DELLE DOLOMITI BELLUNESI (Saggio del prof. Adeodato Piazza Nicolai)
La cultura di un paese è ancorata nella
sua letteratura, e ogni letteratura ha le sue radici nella poesia,
che storicamente ha sempre preceduto la narrativa. Le culture
antiche dell'Oriente (Cina, Giappone, India, ecc.) ci hanno lasciato
testi poetici fondamentali (lo I Ching, i Veda, le Upanisad,
la Bhagadavadita) tutti in forma poetica. Lo stesso vale per
la letteratura Occidentale, da Omero a Ovidio, dai cicli epici
irlandesi e scandinavi alle gesta di El Cid e del Roman de la
Rose, e ovviamente, per la nostra tradizione, la Divina Commedia
di Dante. Lo stesso vale per le civilizzazioni antiche delle
Americhe, per gli Incas, gli Aztechi, fino agli amerindiani odierni.
Varie sono state le spiegazioni di perché la poesia è
nata prima della prosa. Tra le più ovvie: la struttura
ripetitiva del verso assiste alla funzione mnemonica. Attraverso
la ripetizione di parole e immagini aiuta a memorizzare eventi,
storie e racconti tramandati prima attraverso la tradizione orale
(dal cantastorie, dal griot africano, dal bardo celtico, ecc.,)
e più tardi trascritte con un codice linguistico. E' una
funzione che dipende essenzialmente dalla musicalità della
parola e del verso, creata con l'uso del ritmo, delle rime, delle
assonanze e di varie altre figure retoriche. Canzoni, odi, filastrocche,
ritornelli, gesta venivano cantate in occasioni speciali e la
loro struttura lirica-ripetitiva aiutava i menestrelli, i Minnesinger,
i troubadors a ricordare. Spesso si accompagnavano con qualche
strumento musicale. I cantastorie e i cantautori odierni sono
gli eredi di questa tradizione. Questa presentazione non pretende di analizzare le superiorità e/o inferiorità della lingua verso quella dei vari dialetti, al contrario riconosce al minimo una "complementarietà" e al massimo una parità fra di loro. Parte dalla premessa che ogni lingua parlata e scritta ha il suo valore individualmente originale che può fare da base ad una letteratura sui generis. Insisto sul può, dato che non sempre una lingua ha saputo o sa generare una letteratura. Nel caso delle parlate ladine delle Dolomiti Bellunesi, un dato storico da ricordare è che nel Veneto "la percentuale degli analfabeti era nel 1860 del 65%" . Perciò, dal 1860 fino alla fine del 1950, nelle valli cadorine il ladino rimase la "lingua ufficiale" parlata dalla maggioranza, per ragioni sia pratiche sia storiche. Nel 1873 il Prof. Antonio Ronzon così identificava le motivazioni per l'uso del dialetto cadorino: Sacra cosa è il dialetto ad un popolo,
più ancora che il comune linguaggio [l'italiano], Se a prima lettura ciò sembra una giustificazione neoromantica: un ritorno ad un linguaggio balbuziente dell'infanzia, quel Petél reso famoso dal poeta Andrea Zanzotto, sono infatti gli attributi di "purità", di "ingenuità", di "freschezza vergine" e direi anche di originalità che fanno dei dialetti un nuovo veicolo di espressione, di sperimentazione linguistica che neutralizza "l'affettata ipocrisia" e la pauperizzazione della lingua nazionale, causata anche dai mass media. Per la maggior parte degli italiani, la lingua nazionale è stata imposta dall'alto, dal di fuori (come tuttora la realtà geopolitica sembra imporci la conoscenza dell'inglese). Ma, continua il Prof. Ronzon, "la scala alla lingua può bene esser il dialetto; giacchè si deve ritenere che non già i dialetti nascono dalla lingua, bensì la lingua dai