"TRISTEZZA
MI INVADE"
Memorie della vita militare
scritte da Celeste Casanova Fuga Bola
(dal 1913 al 1915)
XX - LUGLIO 1915
Soffiava uno zeffiro di un pomeriggio
sereno del mese di luglio. Il sole volgeva al tramonto e dopo
due ore al massimo avrebbe disceso l'orizzonte. Era uno splendido
sereno e la caldura della giornata veniva temperata da un soave
venticello crepuscolare, che invitava la gente ad uscire dai
loro abituri per respirare a pieni polmoni quel balsamo ristorante.
Dopo aver terminato di consumare il rancio, soletto mi misi a
passeggiare lungo la ridotta. Ad un tratto il mio sguardo si
posò su di una lunga striscia nera, avvolta in un nuvolone
di polvere, che avanzava celermente in direzione della ridotta
nostra. Meravigliato mi domandavo cosa ci fosse di nuovo a indurre
dei combattenti a muoversi dal loro presidio in così tarda
ora. Difatti in men che credessi li vidi entrare nel forte: era
una compagnia del 68°, montati su autocarri. Mi avvicinai
ad uno e gli feci alcune domande; seppi che essi venivano di
rinforzo alla ridotta, perché la mattina seguente il battaglione
doveva partire per una lunga ricognizione, per proteggere una
compagnia di ascari provenienti da Bengasi, che in quella località
erano di continuo insediati dal nemico.
Dopo i soliti preparativi e dopo essermi divertito un po' con
le solite birbonate tra noi compagni, venne l'ora del silenzio
e mi posi a dormire, sognando una bella fata dai capelli d'oro,
vestita a tricolore. Ancora le tenebre della notte avvolgevano
la natura, che la tromba col suo squillante suono ci invitava
ad alzarsi, perché dopo mezzora al massimo si doveva partire.
Tirava un venticello leggero dal deserto e man mano che l'aurora
s'avanzava, si faceva sempre più impetuoso. Avendo inteso
dagli ufficiali che per il primo rancio si doveva trovarsi a
casa, una buona parte dei soldati partì sprovvista di
acqua e digiuna. Appena fatto giorno partimmo in tre compagnie,
scortati da una sezione d'artiglieria. Lungo la marcia in avanti
ogni casa andò bene, quantunque il ghibli ci incalzasse
con tale violenza, che sembrava volesse sollevare per aria anche
noi. Dopo un percorso di quindici chilometri si fece un alt e
si aspettava che questi ascari dovessero venire da un momento
all'altro. Ma non fu così; aspettammo un'ora, due ore,
ma non si vedeva nessuno a comparire. Intanto quella piccola
provvista d'acqua che aveva fatto la truppa (due botti d'acqua
su un camion) si era consumata e già la maggior parte
dei soldati si trovava sprovvista. Il ghibli continuava a soffiare
terribilmente; in faccia non ci arrivava più la solita
sabbia, ma giungevano anche dei piccoli sassettini, che ci resero
molto tormentoso i; il tempo che si rimase colà. La gola
cominciava a seccarsi, una goccia d'acqua non c'era più
per bagnarla; e questi ascari non si vedevano più arrivare.
Finalmente, come Dio volle, lontano, lontano, si cominciò
s vedere delle pattuglie a cavallo che avanzavano anch'esse fiocamente.
Mezzora dopo giunsero tutti e si seppe che il loro ritardo era
stato cagionato da una cinquantina di cavalieri beduini, che
avevano tagliato loro il passo e, dopo averli sbaragliati, proseguirono
il loro cammino. Poverini, erano tutti affaticati, smorti, assetati
e appena giunsero cominciarono a girare qua e là, da uno
all'altro, cercando un po' d'acqua: ma invano, perché
nessuno ne aveva più.
A poco a poco le compagnie cominciarono a ritirarsi e ogni mezzora
dovevano fermarsi per cagione che gli ascari non ce la facevano
più ad andare avanti. La sete cominciò a tormentare
anche noi. La gola pareva cominciasse a prender fuoco, in bocca
si era formata una pasta che rendeva impossibile la respirazione,
e per aprirla si sarebbe dovuto fare come con un ammalato, adoprando
gli stessi mezzi. Ma ugualmente si andava avanti, inconsapevoli
di quello che si presentava dinanzi a noi, che se per caso si
fosse stati attaccati, una maggior parte si sarebbe fatta sgozzare
come agnelli. Sì, è vero che ognuno in quei momenti
si appella a tutte le proprie forze e fino a che gli resta una
goccia di sangue nelle vene non se lo fa versare senza prima
averlo fatto pagare ben bene.
