"TRISTEZZA
MI INVADE"
Memorie della vita militare
scritte da Celeste Casanova Fuga Bola
(dal 1913 al 1915)
II - NOVEMBRE 1913
Una bella mattina fresca di novembre,
in cui il sole cominciava pigramente a pigliare il suo gran giro,
rischiarando languidamente la natura, il cielo cosparso di poche
nuvole, che il vento impetuoso spingeva nell'infinito, la tromba,
con il suo squillo, ci annunziava che era giunta l'ora dell'adunata.
I pochi coscritti che componevano la nostra compagnia cominciarono
a scendere le scale con gran fracasso, passando nel sottostante
cortile, il
quale era chiuso da quattro muraglie, che qualche centinaia di
anni addietro deve essere stato un monastero, ove rinchiudevano
tanti cuori di giovani fanciulle abbandonate dal mondo.
Mentre si era là tutti in riga, aspettando ordini per
andar fuori, ci venne all'orecchio un certo rumore, come di una
truppa in marcia, e all'istante stesso vediamo rientrare nel
nostro sepolcro un plotone di soldati dello stesso nostro corpo,
ma il colore del loro volto era tutt'altro che diverso. Avevano
una faccia color d'ebano, colla barba lunga e malcurata, facendoli
rassomigliare a tanti masnadieri delle calabrie: chi portava
in testa un elmetto tutto consumato e deformato, chi un berretto
di fatica, chi uno di quelli di panno, che lasciavano uscire
i capelli. Pareva una cosa molto strana per chi osservava un
po' attentamente, che un soldato si lasciasse ridurre in quello
stato.
Infatti sapemmo che venivano dalla Libia. Assieme ad un amico
mi avvicinai a un caporal maggiore per domandargli qualche novità
novità di quella terra e lui con piacere ci fece qualche
spiegazione, aggiungendo qualche episodio successo a lui stesso.
"Speriamo di aver la fortuna di cavarcela" dissi al
mio compagno "se no, se ci tocca partire anche noi per quelle
terre, paghiamo ben caro il nostro tributo". Il segnale
dato da un nostro sottufficiale di stare in riga sciolse il nostro
colloquio. Si formò un quadrato e nel mezzo stava il capitano
nostro, il quale ci raccontò tante favole e diceva che
facendo il soldato in Libia si poteva passarsela meglio che in
Italia. Poi volse lo sguardo attorno e disse: "Chi vuol
partire faccia un passo avanti". Nessuno voleva essere il
primo e per il momento nessuno si mosse, ma dopo una piccola
esitazione uscirono dalle righe una ventina.
Venne sera; tutto contento mi infilai la tenuta di libera uscita;
pensavo fra me: "per questa volta i volontari sono sufficienti
per la prima spedizione, intanto dopo sarà quel che sarà";
andai a trovare un amico per fare una piccola passeggiata assieme.
La notte cominciava a calare le sue tenebre, quando uscimmo dal
quartiere. Le strade e piazze erano tutte gremite d te d'ambo
i sessi, che si dilettavano della bella serata, passeggiando
sotto il chiarore dei lampioni, che scintillavano in ogni angolo.
Entrammo in una piccola trattoria, bevemmo un bicchiere di vino,
chiacchierando un poco assieme agli altri a e poi, essendo quasi
l'ora della chiamata, ci avviammo pian piano al quartiere. Arrivati
sul ponte girevole (che traversa il canale ove passano sotto
le navi) incontrai un mio camerata che mi disse: "cosa fai,
Casanova, che non vai a mettere a posto la tua roba, che domattina
dobbiamo partire". "Per dove?" dissi maravigliato.
"Per la Libia", mi rispose. Allora feci dietro front
assieme al mio patriotta e passammo il resto della sera assieme.
Rientrai un'ora dopo il silenzio colla testa un po' pesante ed
aiutato sempre dallo stesso affardellai lo zaino, andandomi poi
a dormire.
