LA LINGUA DELLA POESIA LADINA
DELLE DOLOMITI BELLUNESI
(Saggio del prof. Adeodato Piazza Nicolai)

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La cultura di un paese è ancorata nella sua letteratura, e ogni letteratura ha le sue radici nella poesia, che storicamente ha sempre preceduto la narrativa. Le culture antiche dell'Oriente (Cina, Giappone, India, ecc.) ci hanno lasciato testi poetici fondamentali (lo I Ching, i Veda, le Upanisad, la Bhagadavadita) tutti in forma poetica. Lo stesso vale per la letteratura Occidentale, da Omero a Ovidio, dai cicli epici irlandesi e scandinavi alle gesta di El Cid e del Roman de la Rose, e ovviamente, per la nostra tradizione, la Divina Commedia di Dante. Lo stesso vale per le civilizzazioni antiche delle Americhe, per gli Incas, gli Aztechi, fino agli amerindiani odierni. Varie sono state le spiegazioni di perché la poesia è nata prima della prosa. Tra le più ovvie: la struttura ripetitiva del verso assiste alla funzione mnemonica. Attraverso la ripetizione di parole e immagini aiuta a memorizzare eventi, storie e racconti tramandati prima attraverso la tradizione orale (dal cantastorie, dal griot africano, dal bardo celtico, ecc.,) e più tardi trascritte con un codice linguistico. E' una funzione che dipende essenzialmente dalla musicalità della parola e del verso, creata con l'uso del ritmo, delle rime, delle assonanze e di varie altre figure retoriche. Canzoni, odi, filastrocche, ritornelli, gesta venivano cantate in occasioni speciali e la loro struttura lirica-ripetitiva aiutava i menestrelli, i Minnesinger, i troubadors a ricordare. Spesso si accompagnavano con qualche strumento musicale. I cantastorie e i cantautori odierni sono gli eredi di questa tradizione.
Anche se gli storici della letteratura sono daccordo sull'antecedenza della poesia rispetto alla prosa, tuttavia, per la letteratura italiana, la questione della lingua verso il dialetto, iniziata ai giorni di Dante, è un dibattito che continua fino ai nostri giorni. Al latino classico pian piano si era affiancato il "dialetto" fiorentino, la lingua cosidetta "volgare". Insieme agli altri dialetti storici, cioè il napoletano, il romano, il veneziano, il "volgo tusculo" si era imposto fino al punto di diventare la lingua ufficiale italiana. Con la politica dell'unificazione d'Italia, gli altri dialetti furono spinti ad una funzione secondaria, locale, mentre il dialetto fiorentino assunse la funzione primaria. Diventò la lingua "nazionale" intorno alla quale roteavano le parlate minoritarie, cioé tutti gli altri dialetti. Un letterato era obbligato ad esprimersi in italiano, come una volta doveva esprimersi in latino. Nell' Ottocento sono stati pochi gli autori che hanno avuto il coraggio di scrivere nella loro "lingua minoritaria", per esempio il Porta, il Belli, il Giusti e il Trilussia, mentre più numerosi sono stati i poeti che nel Novecento hanno scritto in dialetto. Fra i meglio conosciuti sono: il triestino Virgilio Giotti (1885-1957), il milanese Delio Tessa (1886-1939), il gradese Biagio Marin (1891-1985), il tursitano (lucano) Albino Pierro (1916-1995), il romagnolo Tonino Guerra (1920) e i due compaesani alquanto più giovani, Nino Pedretti e Raffaello Baldini (1924), il friulano Pier Paolo Pasolini (1922-1975), il veneziano Giacomo Noventa (1898-1960), il solighese (veneto) Andrea Zanzotto (1911), il suo conterraneo Ernesto Calzavara (1907-2000) e, last but not least, il milanese Franco Loi (1930).

