- Questo
è un altro discorso.
- Può
darsi.
- Oliver,
cosa stai cercando di dirmi?
- Niente.
- Vuoi il
cambio alla guida? Vuoi che guidi al posto tuo
fino a casa?
- No.
- Perfetto.
Andiamo allora, sono già le dieci.
Durante la riunione dovetti
combattere strenuamente perché non mi si chiudessero
gli occhi. La mia stenografia era pressoché
illeggibile e io temevo per la rilettura. A pranzo
avvicinare un bicchiere di vino mi diede la nausea
quindi preferii pasteggiare con l’acqua. Charles, il
mio capo inclinò il suo capo verso il mio e sottovoce
mi chiese:
- Tutto
bene? Ti vedo un po’ spenta.
- Sono
andata ad un bbq ieri e sono tornata tardi. Sai
come vanno queste cose, si mangia tanto, si beve
tanto, si fuma tanto.
- Ti sei
divertita?
- Sì.
Pensa che sono andata a sbattere fino a Coffs
Harbour a casa di uno… bello però.
- Coraggio,
abbiamo quasi finito.
- Già…
a tavola però.
Il pomeriggio fu però talmente
pieno e faticoso che scorse via in un lampo. Alle otto
meno cinque mi rinchiusi nel bagno per ricostruirmi la
faccia e darmi una spazzolata ai capelli. Un quarto d’ora
dopo, di fronte alle porte a vetri della *** trovai
Russell, incurante del fatto di essere esposto così
al “nemico pubbico” che mi aspettava.
- Ma ci
vai elegantissima in ufficio! - mi baciò sulla
guancia.
- Solo
quando ci sono le riunioni.
- Stanca?
- Un po’.
- Hai
voglia di mangiare pesce?
- Volentieri.
Poco.
- Un
sushi bar?
- Se
possibile no. Non mi piace il pesce crudo.
- Ok,
allora ho in mente un altro posto. Andiamo, ho la
macchina qui vicino.
Salii sulla jeep. Ancora mi faceva
effetto dopo tanto tempo, salire dal lato dell’auto
dove, nel mondo cristiano, si trova il volante.
- C’è
un po’ di casino in giro…
- E’
strano, a quest’ora dovrebbe già essere
smaltito.
- Hai
fame?
- Non
proprio. No, non direi.
- Allora
niente aperitivo.
- Direi
che è meglio.
A tavola, in un ristorante
deliziosamente tranquillo e apparecchiato con gusto
squisito, leggevamo il menù in silenzio.
- Credo
che prenderò la spigola al cartoccio.
- Bevi un
prosecco?
- Non
più di un bicchiere.
- Ok.
Russell chiamò il cameriere, diede
la comanda poi incrociò le dita sul tavolo e corrugò
la fronte, elargendomi quel suo solito sguardo un po’
spaccone.
- Che c’è?
- Niente,
sono soltanto molto stanca.
- Izzy,
siamo sicuri che, tutto questo - e allargò
leggermente le mani ad indicare il nostro essere
fuori insieme - ti vada bene? Voglio dire… so di
aver insistito ma se effettivamente uscire con me
deve procurarti dei problemi o metterti in
imbarazzo…
- Ho
detto che sono stanca, è tutto.
Ecco, ancora una volta avevo chiuso
in modo troppo secco la conversazione. Me ne accorsi e
tentai di rimediare a quell’odiosa ma efficace forma
di difesa.
- Scusami…
- No, no…
scusarsi, e di che. Di essere chiari e diretti?
Per carità, reputo che sia un gran dono.
- Quando
sono stanca tendo a sragionare e poi…
- Cosa?
- Io…
oddio, spiegare questa cosa è sempre così
stramaledettamente complicato.
Lui aspettava pazientemente all’altro
capo del tavolo. Allungò le mani attraverso il
tavolo e prese le mie. Inizialmente mi innervosii ma
poi quel tocco ebbe su di me un effetto calmante.
- Io mi
difendo. Se c’è qualcosa che mi preoccupa o mi
spaventa mi difendo. Ho scoperto che una buona
dosa di scontrosità funziona a meraviglia.
Lui mi strinse le mani.
- Con
tutti tranne che con me!
- Non
cantar vittoria troppo presto… in fondo non sei
poi stato trattato tanto male.
- Vuoi
dire che puoi essere anche più rude di così?!
Mi strappò un sorriso.
- Non ti
nascondo di covare una certa preoccupazione.
