Storia di Costalta


"TRISTEZZA MI INVADE"
Memorie della vita militare
scritte da Celeste Casanova Fuga Bola (dal 1913 al 1915)

XIX - GIUGNO 1915

Dopo aver bevuto quell'ultima goccia di caffè (oppure acqua di lavature, come si suol dire), la tromba fece sentire il suo squillo, invitandoci a passare in riga per la partenza. Si doveva fare una piccola ricognizione per la protezione dei pascoli, dove i ribelli ogni tanto attaccavano le greggi.
La giornata si presentava pessima; già di mattina il vento faceva alzare per l'aria dei grandi nuvoloni di sabbia, facendo rassomigliare a quelle grosse nebbie che si vedono al tempo delle piogge primaverili dalle nostre parti.
Il sole cominciò a far sorgere a poco a poco i suoi raggi, innalzandosi nel firmamento. Essendo tutta la compagnia radunata, si partì. I soldati, freschi come tante rose appena sbocciate, nonostante il ghibli continuasse a venirci in faccia, facendo proferire anche ai più pazienti qualche bestemmia al dio Maometto, seguitavano a cantare delle canzoni che piacciono tanto ai cuori giovanili. Intanto i raggi solari cominciavano a scaldare la natura, facendo scendere il sudore dalla fronte; così, con l'aiuto della polvere si cominciava a pigliare un colore giallastro.
Lungo il cammino non si ebbe nessuna molestia dai nostri nemici, ma quando arrivammo al posto in cui eravamo destinati per passare il resto della giornata, si cominciò a vedere lontano dei cavalieri, che gironzolavano di qua e di là, avvicinandosi sempre di più a noi. Ma assieme alla compagnia ci stava ancora una squadra di indigeni, cavalieri nostri, che subito montarono in sella e, dopo una piccola scarica di fucileria, si videro i nemici scomparire.
Un paio d'ore dopo eravamo di nuovo ai nostri alloggi, tutti intenti a pulirci e cambiarci per la libera uscita. Tutti lieti ci stavamo infilando i panni di festa, come si suol dire scherzando, che entrò il nostro comandante di plotone. Il primo soldato che si trovava sulla porta diede l'attenti e non si vide più nessuno muover ciglio. Dandoci il riposo, il tenente ci annunciò che si doveva partire subito e quindi si doveva preparare all'istante la roba a posto. Mezzora eravamo tutti pronti, quindi tutti col proprio fardello in spalla ci avviammo verso il porto. Dopo cinque lunghe ore di aspettativa noiosa, finalmente, per mezzo di una barchetta, fummo trasportati a bordo di un piccolo piroscafo, sul quale si passò la notte intera sopra coperta, seduti alla meglio fra i bagagli.
Alle cinque di mattina si giunse vicino a terra, ma per sbarcare e scendere a terra si dovette montare in groppa agli arabi, perché i comandanti non volevano che ci bagnassimo i piedi, e in quel posto non c'era nessun punto in cui la barca potesse toccare terra.
All'una pomeridiana si partì dal porto, giungendo all'accampamento dopo un'ora di cammino. Una ridotta della superficie di duecento cinquanta metri per ottanta, composta di alloggiamenti tutti in legno, un grande disordine, una sporcizia da far ribrezzo, e noi per la seconda volta dovemmo piantare le tende e dormire per terra.
Appena la notte stese il suo velo, si cominciò a sentire delle fucilate in lontananza: erano i ribelli che scorrazzavano per tutta la notte per prendere i sottomessi.
I giorni seguenti furono fatti molti prigionieri, che furono spediti al tribunale di Bengasi e qualcuno venne fucilato.


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