Questa presentazione non pretende di analizzare le superiorità e/o inferiorità della lingua verso quella dei vari dialetti, al contrario riconosce al minimo una "complementarietà" e al massimo una parità fra di loro. Parte dalla premessa che ogni lingua parlata e scritta ha il suo valore individualmente originale che può fare da base ad una letteratura sui generis. Insisto sul può, dato che non sempre una lingua ha saputo o sa generare una letteratura. Nel caso delle parlate ladine delle Dolomiti Bellunesi, un dato storico da ricordare è che nel Veneto "la percentuale degli analfabeti era nel 1860 del 65%" . Perciò, dal 1860 fino alla fine del 1950, nelle valli cadorine il ladino rimase la "lingua ufficiale" parlata dalla maggioranza, per ragioni sia pratiche sia storiche. Nel 1873 il Prof. Antonio Ronzon così identificava le motivazioni per l'uso del dialetto cadorino:

Sacra cosa è il dialetto ad un popolo, più ancora che il comune linguaggio [l'italiano],
caro come l'eco di una voce amata; quel dialetto in cui prima imparammo a chiamar
mamma e babbo; quel dialetto in cui abbiamo sentito nostra madre acchetare i pianti
dell'infanzia e insegnarci a dire: Padre nostro! quel dialetto in cui prima balbettammo
gli accenti dell'amicizia e dell'affetto; quel dialetto che ci ricorda i giochi della puerizia
e le beate gioje d'un'età che non torna; quel dialetto infine che usciva puro e ingenuo
dalla vergine bocca, non ancora atteggiata all'affettata ipocrisia di uno sconosciuto
linguaggio.

Se a prima lettura ciò sembra una giustificazione neoromantica: un ritorno ad un linguaggio balbuziente dell'infanzia, quel Petél reso famoso dal poeta Andrea Zanzotto, sono infatti gli attributi di "purità", di "ingenuità", di "freschezza vergine" e direi anche di originalità che fanno dei dialetti un nuovo veicolo di espressione, di sperimentazione linguistica che neutralizza "l'affettata ipocrisia" e la pauperizzazione della lingua nazionale, causata anche dai mass media. Per la maggior parte degli italiani, la lingua nazionale è stata imposta dall'alto, dal di fuori (come tuttora la realtà geopolitica sembra imporci la conoscenza dell'inglese). Ma, continua il Prof. Ronzon, "la scala alla lingua può bene esser il dialetto; giacchè si deve ritenere che non già i dialetti nascono dalla lingua, bensì la lingua dai dialetti, come la nazione dalle famiglie. Prima della lingua nostra comune (cioè l'italiano) erano i dialetti, e ben disse Dante quando chiamava la lingua italiana quella che in ciascuna città si trova e in nessuna riposa. Pregio principale d'ogni lingua è la sua spontaneità, vale a dire la sua sollecita e perfetta corrispondenza al pensiero; ora qual linguaggio trovar si può più spontaneo del dialetto? " E nell '800 furono proprio le persone meglio educate che, nelle valli dolomitiche, intuirono la necessità di comunicare con gli abitanti nella loro parlata, usando il vernacolo locale che più fedelmente comunicava i concetti, i pensieri, le idee come pure la storia. Perciò furono alcuni preti e alcuni professori situati nei villaggi e nei paesi agordini, ampezzani, alpagotti, cadorini e comelicensi che si impegnarono a tradurre, a "convertire" in dialetto brani dal Vangelo, alcuni canti della Divina Commedia, come anche il Canto VII della Gerusalemme Liberata, "Erminia tra i pastori". Non c'è bisogno di perdersi in sofisticate teorie liguistiche per capire che l'isomorfismo fra "Res" e "Verbum" , fra "la cosa" e "la parola" è un imperativo categorico. Credo siamo daccordo che "le parole sono la conseguenza delle cose" (Verba sunt consequentia rerum). Questa fedeltà, questa "perfetta corrispondenza al pensiero", questo isomorfismo sono radicati nelle "parlate materne" tanto più che in qualsiasi lingua imposta dal di sopra o dal di fuori. E forse non è una realizzazione del tutto banale sapere che se vogliamo comunicare, dobbiamo usare la lingua delle persone che ci ascoltano. In questo modo sia la religione sia la letteratura nazionale incominciò ad inserirsi nelle menti e nei cuori delle popolazioni montanare, creando una cultura base che, attraverso il vernacolo locale, assorbì anche le storie, le leggende, le filastrocche, il folklore dei nativi. Pian piano la tradizione orale si aprì alle possibilità di una scrittura dialettale capace di tramandare le memorie da generazione in generazione. Ascoltiamo alcuni testi dell '800 tradotti in ladino. Scrive il Prof. Ronzon: "Non appare chiaramente da chi sia stato tradotto nel vernacolo di Pozzale" l'episodio di Erminia tra i pastori:

