Storia di Costalta


"TRISTEZZA MI INVADE"
Memorie della vita militare
scritte da Celeste Casanova Fuga Bola (dal 1913 al 1915)

XV - DICEMBRE 1914

Era di sera, la notte cominciava a stendere le sue tenebre; il cielo, tutto coperto di dense nubi, attendeva da un momento all'altro di versare il suo diluvio di pioggia. E noi, cinti a gruppi di qua e di là, tutti dimentichi delle fatiche passate e venture, discorrevamo gaiamente, scherzando a vicenda.
I nostri ragionamenti consistevano sovrappiù sulle condizioni in cui ci trovavamo, su questi luoghi da parte nostra ed anche del nemico. Di fatto si parlava del nemico, che di giorno in giorno andava sempre più rafforzandosi ed avvicinandosi alle nostra posizioni, rendendole molto critiche per noi, sicché non potendo avere rinforzi per cagione della guerra europea, ci si dovette ritirare dalle ridotte più lontane e ci toccava sacrificarci tutti i giorni andando di scorta la carovana, per ritirare viveri, munizioni ed altri materiali, facendo una marcetta di quaranta chilometri.
La mattina del quattro, al solito si doveva partire prima del giorno, con qualsiasi tempo. E alle quattro suonò la sveglia. Come per tutta la notte, il cielo seguitava a buttar giù pioggia, ancora scuotendo con gran frastuono la tettoia della nostra baracca. Cominciammo ad infilarci i nostri panni tutti umidi e pian pianino si avvicinava il momento dell'adunata.
In questo momento cominciò a tirare un vento impetuoso, che fece cessare subito la pioggia, e cominciammo a passare in riga, lieti lo stesso, perché pareva che il tempo promettesse una buona giornata.
Partimmo tutti avvolti nelle nostre mantelline e cominciammo a marciare con un passo svelto, per allenarci un poco i nervi tutti intirizziti dal freddo. Appena giunti sull'altopiano dopo un'ora di marcia, il cielo cominciò ad iscurirsi daccapo e la pioggia a cadere a torrenti, come è solito in queste terre. La pianura dove si marciava era tutta allagata ed anche noi, nonostante le nostre mantelline, eravamo bagnati come tanti pulcini fino alle midolla delle ossa. Eppure ci toccava marciare, e ancora con un passo da sette chilometri all'ora.
Finalmente dopo quattro ore di cammino arrivammo al punto destinato. Qui si dovette aspettare due ore per l'arrivo della carovana, che a stento veniva avanti s causa del gran fango, mentre ancora l'acqua ci cadeva addosso. Non saprei come un corpo umano potesse sopportare tanto, senza prendersi qualche accidente.
Senza aver avuto nessun brutto incontro, a mezzogiorno in punto volgemmo i nostri passi verso i baraccamenti, ed avemmo la stessa sorte lungo il ritorno.
La penna non può descrivere in che modo siamo arrivati: pareva che tutto il fango delle strade avesse avuto a cottimo ad attaccarsi sui nostri panni e tutti avevamo un volto pallido, come tanti cadaveri cavati dalla tomba. Sicché la mattina dopo, per premio, ci fecero lavorare tutta la giornata a formare delle stradicciuole.
Questo lavoro così faticoso durò cinque giorni difilati, ma il tempo ci favorì di più. L'ultimo giorno si vide queste due ridotte saltare in aria con mine fatte da noi, perché dopo la nostra partenza il nemico non si appropriasse, dandoci maggiore scomodità con le sue insidie. Come avvenne una decina di giorni dopo, quando si erano già accampati qualche centinaio di questi beduini, i quali scambiarono piccole scariche di fucileria con i nostri zaptié (gendarmi indigeni), che non ebbero nessuna conseguenza.
Le nostre posizioni divennero giornalmente peggiori e furono sentite per parecchie notti delle scariche di fucile, alle quali i nostri una volta risposero con una cinquantina di cannonate ed alquanti nastri di mitragliatrici, ma con nessun effetto. Per parecchi giorni si dovettero fare delle piccole ricognizioni e si fecero dei tiri col centoquarantanove, terminando di demolire le muraglie abbandonate.
Il Natale passò lietissimo, seguito da due tre baldorie, e intanto si avvicinava la fine dello strepitoso anno 1914.


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