"TRISTEZZA
MI INVADE"
Memorie della vita militare
scritte da Celeste Casanova Fuga Bola
(dal 1913 al 1915)
X - LUGLIO 1914
Il caldo si era calmato, ma in
questo mese si ebbe fortuna di salire sui forti, dove l'aria
è un po' più fresca ed il ghibli non si fa vedere
così terribile. Sicché il secondo plotone, al quale
appartengo io, era destinato a presidiare il fortino nuovo. Colà
si giunse lieti e, dopo aver preparato il nostro letto automatico,
ci accingemmo tutti insieme a raccontarcela.
Era la sera del dieci. Il sole, stanco del suo gran viaggio,
andava nascondendosi a poco a poco dietro le dune che dominano
l'immenso Mediterraneo. La notte, approfittando dell'assenza
dei due potenti astri del cielo, cominciava a stendere triste
il suo fitto velo.
Io ero sulla torretta di questo fortino (settore orientale, che
domina tutta la zona di Tobruck), e mi dilettavo a guardare quel
mare calmo e placido come una lastra di cristallo, con quella
spiaggia dilettevole e silenziosa, tutta ornata dei suoi scogli
eterni e da grotte pittoresche. Volgendo lo sguardo a destra
e a sinistra, mi trovavo sempre solo in mezzo a un gran silenzio
sepolcrale. Soltanto di quando in quando mi giungeva all'orecchio
il grido stridulo e monotono di qualche sciacallo, che tutto
affamato girava fra quelle lande aspre e sassose, cercando un
boccone e chiamando i compagni, che a vicenda formavano un tale
schiamazzo, che, per uno che non l'avesse mai sentito, era da
prendere una bella paura.
Ad un tratto mi venne all'orecchio un bisbiglio insolito, proveniente
dal sottostante cortile, dove i miei compagni stavano passando
la serata. Trattenni il respiro ed ascoltai attentamente. Cos'era
di nuovo? Nient'altro che la mattina seguente si doveva partire
per una ricognizione. Alzai le spalle e dissi fra me: "passerà
anche questa
".
Passai le mie dodici ore di guardia tranquillo; intanto la nuova
aurora cominciava a spuntare. Era una bella mattinata di luglio
ed il sole a poco a poco stendeva i suoi cocenti raggi, abbracciando
la natura. Tirava un'aria settentrionale un po' fresca. I caporali
cominciavano a gridare: "In riga!". Tutti, come un
solo uomo, gettarono a tracolla il proprio inseparabile tascapane
pieno di cartucce, allacciando le giberne e impugnando il fido
amico, il fucile.
La forza era formata da un migliaio di uomini, cioè un
battaglione e mezzo di fanteria, una sezione di montagna e una
di mitragliatrici, con un plotone del genio, comandati dal nostro
tenente colonnello Vigevani.
Camminammo per due ore consecutive, poi ci venne l'ordine di
fermarci. Infatti eravamo rimasti di collocamento tra il forte
"Capitano Marcucci" e la truppa. Quantunque fossimo
ancora nelle prime ore mattutine, il caldo si faceva sentire
già molto intensificato. Indi raccogliemmo alquante fronde
di cespugli e, con l'aiuto dei fucili, facemmo una piccola ombra
per ripararci almeno la testa. Colà rimanemmo per due
ore e, mentre si stava consumando quel po' di carne che avevamo
con noi, vedemmo il nostro tenente venire di corsa. "Coraggio
ragazzi- disse- dopo tanto tempo, oggi avremo la fortuna di batterci
col nemico". L'avanguardia era stata attaccata da un'orda
di duecento beduini. Ci mettemmo in ordine subito , ed ansiosamente
aspettavamo di avanzare, di raggiungere i nostri compagni. Ma
quel giorno il destino non volle che la quarta compagnia misurasse
il proprio braccio.
Passò mezzogiorno e niente più si seppe ed all'una
si avanzò un poco e già si cominciava a sentire
il rombo del cannone e lo scoppio dei suoi formidabili proiettili.
Verso le tre di sera il genio eliografista ci portò un
ordine di, avanzare subito. Partimmo tutti contenti, sperando
di poter versare il nostro odio su quelle bestie.
Cammin facendo si incominciò a trovare i primi fuori combattimento.
Allora i nostri cuori si accesero d'ira e cominciammo ad avanzare
di corsa. In men che si credette percorremmo cinque chilometri
e finalmente arrivammo sulla linea di fuoco. "A terra",
gridò il nostro comandante di compagnia, e non si vide
più nessuno in piedi. Aspettavamo l'ordine per fare fuoco.
Ma il comandante di compagnia, per non sprecare munizioni, essendo
il nemico troppo lontano, aspettava che si avvicinassero per
poter fare più effetto. Ma queste bestie, vedendo giungere
rinforzi da parte nostra, cominciarono a ritirarsi. Di fronte
a noi si vedeva ancora qualche decina di guerrieri, chi a piedi
e chi a cavallo, che, sparando gli ultimi colpi, se la svignavano.
Intanto noi a poco a poco cominciammo a ritirarci, delusi dalle
nostre speranze.
Rientrammo ai nostri stambugi a notte inoltrata, un po' stanchi,
ma contenti lo stesso per aver compiuto il nostro dovere.
La mattina seguente si seppe che erano caduti sul campo una ventina
dei nostri, un ufficiale ed un soldato morti e tra i feriti anche
un capitano, un soldato disperso, della cui fine non si seppe
più niente. E da parte del nemico non si è potuto
sapere il numero, certamente saranno rimasti sul terreno qualche
cinquantina.
Il resto del mese passò colle solite occupazioni. |