Intanto Erminia fra pedai e ombria
De selve e bosche sul ciaval se 'n dea;
La man i trema e pì no cen la bria,
Tra viva e morta meda la parea.
Olta e reolta, e va per ogni via
Sul ciaval onde che lui volea,
E la se tuoi dai vuoie de coluore, ( "vuoie" = occhi )
Che i dea daòs: no cade pì che i core.

Nel medesimo secolo Antonio Da Rin Loda, da Laggio di Cadore, ha tradotto nel ladino d'Oltrepiave il Passio di San Matteo. Di lui dice il Ronzon: "mi sono pure rallegrato... coll'autore perché anche in mezzo alle sue faccende, abbia pur trovato il tempo d'occuparsi del dialetto del nostro paese, e più ancora perché abbia saputo, per quanto era da lui, penetrare nel senso del testo latino e trovarvi quasi sempre una felice corrispondenza nel dialetto." Il Pievano di Candide, don Osvaldo Varetoni "lasciò anche qualche poesia in dialetto comelicano, così briosa e originale che il popolo la ritiene ancora a memoria." (Ronzon, p. 119). Un suo sonetto, composto nell'occasione del trasferimento di don Simeone De Luca da Valle di Cadore, dove era stato cappellano, a Pievano di San Vito di Cadore, dimostra una struttura veramente originale: l'autore crea un dialogo fra un comelicano, un oltrechiusotto ed una donna di Valle. Questi tre personaggi si trovano in Cavallera il giorno che si celebra l'entrata di don Simeone a San Vito. Ogni uno di loro parla nel vernacolo del suo paese. Cito la sestina finale, dove la donna di Valle ribatte alla persona d'Oltrechiusa:

(OLTRECHIUSOTTO)
Nos autres d'Oltreciusa son demone,
Ma se ches Pré polito ne tamesa,
Deventòn pì de mede Santantone.

(DONNA DI VALLE)
Ghes! Se sto Reverendo no fa pressa
Padòn dì d'esse deste omin e done;
Genè cà, fonghe onor, tiròn na presa.

Nel capitolo "Traduzioni e Componimenti nel dialetto cadorino", don Pietro Da Ronco conclude: "Presento inoltre la traduzione del Passio di s. Matteo e dei canti I e V dell'Inferno di Dante nel dialetto d'Oltrepiave; la traduzione del Passio stesso, di due poesie del Varetoni e di due componimenti originali nel dialetto del Comelico." Cito le prime due terzine del Canto I, tradotte dal Prof. Giovanni Fioretto:

A medo 'l viado de la vita umana
Iò me son visto te' n' a selva scura
Dove no se catava tramontana.

Me sareve 'na roba massa dura
A dì cuanto sta selva era 'ntrigosa
Che solo a recordà la fa paura.

A confermare l'intercambiabilità, la fluidità osmotica fra lingua ufficiale (Langue) e i vari dialetti (Koiné) saranno le prime composizioni poetiche scritte nel ladino delle valli dolomitiche, nel tardo '800 e nei primi anni del '900. E' un processo che arricchisce sia l'italiano sia il ladino; un processo che continua fino ai nostri giorni. Si passa così dalla traduzione di testi "esterni" alla "creazione" di una letteratura in loco. Anche se questa presentazione è dedicata esclusivamente alla poesia, tuttavia da quest'epoca in poi si è sviluppata anche una letteratura in prosa che include leggende, racconti e dati storici, basta rivolgersi alla sopra citata Antologia Dialettale curata dal Circolo "Al Zempedon". Nel presentare alcuni autori storici ladini, seguo l'ordine cronologico scelto da questa antologia, che inizia con i poeti agordini. Oltre a tre testi anonimi, ci sono due di E. Angoletta, uno di Valerio Da Pos (1740-1822), due di don Giobatta Del Monego (1821-1903), quattro di don Piero Follador (1827-1872) e sei di Luigi Lazzaris (1816-1906). I temi principali sono: la natura, la religione, i mestieri locali, i comportamenti un po' strani di certi paesani e altri temi originali, come "Il pericolo de sonar le campane durante i temporali", o "Il temperamento di quelli di Sappade", di don Piero Follador. Leggo il primo:

La ciesa dise che se dega 'n segno
parché tutta la zent vegna avvisai
de pregar, per placar el divin sdegno;
no che i nozoli staga là taccai
finché i vè 'na neola, 'n te la fun
con pericol de esse fulminai.

Perché la podarave a qualchedun
suzzeder come la xe suzzessa
da do o tre ani a 'n monech de Belun.
Cosa diressi coi sona da Messa
se i scampanasse enfin i à fenì
Vespro e Rosario? Ghe faria scomessa

che i ciamaressi matti!... Dunque anca mi
dirò matti, dirò zente zuccona
che par el temp i fa sonar cossì;
E 'l doppio matti i moneghi che sona.

Accattivante è la scena creata da un autore anonimo, titolata "Agordo", un bozzetto lirico musicato da L. Pietropoli:

Inte 'n cadin de mus'cio
se nina sto paeset desmentegà,
de scandole e matoi
zento casete e pì ghe fa corona,
a gara i monti intorn
se veste in rosa e viola
come le siore al bal:
ma chi che no vede
cheste beleze qua
no pol le crede. (p. 79)

Il paesaggio alpino, in tutte le sue sfaccettature, diventerà uno dei temi principali della poesia ladina che ogni autore sfrutterà a modo suo. Altro tema comune sarano i rapporti stabiliti fra le varie classi degli abitanti dolomitici: fra padrone e serva, fra padrone e mezzadro, fra ricchi e poveri, fra preti e il clero, fra i maestri, i medici, gli artigiani e il resto della popolazione. Per paragonare la lingua agordina con una lingua di matrice veneta, cito da una poesia alpagotta anonima, del diciannovesimo secolo, intitolata "Un dialogo fra una damigiana e il suo padrone":

Damiana:
Mi son stuffa, sior Paron,
Portar acqua da Pianon,
E andare se siè content
A veder de la me dent
Tant a pie come a caval
Za che semo in carnaval;

Paron:
Mi, par mi, te lasse andar
Quando te me sa scusar,
E supplir al me dover
Co Mariano e so moger: (p. 99)

Il rapporto servo-padrone, chiaramente delineato fin dall'inizio di questa poesia, si ramifica e si rafforza di verso in verso, fino alla fine. "El paron" obbliga la serva Damiana a fermarsi e salutare un sacco di persone, "dal Piovan,/Consolarte che l'é san", "al me vecio cortesan/Par mi baseghe la man: /Da De Col, e Spalmacin/Se te va, va senza vin;" "Ma saluda la Luzieta,/Che da tanto la me speta;/e po dighe de scondion,/Che me insunie nei me son/Ogni not sempre de ela," A tutte queste richeste la Damiana risponde: "Co sta lunga litania/Vu me olè mezzana e spia,/E a parlave bon talian,/Mastegave in bocca il pan." Come in una commedia goldoniana, il battibecco fra serva e padrone si risolve in favore della serva: il suo buonsenso e la sua astuzia prevalgono e i ruoli sembrano momentaneamente capovolti. Un altro poeta anonimo del secolo scorso, con cinque quartine di tono petrarchesco, a rima alterna, illustra "La vita del pore on" -- una esperienza comune e ben conosciuta dalle nostre popolazioni alpine:

Co l'è te l'alba mi me leve su
scalde 'n te 'l caglierin un cin de bepo (bepo = caffè)
parece na scudela e an toc de pan
e magne e magne finché n'ho pì fan.