dialetti, come la nazione dalle famiglie. Prima della lingua nostra comune (cioè l'italiano) erano i dialetti, e ben disse Dante quando chiamava la lingua italiana quella che in ciascuna città si trova e in nessuna riposa. Pregio principale d'ogni lingua è la sua spontaneità, vale a dire la sua sollecita e perfetta corrispondenza al pensiero; ora qual linguaggio trovar si può più spontaneo del dialetto? " E nell '800 furono proprio le persone meglio educate che, nelle valli dolomitiche, intuirono la necessità di comunicare con gli abitanti nella loro parlata, usando il vernacolo locale che più fedelmente comunicava i concetti, i pensieri, le idee come pure la storia. Perciò furono alcuni preti e alcuni professori situati nei villaggi e nei paesi agordini, ampezzani, alpagotti, cadorini e comelicensi che si impegnarono a tradurre, a "convertire" in dialetto brani dal Vangelo, alcuni canti della Divina Commedia, come anche il Canto VII della Gerusalemme Liberata, "Erminia tra i pastori". Non c'è bisogno di perdersi in sofisticate teorie liguistiche per capire che l'isomorfismo fra "Res" e "Verbum" , fra "la cosa" e "la parola" è un imperativo categorico. Credo siamo daccordo che "le parole sono la conseguenza delle cose" (Verba sunt consequentia rerum). Questa fedeltà, questa "perfetta corrispondenza al pensiero", questo isomorfismo sono radicati nelle "parlate materne" tanto più che in qualsiasi lingua imposta dal di sopra o dal di fuori. E forse non è una realizzazione del tutto banale sapere che se vogliamo comunicare, dobbiamo usare la lingua delle persone che ci ascoltano. In questo modo sia la religione sia la letteratura nazionale incominciò ad inserirsi nelle menti e nei cuori delle popolazioni montanare, creando una cultura base che, attraverso il vernacolo locale, assorbì anche le storie, le leggende, le filastrocche, il folklore dei nativi. Pian piano la tradizione orale si aprì alle possibilità di una scrittura dialettale capace di tramandare le memorie da generazione in generazione. Ascoltiamo alcuni testi dell '800 tradotti in ladino. Scrive il Prof. Ronzon: "Non appare chiaramente da chi sia stato tradotto nel vernacolo di Pozzale" l'episodio di Erminia tra i pastori: Intanto Erminia fra pedai e ombria Nel medesimo secolo Antonio Da Rin Loda, da Laggio di Cadore, ha tradotto nel ladino d'Oltrepiave il Passio di San Matteo. Di lui dice il Ronzon: "mi sono pure rallegrato... coll'autore perché anche in mezzo alle sue faccende, abbia pur trovato il tempo d'occuparsi del dialetto del nostro paese, e più ancora perché abbia saputo, per quanto era da lui, penetrare nel senso del testo latino e trovarvi quasi sempre una felice corrispondenza nel dialetto." Il Pievano di Candide, don Osvaldo Varetoni "lasciò anche qualche poesia in dialetto comelicano, così briosa e originale che il popolo la ritiene ancora a memoria." (Ronzon, p. 119). Un suo sonetto, composto nell'occasione del trasferimento di don Simeone De Luca da Valle di Cadore, dove era stato cappellano, a Pievano di San Vito di Cadore, dimostra una struttura veramente originale: l'autore crea un dialogo fra un comelicano, un oltrechiusotto ed una donna di Valle. Questi tre personaggi si trovano in Cavallera il giorno che si celebra l'entrata di don Simeone a San Vito. Ogni uno di loro parla nel vernacolo del suo paese. Cito la sestina finale, dove la donna di Valle ribatte alla persona d'Oltrechiusa: (OLTRECHIUSOTTO) (DONNA DI VALLE) Nel capitolo "Traduzioni e Componimenti nel dialetto cadorino", don Pietro Da Ronco conclude: "Presento inoltre la traduzione del Passio di s. Matteo e dei canti I e V dell'Inferno di Dante nel dialetto d'Oltrepiave; la traduzione del Passio stesso, di due poesie del Varetoni e di due componimenti originali nel dialetto del Comelico." Cito le prime due terzine del Canto I, tradotte dal Prof. Giovanni Fioretto: A medo 'l viado de la vita umana Me sareve 'na roba massa dura A confermare l'intercambiabilità, la fluidità osmotica fra lingua ufficiale (Langue) e i vari dialetti (Koiné) saranno le prime composizioni poetiche scritte nel ladino delle valli dolomitiche, nel tardo '800 e nei primi anni del '900. E' un processo che arricchisce sia l'italiano sia il ladino; un processo che continua fino ai nostri giorni. Si passa così dalla traduzione di testi "esterni" alla "creazione" di una letteratura in loco. Anche se questa presentazione è dedicata esclusivamente alla poesia, tuttavia da quest'epoca in poi si è sviluppata anche una letteratura in prosa che include leggende, racconti e dati storici, basta rivolgersi alla sopra citata Antologia Dialettale curata dal Circolo "Al Zempedon". Nel presentare alcuni autori storici ladini, seguo l'ordine cronologico scelto da questa antologia, che inizia con i poeti agordini. Oltre a tre testi anonimi, ci sono due di E. Angoletta, uno di Valerio Da Pos (1740-1822), due di don Giobatta Del Monego (1821-1903), quattro di don Piero Follador (1827-1872) e sei di Luigi Lazzaris (1816-1906). I temi principali sono: la natura, la religione, i mestieri locali, i comportamenti un po' strani di certi paesani e altri temi originali, come "Il pericolo de sonar le campane durante i temporali", o "Il temperamento di quelli di Sappade", di don Piero Follador. Leggo il primo: La ciesa dise che se dega 'n segno Perché la podarave a qualchedun che i ciamaressi matti!... Dunque anca mi Accattivante è la scena creata da un autore anonimo, titolata "Agordo", un bozzetto lirico musicato da L. Pietropoli: Inte 'n cadin de mus'cio Il paesaggio alpino, in tutte le sue sfaccettature, diventerà uno dei temi principali della poesia ladina che ogni autore sfrutterà a modo suo. Altro tema comune sarano i rapporti stabiliti fra le varie classi degli abitanti dolomitici: fra padrone e serva, fra padrone e mezzadro, fra ricchi e poveri, fra preti e il clero, fra i maestri, i medici, gli artigiani e il resto della popolazione. Per paragonare la lingua agordina con una lingua di matrice veneta, cito da una poesia alpagotta anonima, del diciannovesimo secolo, intitolata "Un dialogo fra una damigiana e il suo padrone": Damiana: Paron: Il rapporto servo-padrone, chiaramente delineato fin dall'inizio di questa poesia, si ramifica e si rafforza di verso in verso, fino alla fine. "El paron" obbliga la serva Damiana a fermarsi e salutare un sacco di persone, "dal Piovan,/Consolarte che l'é san", "al me vecio cortesan/Par mi baseghe la man: /Da De Col, e Spalmacin/Se te va, va senza vin;" "Ma saluda la Luzieta,/Che da tanto la me speta;/e po dighe de scondion,/Che me insunie nei me son/Ogni not sempre de ela," A tutte queste richeste la Damiana risponde: "Co sta lunga litania/Vu me olè mezzana e spia,/E a parlave bon talian,/Mastegave in bocca il pan." Come in una commedia goldoniana, il battibecco fra serva e padrone si risolve in favore della serva: il suo buonsenso e la sua astuzia prevalgono e i ruoli sembrano