Avvolto nei più dolci sogni nella mia branda, venutami
già cara al pari del mio letto ove dormii per tanti anni,
il mio sonno venne interrotto dallo squillo della tromba che
suonava la sveglia e pareva ci dicesse: "alzatevi presto,
bravi andate e seguite l'esempio dei vostri fratelli e un giorno
potreste vantarvi d aver difeso la nostra cara Italia".
La notte era ancora buia, il cielo tutto stellato e mandava una
brezzolina fresca fresca. In fretta mi vestii, dando l'ultimo
addio ai miei camerati, scendei nel solito cortile, ove tutti
assieme legammo la nostra vita alla Patria col sacro e solenne
giuramento, indi salimmo sul treno partendo per Bari. Colà
avemmo una breve sosta e bastarono quei pochi istanti per farmi
sovvenire del mio caro paese e dei miei diletti. Vedevo il mio
caro padre in quella casetta lontana lontana, seduto vicino al
tavolino colla testa fra le mani, tutto pensieroso e taciturno;
a destra di lui vedevo le mie sorelle che discorrevano vicendevolmente
sforzandosi di parere allegre.
Alla volta del giorno seguente, un treno, composto di una cinquantina
di carrozzoni pieni di giovani vite, seguiva alla volta di Napoli.
Il cielo era tutto nuvoloso e la natura coperta da una nebbia
fitta ed una pioggerella fine fine cadeva pian pianino, facendo
parere la natura tutta verdeggiante, come sul principio della
primavera. Ecco che siamo giunti alla stazione e si cominciava
a vedere la grande città di Napoli. Scendemmo dal treno
sotto una pioggia torrenziale, proprio che Dio la mandava e ci
infilammo pian piano per quella via melmosa della stazione e,
traversando la città sempre con l'acqua che cadeva sopra
le spalle, giungemmo al magazzino dei rifornimenti per la Libia.
Dopo aver ricevuto alcuni oggetti di corredo ci avviammo verso
il porto. Dinanzi pochi passi da noi si riposava il gran gigante
del mare, che ci doveva portare nella lontana Africa: un transatlantico
moderno della portata di trentamila tonnellate. Ad uno ad uno
salimmo pian pianino, tutti timorosi di cadere e, dietro l'ordine
dei nostri superiori, occupammo una branda ciascuno, che doveva
servire come nostro giaciglio per alcuni giorni. Assicuratisi
di avere tutto a posto, salimmo a poppa per guardare per l'ultima
volta il bel suolo italiano.
Il cielo era ancora nuvoloso, ma la pioggia era cessata; tirava
un venticello da settentrione, un poco frizzante, che ci faceva
pungere la punta del naso, ed anche il nostro dio del mare si
dondolava involontariamente , facendo girare la testa anche a
noi, perché non si era abituati. Ma nonostante ci fosse
poco gradevole rimanere di sopra, la nostra curiosità
non volle osservare niente, né freddo né capogiro;
volle approfittare ancora degli ultimi istanti per osservare
maggiormente. Dinanzi a noi stava il mare immenso,che mormorava
con un insensibile fragore; pareva volesse travolgere alcune
barchette pescherecce, che ritornavano dalla pesca, per tradurle
nei suoi infiniti abissi.
Alle cinque di sera si sentì un gran fischio: era il segnale
della partenza. Allora fu tutto un vociare da ogni parte: chi
sventolava un fazzoletto, chi il cappello, dando l'ultimo arrivederci
all'immensa Napoli, col cuore impresso da mille pensieri. I l
bastimento cominciò a navigare con forza e la terra spariva;
si vedeva distintamente solo il vulcano Vesuvio, che gettava
il alto il fumo somigliando ad un immenso camino. Dopo cinque
giorni di navigazione, che furono lieti, giungemmo al porto destinato.