Po cioe su la giacheta e vae varnar,
asse che sufie al vent e l'aria fina;
coi zocoi rompe al jazz, par bearar
tut al bestian che ò 'n del pradespina. (pradespina = terra coltivata a pascolo)
(p. 104)

I particolari eventi storici della valle d'Ampezzo hanno ovviamente influenzato la loro letteratura. L'Ampezzano dipendeva anticamente dal Patriarcato di Aquileia e nel 1420 fu incamerato nella Repubblica di Venezia; nel 1511 fu conquistato dalle truppe del Tirolo e rimase sotto il dominio austriaco, eccetto per il brevissimo periodo napoleonico (dal 1810 al 1813), fino alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando ritornò a far parte della Provincia di Belluno. E' ovvio che ogni artista interpreta la propria realtà interna (psicologica), che elabora attraverso una prospettiva individualizzata, tuttavia non può cancellare, a livello conscio e inconscio, la realtà esterna (la propria lingua-storia-cultura e geografia) che l'ha condizionato e che forma l'humus dal quale attinge ispirazione e direzione. Nella parte "storica" dedicata alla poesia ampezzana dell'Antologia Dialettale curata dal Circolo "Al Zenpedon" appaiono due poesie di Silvio Degasper Meneguto (circa 1898), intitolate "El Sanin da Po' " e "A ra me noiza". Tema classico e universale, il voler conquistare gli affettti di una donna ("ra noiza"), anche con la poesia: chi non ricorda l'impatto immediato dei versi di Pablo Neruda, nel film Il postino?

Duto tage inz'el paes,
dute dorme come tasc,
no in coscienza se no te es
no te lascio mai pì in pasc!

Una sera can ciatone
come chesta in duto l'an...
cie te par Marieta, zone?
Gnero scì? ...da ca ra man! (p. 108)

Ma è nel poemetto "Saggio sulla poesia ampezzana", di Giovanni Demenego, che si percepisce una squisita raffinatezza linguistica ladina capace di elaborare una varietà di tematiche, anche se il titolo è alquanto depistante. Più che "saggio sulla poesia" , i 300 versi di Demenego, elaborati in 75 quartine a rima alternativa, sembrano ricreare un racconto del Decameron di Boccaccio. Il poeta-narratore immediatamente si scusa con il lettore-ascoltatore, per creare un'atmosfera scherzosa, di humor:

Voi mo vede, se i ra ciato,
se ra tòlo de bon vès,
se zavàrio, se son mato,
come al dito del paes.

Na canzòn voi bete zò
pròpio inz' el dialeto nosc,
che ra intende ci che vo,
tanto 'l furbo come 'l gròs.

No ve ocore tanto ston
par intende chesta ca,
ch' el ra intende 'l pi coiòn,
che no sepe el beabà. (p. 110)

Furbo e saggio, lui prima si scolpa e poi offre "de dir sol ra verità,/come deve un bon cristian,... Ma subito si limita "De di poco; che mangare/me podese sbramozà!/ma parbìo sun zerte afare/no me fido de tocià." (p. 111). E qui si tuffa nel pieno delle cose, invitando gli ascoltatori contrari ad andarsene ("che i se volte pura in la") e dicendo agli altri: "s'avè voia, tabacà!" Con ironia alquanto maliziosa presenta un quadro economico del paese non tanto positivo, elenca le solite lamentele, i soliti abusi della res publica, poi offre un esempio particolare che fa ricordare alcuni personaggi nei Canterbury Tales di Chaucer:

Ma de duta cher' armentes
tolòn fora 'l Begontina,
che la pède chi segrentes
s' el po di fior de farina.

Sode e roba a boaton
e vestì de pano fin,
ma 'l no rende surizion
al pì gramo Cadorin.

El no à ra deboleza
d' ingrandise e slaatà;
l' é 'l proverbio, che "granzeza
r' é sorela d'umiltà". (p. 112)

Il virtuosismo lirico e tematico di questo poeta fa da capostipite agli autori che seguono; apre nuove prospettive e libera il verso da concetti e motivazioni troppo imprigionate in nozioni folcloristiche locali. L'occasione che fa da spinta non è soltanto per commemorare un matrimonio particolare, l'entrata in paese di un personaggio illustre, ecc. bensì il desiderio di scavare profondamente nel sottobosco sociale, etico e psicologico di quel microcosmo nel quale attivamente partecipa. Il tono lievemente didattico delle due strofe finali fa sorridere anche il lettore moderno impegnato ad ascoltare i pettegolezzi odierni:

Ce voréo mai dai abada
ara lenga d'invidiòsc,
che a da calche sboconada
i voràv' èse con vos.