momentaneamente capovolti. Un altro poeta anonimo del secolo scorso, con cinque quartine di tono petrarchesco, a rima alterna, illustra "La vita del pore on" -- una esperienza comune e ben conosciuta dalle nostre popolazioni alpine: Co l'è te l'alba mi me leve su Po cioe su la giacheta e vae varnar, I particolari eventi storici della valle d'Ampezzo hanno ovviamente influenzato la loro letteratura. L'Ampezzano dipendeva anticamente dal Patriarcato di Aquileia e nel 1420 fu incamerato nella Repubblica di Venezia; nel 1511 fu conquistato dalle truppe del Tirolo e rimase sotto il dominio austriaco, eccetto per il brevissimo periodo napoleonico (dal 1810 al 1813), fino alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando ritornò a far parte della Provincia di Belluno. E' ovvio che ogni artista interpreta la propria realtà interna (psicologica), che elabora attraverso una prospettiva individualizzata, tuttavia non può cancellare, a livello conscio e inconscio, la realtà esterna (la propria lingua-storia-cultura e geografia) che l'ha condizionato e che forma l'humus dal quale attinge ispirazione e direzione. Nella parte "storica" dedicata alla poesia ampezzana dell'Antologia Dialettale curata dal Circolo "Al Zenpedon" appaiono due poesie di Silvio Degasper Meneguto (circa 1898), intitolate "El Sanin da Po' " e "A ra me noiza". Tema classico e universale, il voler conquistare gli affettti di una donna ("ra noiza"), anche con la poesia: chi non ricorda l'impatto immediato dei versi di Pablo Neruda, nel film Il postino? Duto tage inz'el paes, Una sera can ciatone Ma è nel poemetto "Saggio sulla poesia ampezzana", di Giovanni Demenego, che si percepisce una squisita raffinatezza linguistica ladina capace di elaborare una varietà di tematiche, anche se il titolo è alquanto depistante. Più che "saggio sulla poesia" , i 300 versi di Demenego, elaborati in 75 quartine a rima alternativa, sembrano ricreare un racconto del Decameron di Boccaccio. Il poeta-narratore immediatamente si scusa con il lettore-ascoltatore, per creare un'atmosfera scherzosa, di humor: Voi mo vede, se i ra ciato, Na canzòn voi bete zò No ve ocore tanto ston Furbo e saggio, lui prima si scolpa e poi offre "de dir sol ra verità,/come deve un bon cristian,... Ma subito si limita "De di poco; che mangare/me podese sbramozà!/ma parbìo sun zerte afare/no me fido de tocià." (p. 111). E qui si tuffa nel pieno delle cose, invitando gli ascoltatori contrari ad andarsene ("che i se volte pura in la") e dicendo agli altri: "s'avè voia, tabacà!" Con ironia alquanto maliziosa presenta un quadro economico del paese non tanto positivo, elenca le solite lamentele, i soliti abusi della res publica, poi offre un esempio particolare che fa ricordare alcuni personaggi nei Canterbury Tales di Chaucer: Ma de duta cher' armentes Sode e roba a boaton El no à ra deboleza Il virtuosismo lirico e tematico di questo poeta fa da capostipite agli autori che seguono; apre nuove prospettive e libera il verso da concetti e motivazioni troppo imprigionate in nozioni folcloristiche locali. L'occasione che fa da spinta non è soltanto per commemorare un matrimonio particolare, l'entrata in paese di un personaggio illustre, ecc. bensì il desiderio di scavare profondamente nel sottobosco sociale, etico e psicologico di quel microcosmo nel quale attivamente partecipa. Il tono lievemente didattico delle due strofe finali fa sorridere anche il lettore moderno impegnato ad ascoltare i pettegolezzi odierni: Ce voréo mai dai abada Fagé mèo ad aetara Il presente si costruisce sulle spalle del