- Per
cosa?
- Russell…
per il pubblico, per i tuoi fans e se non ricordo
male anche di fronte a Dio sei un uomo spostato.
Ricordi?
- Questa
è una cosa della quale devo preoccuparmi io, non
tu.
- Beh,
non sto tranquilla, ecco.
Infatti. Al fulmicotone lasciai la
sua presa appena intravidi una ragazza che si
avvicinava al nostro tavolo con un foglietto e una
penna. Cinguettando come una cinciallegra si scusò
poi si rivolse a Russell.
- Sig.
Crowe!! Potrei avere un autografo per favore?
- Per la
verità no, sono a tavola e sono impegnato.
Gli tirai un lieve calcio sotto il
tavolo e gli feci gli occhiacci. Mentre la pennuta
cercava di recuperare la delusione di quella risposta,
Russell capì le mie intenzioni, mi sorrise poi si
rivolse nuovamente alla ragazza.
- E’
anche vero che si possono fare delle eccezioni…
come ti chiami?
La pennuta si illuminò tutta e
riacquistò la sua garrulità.
- Sandra!
Sono una sua grande ammiratrice, sa? E oggi è il
mio compleanno e vorrei chiederle un bacio! Posso?
Russell, si fece scuro in volto e
io, delicatamente, gli toccai di nuovo lo stinco.
Dovevo averlo preso di taglio perché questa volta si
lamentò. Cominciai a ridacchiare.
- Certo!
Volentieri.
Si alzò e abbracciò e baciò la
trepidante cinciallegra che, con un regalo di
compleanno (se poi era vero) che non avrebbe mai
dimenticato, se ne tornò al suo tavolo.
- Scusa
per lo stinco. Reputo però che se dobbiamo fare
le cose per bene, tanto vale non farsi notare più
di tanto. Se qualcuno ti chiede un autografo forse
è meglio assecondarlo, ti pare?
Sorrise.
- Mi
sembra una buona strategia.
Finalmente arrivò il cameriere.
Mangiammo piano, parlammo a mezza voce di argomenti
futili, sorridendone e trovandoci d’accordo su
alcuni, meno su altri. La serata scorse in modo
piacevole. Sembrava impossibile. Eppure quell’uomo
era lì, seduto al mio tavolo e smentiva tutte voci
che si facevano sul suo brutto carattere e il suo
essere scontroso e maleducato. Era erudito, sereno e
simpatico, gli piaceva parlare di tutto tranne che del
suo lavoro, e a contorno di quella voce
impareggiabile, muoveva, in realtà molto più di
quanto lo facessi io, quelle sue mani piccole e non
bellissime, che spesso portava al mento a massaggiare
ossessivamente la barba e ogni tanto passava tra i
capelli a dominare un “boccolo” che gli scendeva
sulla fronte. Gli occhi erano di un blu intenso in
quella luce soffusa, ma il loro taglio, accentuato
dagli zigomi un po’ alti, lasciava intuire il
sedicesimo Maori di Russell e conferiva loro una luce
e una capacità comunicativa guizzanti e penetranti.
Aveva degli occhi incredibilmente intensi, con essi
parlava, rideva, rimproverava, a mio parere avrebbe
potuto uccidere se davvero avesse voluto.
Attraversando la strada prima di entrare al ristorante
mi aveva messo un braccio intorno alle spalle ed io
avevo girato il mio intorno alla sua vita. Sopra di
essa avevo sentito dei massicci muscoli trapezi e per
ironica contrapposizione ad essi la mia mano aveva
percepito una pancetta lievemente rilassata. Era
vestito in modo carino senza essere ultra elegante,
aveva una camiciola azzurra (naturalmente! Avevo
potuto conoscere negli anni la sua predilezione per le
camicie di quel colore) e un vestito grigio, niente
cravatta, niente maglietta intima, i polsini aperti,
come i primi due bottoni della camicia, dal suo petto
faceva capolino una collana di dubbio gusto etnico
(una specie di ciondolo legato ad una cordina
marrone), un bel paio di scarpe nere allacciate. E il
suo profumo. E doveva essere sicuramente profumo,
perché da quando l’avevo conosciuto non si era mai
rasato. Una specie di finto trascurato, secondo me,
lui sapeva di emanare un grande fascino e sceglieva,
salvo che per occasioni “comandate” tipo le
cerimonie, abiti di buon taglio portati in modo “disinvolto”
per eventi come quella cena e il casual straccione per
tutte le altre occasioni, che potevano anche includere
qualche intervista oltre a stare nel ranch e andare a
far la spesa.