Fagé mèo ad ažetara
senža v' in avé par mal;
no r' uzade, ra capara,
senò vién el capitàl. (p. 118)

Il presente si costruisce sulle spalle del passato, e questo vale particolarmente per la letteratura. Anche quando il poeta americano Ezra Pound invitava i colleghi a "fare tutto di nuovo" ("make it all new!"), era totalmente consapevole che non si può cancellare ciò che gli altri avevano costruito. I movimenti letterari come il futurismo, il simbolismo, l' ermetismo, il neo-realismo, il post-modernismo, ecc. si erano inizialmente posti come una "spaccatura" con le poetiche antecedenti, però nessun movimento è riuscito a cancellare il patrimonio lasciato dai "patriarchi" che li hanno preceduti. Lo stesso vale per i poeti ladini del Novecento e per coloro che scrivono tuttora usando la "lingua madre". Già dall'Ottocento alcuni poeti (Porta e Belli per esempio) con genialità erano riusciti a liberarsi da nozioni popolareggianti, bozzettistiche, folcloristiche adottate da una marea di autori "dialettali" per creare una poesia di alto spessore contenuistico e lirico, alla pari con poeti come Foscolo e Leopardi. Lo stesso pian piano accadeva con i poeti ladini, a partire da Pier Paolo Pasolini. E nelle nostre vallate di Agordo, di Zoldo e del Cadore accade lo stesso fenomeno. Ma la questione della lingua ufficiale verso la "lingua madre" si fa sempre più complessa, divergente, e spesso crea una dicotomia quasi insormontabile. Se Montale, Ungaretti e Saba sanno poetare di tematiche astratte, metafisiche, filosofiche, metapoetiche là dove i poeti che si esprimono con la lingua materna sembrano trattare di cose più concrete (natura, paesaggi, personalità, ecc.) questo divario si assottiglia e sparisce. Ogni lingua è potenzialmente capace di trattare qualsiasi tema, basta leggere le poesie di Marin, Loi, Zanzotto, Pasolini, come pure dei poeti che tuttora scrivono nel ladino delle Dolomiti Bellunesi e sui quali approfondirò l'argomento più in avanti. Invoco in senso lato l'ossimoro permanente montaliano per illustrare il muro che vuole ancora oggi separare i due sistemi linguistici, cioè langue verso koiné. Sono sistemi che dovrebbero essere complementari invece di conflittuali. Come il muro di Berlino, anche questa muraglia dovrebbe essere finalmente ed irreversibilmente eliminata per dare spazio ad un sistema plurilinguistico capace di esprimere ogni sfacettatura dell'essere, del divenire e del creare: un sistema che sa ugualmente rispettare ogni parlata e sa valorizzare la propria specificità, la propria particolare bellezza. Come tanti miti, anche questo ha costruito un muro falso, fittizio, che purtroppo continua a separare persone di etnie diverse. È un muro che forse la poesia in "lingua madre" riuscirà a sgretolare, mattone per mattone, per creare un mondo se non perfetto almeno più giusto. Quella poesia radicata nella concretezza delle cose, delle persone ed espressa con la "sublime semplicità" di Umberto Saba, con la "cangiante lingua viva di una città in cui si mescolano in un coro dissonante, le voci dei borghesi e dei plebei, degli autoctoni e degli immigrati" di Delio Tessa, con il "vitalismo" di Tonino Guerra che "vieta cedimenti a una metafisica astratta e cerebrale: stupore fanciullesco e monelleria giullarresca (che) cooperano per demolire l'idea che il paradiso possa esser bello, senza la giraffa dal collo lungo o la gattina bianca del babbo..." Questi attributi s'innestano e prendono radici nelle opere dei poeti agordini Enzo De Mattè, Loris Santomaso e Bepi De Colò, dei poeti ampezzani Fiorenzo Pompanin, Ernesto Majoni Coléto e Marco Dibona Moro, dei poeti comelicensi Adelchi Casanova Fuga, Pio Zandonella Necca e Lucio Eicher, dei poeti zoldani Graziano De Rocco, Anna Maria Pradel e Noris De Rocco, dei poeti cadorini Gemo Da Col, Italo de Candido Candon, Adeodato Piazza Nicolai e Piero De Ghetto.