passato, e questo vale particolarmente per la letteratura. Anche
quando il poeta americano Ezra Pound invitava i colleghi a "fare
tutto di nuovo" ("make it all new!"), era totalmente
consapevole che non si può cancellare ciò che gli
altri avevano costruito. I movimenti letterari come il futurismo,
il simbolismo, l' ermetismo, il neo-realismo, il post-modernismo,
ecc. si erano inizialmente posti come una "spaccatura"
con le poetiche antecedenti, però nessun movimento è
riuscito a cancellare il patrimonio lasciato dai "patriarchi"
che li hanno preceduti. Lo stesso vale per i poeti ladini del
Novecento e per coloro che scrivono tuttora usando la "lingua
madre". Già dall'Ottocento alcuni poeti (Porta e
Belli per esempio) con genialità erano riusciti a liberarsi
da nozioni popolareggianti, bozzettistiche, folcloristiche adottate
da una marea di autori "dialettali" per creare una
poesia di alto spessore contenuistico e lirico, alla pari con
poeti come Foscolo e Leopardi. Lo stesso pian piano accadeva
con i poeti ladini, a partire da Pier Paolo Pasolini. E nelle
nostre vallate di Agordo, di Zoldo e del Cadore accade lo stesso
fenomeno. Ma la questione della lingua ufficiale verso la "lingua
madre" si fa sempre più complessa, divergente, e
spesso crea una dicotomia quasi insormontabile. Se Montale, Ungaretti
e Saba sanno poetare di tematiche astratte, metafisiche, filosofiche,
metapoetiche là dove i poeti che si esprimono con la lingua
materna sembrano trattare di cose più concrete (natura,
paesaggi, personalità, ecc.) questo divario si assottiglia
e sparisce. Ogni lingua è potenzialmente capace di trattare
qualsiasi tema, basta leggere le poesie di Marin, Loi, Zanzotto,
Pasolini, come pure dei poeti che tuttora scrivono nel ladino
delle Dolomiti Bellunesi e sui quali approfondirò l'argomento
più in avanti. Invoco in senso lato l'ossimoro permanente
montaliano per illustrare il muro che vuole ancora oggi separare
i due sistemi linguistici, cioè langue verso koiné.
Sono sistemi che dovrebbero essere complementari invece di conflittuali.
Come il muro di Berlino, anche questa muraglia dovrebbe essere
finalmente ed irreversibilmente eliminata per dare spazio ad
un sistema plurilinguistico capace di esprimere ogni sfacettatura
dell'essere, del divenire e del creare: un sistema che sa ugualmente
rispettare ogni parlata e sa valorizzare la propria specificità,
la propria particolare bellezza. Come tanti miti, anche questo
ha costruito un muro falso, fittizio, che purtroppo continua
a separare persone di etnie diverse. È un muro che forse
la poesia in "lingua madre" riuscirà a sgretolare,
mattone per mattone, per creare un mondo se non perfetto almeno
più giusto. Quella poesia radicata nella concretezza delle
cose, delle persone ed espressa con la "sublime semplicità"
di Umberto Saba, con la "cangiante lingua viva di una città
in cui si mescolano in un coro dissonante, le voci dei borghesi
e dei plebei, degli autoctoni e degli immigrati" di Delio
Tessa, con il "vitalismo" di Tonino Guerra che "vieta
cedimenti a una metafisica astratta e cerebrale: stupore fanciullesco
e monelleria giullarresca (che) cooperano per demolire l'idea
che il paradiso possa esser bello, senza la giraffa dal collo
lungo o la gattina bianca del babbo..." Questi attributi
s'innestano e prendono radici nelle opere dei poeti agordini