Dopo tre ore di marcia, sfiniti del tutto, giungemmo ai primi
palmeti, ognuno dei quali è provvisto di pozzi artesiani,
ed allora ognuno si procurò la sua ghirba d'acqua, trangugiando
fino a non poter più camminare. Due ore dopo, giunti al
forte, tutta la stanchezza era passata ed anche i patimenti della
giornata erano già svaniti: nessuno si ricordava più
di niente.
Una settimana dopo, cioè il giorno nove, si ebbe un'altra
marcia, più lunga ma meno faticosa. In questa, avevamo
il compito di chiudere la ritirata al nemico, che doveva essere
attaccato dalle nostre truppe di Bengasi. Ma non si eseguì,
perché il nemico si trovava in maggior forza.
Le notti trascorrevano più o meno lente, eccetto quella
del dodici, poiché alcune tende di sottomessi erano fuggite,
dandoci l'addio con una salve di fucileria, che fu riscontrata
dai nostri con una nutrita scarica e fece correre i nostri all'armi
per tutta la ridotta. Anzi mi ricordo che, con quei quattro che
eravamo sotto la tenda, si discorreva appunto di queste cose,
scherzando l'un l'altro, mentre cominciarono i primi colpi, e
quando la fucileria si accelerò ed un titii
titii
si fece sentire, chi in camicia, chi ignudo, chi scalzo, corremmo
al nostro fucile, occupando la feritoia più opportuna;
alcuni spararono qualche colpo, altri no e mezzora dopo era tornato
ancora tutto in silenzio. Questi sottomessi, accolti improvvisamente
da quella scarica nostra, abbandonarono tutto e si diedero a
precipitosa fuga.
Sorgeva l'alba del giorno ed ero ancora avvolto nei più
dolci sogni, quando un mormorio continuo di voci venne a colpirmi
all'orecchio. La sveglia era appena suonata. Mi vestii adagio
come al solito, perché bastava essere preparati per le
sei. Uscii dalla tenda e mi pareva di sentire come dei colpi
di cannone, ma non fece alcun caso, mi lavai con comodo e me
ne andai al lavoro. Questo rombo, però, si faceva sentire
di frequente e man mano che si alzava il sole i colpi si susseguivano
uno all'altro senza tregua. Intanto vedevo correre qua e là
degli ufficiali, tutti premurosi ed un momento dopo il mio caposquandra
mi fece cenno di seguirlo.
Giunsi vicino alle tende e vidi che la compagnia era in riga;
mi misi a tracolla il mio tascapane pieno di cartucce, con un
fiasco d'acqua, e brandendo il fucile mi misi in riga anch'io.
Subito dopo si iniziò la partenza. Si percorsero cinque
chilometri senza nessun incidente, ma al sesto le pattuglie di
cavalleria cominciarono a sparare. A poco a poco cominciarono
ad entrare in azione anche gli ascari, poi l'artiglieria, poi
anche la fanteria, che con alcune scariche ben nutrite di fucileria
ed una ventina di colpi di cannone sbaragliarono quella banda
di straccioni, inseguendoli per qualche chilometro. Però
dove sparavano i cannoni al mattino, cioè una ridotta
a trenta chilometri dalla nostra, c'era stato un attacco più
forte, sicché diedero al nemico una ingente perdita.
Qui termina il diario dei
giorni in terra di Libia del soldato Celeste Casanova Fuga Bola.
Egli non annotò più i successivi spostamenti.
Si sa che fu imbarcato per il ritorno in Italia, spedito al fronte
orientale, dove conobbe veramente cosa significasse guerra di
trincea, povero strumento messo lì sul Carso, insieme
a migliaia di altri giovani, vittime della follia del potere.
Morì un giorno di primavera del 1917, probabilmente per
lo scoppio di una granata.
E' verosimile che i suoi brandelli di carne, come quelli di tantissimi
altri giovani, non siano nemmeno stati sepolti.
Ma la sua anima, così sensibile e brillante, ha superato
l'oblio, giungendo fino a noi attraverso le parole scritte sulle
pagine di un quaderno. |