Che cosa rivela una radiografia più approfondita della poesia ladina nelle aree agordine, ampezzane, zoldane e cadorine? Nella Breve storia della lingua e della letteratura ladina il Prof. Walter Belardi scrive, a proposito della produzione artistica della Val Gardena, Val di Fassa e Val Badia: "Il taglio plurilinguistico, aperto a qualsiasi forma espressiva che si possa codificare su carta, pone (il loro lavoro artistico) all'avanguardia dei movimenti letterari contemporanei in area ladina. 'Tras' (una loro rivista letteraria) si propone come punto di coagulazione per una dialettica culturale interna, aperta tuttavia anche verso l'esterno." Questa è una realtà che non include le zone dolomitiche sopra specificate. Più che collaborazione e sintonia per "una dialettica culturale", esiste nel nostro territorio una frammentazione che riflette ancora l'isolamento storico illustrato dalle specifiche "isole alloglottone", dove ogni "isola" linguistica riflette anche un isolamento culturale e politico. Non è ancora concepibile una rivista letteraria capace di radunare le opere di autori ampezzani, cadorini, agordini e zoldani in una collaborazione editoriale sinergistica, di più ampio respiro. Forse verrà realizzata sotto la direzione del neonato Istituto Culturale delle Dolomiti Bellunesi, con sedi a Borca di Cadore e a Selva di Cadore. Tuttavia la sfida rimane proprio come trovare mezzi e compromessi affinché questo possa concretizzarsi. Esiste una necessità imperativa di dialogo e di collaborazione fra artisti che vivono a Cortina, a Costalta, in Agordo, a Rocca Pietore, in Auronzo e Vigo di Cadore, ecc. proprio per creare anche "quel taglio plurilinguistico, aperto a qualsiasi forma espressiva" che rispecchia la realtà odierna delle nostre vallate. Afferma il Belardi: "È palese l'esigenza di aprirsi alle culture circostanti, per raggiungere una maggiore utenza e al contempo accogliere la diversità espressiva, che consenta di definire meglio la propria specificità." Senza dubbio il virtuosismo e il valore delle opere letterarie radicate nelle nostre valli potrebbero crescere ed essere valorizzate attraverso un dialogo aperto con gli artisti delle zone contingue e anche più lontane dal nostro epicentro. Paradossalmente, la protezione offerta dalle montagne, che finora hanno salvaguardato le nostre "lingue madri" e le nostre culture, tuttora funziona come ostacolo, come muraglia che ci isola e ci condanna forse a una prematura scomparsa se non riusciamo ad adeguarsi, se non siamo capaci di formulare "una sorta di simbiosi tra modernità e tradizione," poiché, continua il Prof. Belardi: "È probabile che in futuro le nuove generazioni utilizzino nuovi codici espressivi, avvalendosi anche delle possibilità offerte dal linguaggio multimediale proprio delle pagine Web, collocabili per libera iniziativa nello spazio virtuale di Internet."
La poesia ladina delle aree che vanno dall'ampezzano all'agordino, negli ultimi 60 anni, condivide varie tematiche, anche se espresse in modalità locali: nostalgia per un passato più semplice, più innocente; amore quasi penoso per il paesaggio alpestre; memorie storiche legate alla guerra e alla emigrazione; ritratti di persone care e/o rispettate come maestri di vita; rapporti paradossali fra lingua ufficiale (italiano) e "lingua madre" (dialetti). Soltanto negli ultimi anni si sono inseriti argomenti metapoetici, filosofici, multimediatici, sulla globalizzazione, sul plurilinguismo e sulla "ethnic pride" (orgoglio etnico). Desidero analizzare alcune poesie "tipiche" che trattano di questi argomenti. Enzo De Mattè (1927) di Agordo, costruisce un particolare paesaggio nelle prime due stanze di "Fardima" ("Autunno"):

En luster da setenber
via le greste e le pale
sti làres ros
ste rive mede dale
na sbiankada su n žima
e l e belke fardìma.