Enzo De Mattè, Loris Santomaso e Bepi De Colò,
dei poeti ampezzani Fiorenzo Pompanin, Ernesto Majoni Coléto
e Marco Dibona Moro, dei poeti comelicensi Adelchi Casanova Fuga,
Pio Zandonella Necca e Lucio Eicher, dei poeti zoldani Graziano
De Rocco, Anna Maria Pradel e Noris De Rocco, dei poeti cadorini
Gemo Da Col, Italo de Candido Candon, Adeodato Piazza Nicolai
e Piero De Ghetto. En luster da setenber A skonde ko na man Con poche pennellate impressionistiche, la scena autunnale di montagna vibra davanti agli occhi e nel cuore del lettore: "larici rossi", "pendii mezzi gialli", "una spolverata di neve sulle cime" contribuiscono a renderere la scena viva, che si può toccare con le dita. Poi l'attenzione si sposta in paese, dove la voce didattica del poeta si fa sentire: Ben adés pi no sente E no i varda Il Vate che ammonisce e consiglia i giovani è un motif alquanto datato, tuttavia il linguaggio è fresco; e la struttura formale, parte canzone e parte idillio, imita autori classici. La quartina iniziale del sonetto "El gerànio de la nona", di Gigi Lise ((1899-1960), diventa la metafora di un oggetto semplice, quotidiano, ma tanto amato dalla persona che lo cura con passione e tenerezza: Dentro un pi?at de fer maltà
de blu I nove versi che seguono perdono l'originalità
dei primi quattro, forse anche a causa della banalizzazione del
tema proposto: la scomparsa della nonna e l'abbandono dell'oggetto
amato, il geranio. Un drio kel alter È una introspezione metafisica degna di essere paragonata ad alcuni versi di Petrarca e di Ungaretti, come anche una esigenza di tradurre in versi i moti dell'animo, non di rado stridenti con il vivere quotidiano. Essa propone sì un tema classico però articolato con un linguaggio locale che dispone "di una sua propria autonomia e di una sua propria indipendenza." Il poeta che si autoanalizza, che fruga dentro se stesso per decodificare dubbi, paure, domande esistenziali, per capire meglio le varie sfaccettature dell'io e del mondo, prende parola anche fra le valli dolomitiche. Se nella Val Gardena Max Tosi ha elaborato queste tematiche, nelle nostre vallate lo stesso lavoro è stato fatto da poeti come Lucio Eicher Clere ("Padime/Pace" e "Ceda/Casa"), Ernesto Majoni ("Smaia/Diluvio" e "Calche ota/Qualche volta), Marco Dibona Moro ("Agnere/Ieri") e A. P. Nicolai ("La pioa e l sol/La pioggia e il sole" e "Me ficio malamente sote i pes/Mi ficco sgarbatamente fra i piedi"). Cito alcuni versi. Da "Padime" di Lucio Eicher: crös' al nöio, crös lediör Da "Smaia" di Ernesto Majoni: Jozes de aga Da "Agnere" di Marco Dibona Moro: Agnere r'à tajù ra o Agnere l à fenì de vive Da "Me ficio malamente sote i pes" di A. P. Nicolai: Parchè crese le scarpade da le crode? Afferma il Prof. Belardi: "La composizione
letteraria non si limita a contemplare e a descrivere l'eccesso
di bellezze naturali, che contraddistinguono le valli dolomitiche.
Il passato non viene ricalcato solo come nostalgia dei bei tempi
andati, quando tutto era più semplice e in armonia con
l'indole umana. Il mondo moderno con la sua globalizzazione è
ormai entrato nelle valli ladine in maniera tumultuosa, e le
espressioni artistiche locali talvolta non riescono a chiamarsi
fuori dal tumulto... La poesia non dovrebbe limitarsi a significare
le parole, ma dovrebbe impegnarsi a suggerire, evocare l'intraducibile,
suscitare emozioni. A volte taluni paiono quasi imbrigliati dal
come bisogna dire, scrivere, piuttosto di che cosa esprimere."