Erano le undici quando si cominciò a vedere terra. La
nostra vista distingueva lontano lontano dei piccoli punti, come
indizio di abitazioni umane. Si girava di qua e di là
credendo di veder meglio, tutti curiosi di sapere se era la zona
dove si doveva sbarcare. Intanto il tempo passava ed il bastimento
si avvicinava sempre di più alla terra.; la nostra curiosità
fu presto appagata. Non una pianta si poteva vedere, sulla costa
massimamente non si vedeva altro che sassi. Lontano lontano si
scorgeva un immenso costone coronato di piccole e grandi fabbricazioni,
che più tarsi sapemmo essere la linea di difesa più
lontana, composta di forti e fortini. Più dietro si vedeva
una lunga linea di muro, seguita, due decine di metri più
lontano, da un reticolato molto intrecciato: erano le trincee
che traversavano la piccola penisola in cui era situata la zona,
chiudendo ogni passaggio per l'interno, in modo di assicurare
le nostre posizioni, e anche impedendo la fuga a quelle bestie,
come soliamo dire noi. Ecco che si cominciava a rientrare pel
golfo del porto, ed il nostro bastimento rallentava la sua velocità,
e pian piano si fermò, circa cinquecento metri lontano
dal paese. Per mezzo di alcuni barconi ci trasportarono a terra.
Quale spettacolo fu per me ritrovarsi tra tanta miseria. Il paese
era composto da una mezza dozzina di case, fatte con fango e
sassi; poi c'erano le baracche ove alloggiavano i soldati, che
formavano un bel villaggio esse sole. Mentre si traversava la
banchina del porto per prendere la strada principale, il cielo
cominciò a scurirsi ed un vento soffocante, proveniente
dal deserto, fece scatenare un terribile uragano e nessuno poteva
vedere più niente. Si cominciò a disperdersi per
quelle misere vie, trovando un rifugio per ripararsi un po' alla
meglio. Intanto il cielo cominciò a farsi sereno, lasciando
scorgere a poco a poco la sua stella, che ci ridonò un
poco la nostra gaiezza. Riordinatisi poi, a forza di girare,
giungemmo ai baraccamenti destinati. La penna non può
descrivere l'impressione che ci fece entrando nelle nostre future
abitazioni. Con i primi passi fatti innanzi ci pareva un po'
pulito, ma appena i nostri sguardi si voltarono in direzione
delle nostre gambe, con nostra somma meraviglia, vedemmo che
i nostri pantaloni avevano cambiato colore, da grigio verde erano
diventati color caffè e in un momento si vide che tutti
facevano dei movimenti insoliti: chi si grattava da una parte,
chi dall'altra, maledendo il cielo africano con Maometto assieme.
Venne sera e stanchi della giornata cominciammo a preparare il
nostro soffice letto, composto d'un morbido tavolaccio e pian
pianino ognuno, dopo i soliti discorsi, si pose a dormire. La
notte aveva avvolto tutto nelle sue tenebre e tutti cominciavano
a dormire placidamente. Di quando in quando si sentiva qualcuno
che parlava da solo e volgeva lo sguardo di qua e di là,
come volesse squarciare le tenebre, per vedere chi fosse che
veniva a destarlo. Venne anche la volta per me: sopra la testa
avevamo tutta la nostra roba e, mentre dormivo, mi sentii arrivare
in sul capo un fardello di roba, e tra quello un insolito girare
sopra le coperte e nello stesso tempo quattro piedini freschi
freschi e una lunga coda passarmi sulla faccia. Un brivido mi
corse per le ossa ed emisi un piccoli grido; poi accendendo un
po' il lume volli osservare un poco chi era questo persecutore;
con somma mia sorpresa vidi che correvano a greggi per quelle
pareti, delle greggi intere e le conobbi subito, ridendo della
paura passata. Ma un po' per giorno passarono tutte queste impressioni
e queste cose ci divennero familiari. Intanto cominciarono a
farci fare i soliti esercizi che ci facevano in Italia e questo
mese dovette lasciare il suo posto al nuovo dicembre. |