E beh, tutto questo era di fronte a
me, seduto al mio tavolo e si chiamava Russell Crowe.
Mica male. Così tanto poco… “male” che non l’avevo
neppure ascoltato, l’osservarlo in un contesto così
“normale” mi aveva fatto perdere il senso della
realtà. Riemersi quando evidentemente, non risposi ad
una sua domanda.
- Allora,
Izzy, che ne pensi?
- Oh beh…
sono perfettamente d’accordo con te.
Sorrise.
- Tu non
mi stavi ascoltando.
Arrossii leggermente.
- Effettivamente
no.
- A che
pensavi?
Arrossii di più.
- Ah b-…
beh, io… Credo che… sì, ci sia una
spiegazione.
- A cosa?
- A
quello… quello a cui stavo pensando.
- Izzy…
- sorrise prendendomi le mani.
- Andiamo?
- Va
bene. Aspetta solo un secondo.
Si alzò presumibilmente per andare
a pagare il conto, io andai in toilette. Secondo me la
qualità dei ristoranti si misura anche dalla toilette
e quello era di qualità superiore, il bagno era nuovo
di zecca, profumatissimo, con “facilities”
interessanti e pratiche: di grande soddisfazione.
Quando tornai al tavolo trovai Russell che mi cercava.
- Al
guardaroba c’è il tuo soprabito.
- Grazie.
Mi aiutò ad indossarlo, poi
uscimmo e ci avviammo verso la macchina.
- Quando
sei in ufficio porti sempre tacchi così alti?
- E’
come il vestiario elegante Russ, se c’è una
riunione sì, porto i tacchi molto alti.
Si fermò e si mise di fianco a me.
Effettivamente riuscivamo praticamente a guardarci
negli occhi.
- Sì, ma
non esagerare… mi preoccupa accompagnarmi ad una
donna più alta di me.
- Io non
sono più alta di te, fingo solo di esserlo.
- Non ti
manca molto per riuscirci.
- Coi
tacchi divento 1,77. Ma non potrei mai metterne di
più di dieci centimetri.
- Stangona…
ti va di bere qualcosa ancora?
- Mi
piacerebbe Russell, ma sono davvero stanca morta.
- Peccato.
Andiamo, ti riaccompagno a casa.
Gli spiegai la strada e in una
ventina di minuti parcheggiò di fronte a casa mia.
Scesi dall’auto con le chiavi in mano. Lui balzò
rapidamente giù dalla jeep e fece per accompagnarmi
sull’uscio. Mi prese le mani tra le sue.
- Sono
stato molto bene stasera, grazie per aver
accettato il mio invito.
- Sono
stata benissimo anch’io Russell, grazie a te per
avermi invitato.
Abbassai lo sguardo. Era una forma
di cortesia quella che stavo per dimostrargli o un
cercare di tentarlo ad abbandonare la rettitudine
della vita matrimoniale? Quell’uomo mi piaceva da
morire, m’era piaciuto dal primo momento che l’avevo
visto e il desiderio di lui era sorto prepotente quasi
subito. Decisi che avrei limitato il tutto ad una mera
forma di educazione, quando venni preceduta.
- Izzy,
mi offriresti un bicchierino di scotch?
E con quegli occhi e quella voce
come negarglielo?! Misi la chiave nella serratura.
- Vieni.
Sentii la chiusura dell’antifurto
dell’auto e mentre entravo in salotto al buio
percepivo il suo respiro leggermente greve, frutto
forse di quella famosa pancetta e di tutte le
sigarette che si fumava. Accesi la luce, mi tolsi il
soprabito che buttai sulla poltrona e mi avviai verso
il bar.
- Accomodati
pure, - dissi, indicandogli il divano - ti avviso:
l’unico scotch che ho è molto molto torbato. A
me piace berlo così.
- Fantastico.
Ne versai un goccio in due
bicchieri e gli porsi il suo, mentre mi sedevo al suo
fianco. Lui si “svaccò” subito: fece scivolare il
sedere verso il bordo della seduta del divano e
appoggiò il collo e la testa al bordo dello
schienale. Bevve, schioccò leggermente la lingua,
emise un lungo sospiro e chiuse gli occhi. All’improvviso
mi sentii in imbarazzo. Era come se il desiderio che
avevo di quell’uomo fosse evidente, come se si
potesse vederlo dall’esterno. Divenni ancora più
rigida. Lui bevve un altro sorso di whiskey, poi mi
guardò.