Spezzare le catene che legano i nostri poeti ladini odierni a
forme e temi marcescenti, per non dire addirittura morti, è
la sfida principale da affrontare. Non possiamo temere e/o negare
il post-moderno, con tutti i paradossi che comporta: globalizzazione
attraverso i mass media, pauperizzazione della lingua e della
cultura "standard" del paese, la perdita di una travagliata
innocenza, la contaminazione fra lingua e letteratura "locale"
e quella delle zone confinanti, come pure di quelle straniere
che arrivano alle nostre porte da ogni angolo del pianeta. Ciò
richiede una sorta di simbiosi tra modernità e tradizione;
bisogna costruire ponti fra le letterature locali, nazionali
e/o internazionali del passato e le varie correnti artistiche
che arricchiscono il presente. Ma per costruire questi ponti
ci deve essere anche la volontà di demolire ostacoli per
preparare il terreno. La tradizionale mentalità montanara,
alquanto schiva e sospettosa, non si apre facilmente alla ormai
inevitabile contaminazione-impollinazione-fertilizzazione. I
nostri poeti dovrebbero analizzare, assimilare ed imparare dai
percorsi già tracciati, dalle esperienze positive ormai
alle spalle dei vicini poeti ladini, per esempio Valentino Dell'Antonio
e Luciano Jellici (Fassa), Felix Dapoz e Iaco Ploner (Badia),
Frida Piazza e Josef Kostner (Gardena), per non parlare dei poeti
della "nuova generazione ladina" come Paul Zardini,
Stefania Pitscheider e Iaco Rigo (Marebbe), Roberta Dapunt (Badia),
Christian Ferdigg (Bolzano) e Ingrid Palfrader (Brunico). La strada mai tolta Doe strade se separàa te n bosco e dopo ei tolto chel'autra, anch'ela e dute doe, chela bonora, mostràa
No sei aònde e dopo quanto tenpo Andrea Zanzotto, illustre poeta che scrive
sia in italiano che in "lingua madre" solighese, rappresenta
forse la più visibile incarnazione del poeta neo-dialettale.
"Legittima o discutibile, la definizione di poesia neo-dialettale
è entrata nell'uso corrente per definire la produzione
di versi in dialetto degli anni Settanta-Ottanta, ad opera di
autori provvisti di notevole strumentazione critica e consapevoli,
sopratutto, del processo di estinzione e/o trasformazione subìto
dal dialetto nella nuova realtà socio-culturale."
Forse per rallentare la morte dei vernacoli locali, vari poeti
di alto livello hanno abbracciato con passione ed originalità
l'uso dei linguaggi appresi dal particolare microcosmo socio-culturale
dove sono nati e dove vivono. Però il sorprendente risultato
di questo processo è l'arricchimento della loro visione
ed espressione poetica, ormai contaminata negativa-mente dall'uso
della lingua ufficiale. Basta leggere le poesie "neo-dialettali"
di Pier Paolo Pasolini, Giacomo Noventa, Biagio Marin, Ernesto
Calzavara, Mario Dell'Arco, Franco Loi, insieme a quelle di Zanzotto,
per capire l'impatto positivo creato da questa scelta. "Decisiva
è la conversione o meglio l'estensione all'ambito dialettale
della poesia di Andrea Zanzotto (1921), un autore che aveva già
raggiunto una posizione eminente poetando in lingua, in una personale
maniera neoclassico-sperimentale. Ancorato alla sua Pieve di
Soligo, dialettofono coi dialettofoni, Z. non inibisce nel suo
italiano parlato il marcato accento trevigiano, ma ha una cultura
che non riconosce frontiere di nazioni né di discipline."
Ogni lingua è un organismo vivente; se non viene alimentata,
rinnovata, entra in coma ed infine muore. Tutte le "lingue
madri" partecipano in questà realtà: hanno
bisogno di nutrirsi di neologismi, di innesti contenutistici
e formali; devono imparare a scontrarsi e confrontarsi con altri
linguaggi e culture. Le poetiche ladine delle zone del Cadore,
Ampezzo, Agordo e Zoldo stanno prendendo i primissimi passi in
questa direzione e possono essere guidate dalle esperienze già
fatte dai ladini limitrofi. ©Adeodato Piazza Nicolai Questo profilo storico è un works-in-progress, senza nessuna pretesa di completezza e/o finalità. Al contrario, invito i lettori ad accennarmi altri poeti, sia storici sia contemporanei, che per mia carenza sono stati ommessi. Vi invito a spedire i vostri commenti, raccomandazioni e materiale a: prof. A. P. Nicolai Piazza S. Orsola, 2 32040 Vigo di Cadore (BL) Posta elettronica: apnicolai@hotmail.com
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