- Tu non
ti rilassi nemmeno a casa tua?!
- Effettivamente…
credevo che mi sarei sentita così solo al
ristorante.
Lui posò il bicchiere e si
avvicinò, allungando il braccio sullo schienale del
divano e piazzandomi con decisione una mano sulla
nuca.
- Eri
molto più tranquilla al ranch… quella notte.
Forse, ricreando quella situazione…
- Russell,
io…
- Vieni
qui…
“Vieni qui”. Già sentirmi dire
“vieni qui” con un qualsiasi tono blandamente
lascivo mi faceva impazzire, qui c’era lui con
quella sua voce appiccicosa e baritonale, opaca di
fumo che avrebbe polverizzato la schiena di chiunque.
“Vieni qui”, e la sua presa sulla nuca,
corroborata dall’altro braccio che si chiudeva
intorno alla mia vita, si accompagnò ad un bacio che
solo per un puro formalismo fu iniziato a labbra
chiuse. Sentivo che teneva a bada il suo impeto a
stento, ero sorpresa nel constatare che una bocca all’apparenza
così piccola, potesse competere con la mia che era
tanto grande. Muoveva la mascella e la lingua come se
avesse dovuto divorarmi e col braccio intorno alla
vita mi avvicinava sempre di più a sé, l’aria
fuoriusciva dal naso spinta fuori, un po’ come… il
toro nell’arena. Dopo un primo momento di
perplessità e di imbarazzo, sciolsi le mie “riserve”
e allungai le braccia intorno alle sue spalle larghe e
toniche. Russ si fece ancora più inquieto e fisico,
poi si staccò da me, si accosciò, mi prese in
braccio e mi chiese: - Dove?
Gli indicai la strada per la camera
da letto. Mi ci adagiò piano, allargò i lembi della
giacca che indossavo e, abbassando con un dito il
collo a lupetto del maglioncino mi baciò sul collo.
Gli sfilai la giacca mentre sentivo che la lasciava
scivolare sul pavimento, per poi circondarmi la vita
col braccio massiccio. Mi spogliò in un battere d’occhio
e aprì le coperte sotto le quali mi infilai
rapidamente. Si sfilò i calzoni, e si sdraiò accanto
a me. Finalmente ci “rilassammo”, confortati dall’intimità
di quel luogo. All’improvviso cominciò a
sussurrarmi qualcosa.
- Oh,
Izzy… ti ho voluto tanto, davvero tanto. Fa’ l’amore
con me…
Gli passai una mano tra i capelli
e la feci scivolare lungo la schiena fino ad
arrivare alle sue natiche sode.
- Sono
qui Russel… sono qui…
Fu dentro di me in un baleno,
mascolino e impetuoso ed assecondare l’incedere dei
suoi lombi mi procurò un piacere intenso. Teneva il
viso nascosto nel mio collo, che abbandonava soltanto
per baciarmi la bocca, e mi sussurrava tenerezze
impareggiabili.
- Muoviti
piano, tesoro, muoviti piano…
Ubbidii alle sue richieste e
continuammo quella performance per una ventina di
minuti buoni, finché sentii il suo membro diventare
più duro e la sua schiena inarcarsi per poi
abbandonarsi al piacere più acuto. Gemette
leggermente quando venne e in una miracolosa, perfetta
taratura dei nostri corpi, venni anch’io insieme a
lui, aggrappandomi al suo torace e alle spalle larghe.
Rimase su di me, ansimante, mentre mi dava piccoli
baci sul collo, sul viso e sulla spalla.
- Tu…
tu mi hai fatto perdere la testa, sai?
- Non sei
stato da meno, Russell…
Restammo abbracciati ancora un
poco, finché lui dovette allontanarsi. Si alzò e mi
chiese dove fosse il bagno. Glielo indicai, lui si
assentò poi tornò a letto. Mi prese sotto il suo
braccio e rimanemmo così, a fissare la penombra
notturna che entrava dai vetri della finestra.
- A che
ora ti alzi la mattina per andare in ufficio?
- Alle
sei e mezza.
- Posso
restare?
- Credi
sia una buona idea?
- Ti
prego. Fammi restare.
- Mi
piacerebbe tanto se tu rimanessi.
Mi baciò la tempia e dopo dieci
minuti ci colse, esausti e soddisfatti, il sonno dei
giusti. |