A skonde ko na man
ste skàtole du in val
el soméa tut konpà?
tut precìs
de sti a?.

Con poche pennellate impressionistiche, la scena autunnale di montagna vibra davanti agli occhi e nel cuore del lettore: "larici rossi", "pendii mezzi gialli", "una spolverata di neve sulle cime" contribuiscono a renderere la scena viva, che si può toccare con le dita. Poi l'attenzione si sposta in paese, dove la voce didattica del poeta si fa sentire:

Ben adés pi no sente
le vake da la meƒa (meƒa = di ritorno dall'alpeggio)
ma sti doven
sturtadi
te màkine
ke i geƒa: (geƒa = ridono)
sti siòr de ƒvižari?!

E no i varda
e se i varda no i pol vede
no i pol ko?ose
le sede (sede = cordoni d'erba divisoria)
intamèž i pra
ke nogù? da l adòrk (adòrk = terzo taglio di fieno)
ne da teržìn
no à siegà. (p. 237)

Il Vate che ammonisce e consiglia i giovani è un motif alquanto datato, tuttavia il linguaggio è fresco; e la struttura formale, parte canzone e parte idillio, imita autori classici. La quartina iniziale del sonetto "El gerànio de la nona", di Gigi Lise ((1899-1960), diventa la metafora di un oggetto semplice, quotidiano, ma tanto amato dalla persona che lo cura con passione e tenerezza:

Dentro un pi?at de fer ƒmaltà de blu
ko l rùden su la panža e pièn de sfeƒe
me nona la te?éa kome un biƒù
un gerànio, el pi bel k era in paeƒe.

I nove versi che seguono perdono l'originalità dei primi quattro, forse anche a causa della banalizzazione del tema proposto: la scomparsa della nonna e l'abbandono dell'oggetto amato, il geranio.
Loris Santomaso (1945) medita il tema del Tempo fugit nella breve ma incisiva poesia "I di ke pasa":

Un drio kel alter
sti di balordi i pasa
lasando
a l vent e senža vita
tante speranže
naseste nte na sera
inkoi lontana.
Se resta
al kor na vože
ke parla de rekordi
ke ferma i tenp
ko tuti i so misteri
l dis
ke l so?o fat alora
l é solke iluƒion
e nia de pi.

È una introspezione metafisica degna di essere paragonata ad alcuni versi di Petrarca e di Ungaretti, come anche una esigenza di tradurre in versi i moti dell'animo, non di rado stridenti con il vivere quotidiano. Essa propone sì un tema classico però articolato con un linguaggio locale che dispone "di una sua propria autonomia e di una sua propria indipendenza." Il poeta che si autoanalizza, che fruga dentro se stesso per decodificare dubbi, paure, domande esistenziali, per capire meglio le varie sfaccettature dell'io e del mondo, prende parola anche fra le valli dolomitiche. Se nella Val Gardena Max Tosi ha elaborato queste tematiche, nelle nostre vallate lo stesso lavoro è stato fatto da poeti come Lucio Eicher Clere ("Padime/Pace" e "Ceda/Casa"), Ernesto Majoni ("Smaia/Diluvio" e "Calche ota/Qualche volta), Marco Dibona Moro ("Agnere/Ieri") e A. P. Nicolai ("La pioa e l sol/La pioggia e il sole" e "Me ficio malamente sote i pes/Mi ficco sgarbatamente fra i piedi"). Cito alcuni versi.

Da "Padime" di Lucio Eicher:

crös' al nöio, crös lediör
maia, maia, maia...
i rumores é fermade
dut' al mondo s é chiatò
maia, maia, maia e porta...
padime dintorno
padime dinze d nöi.

Da "Smaia" di Ernesto Majoni:

Jozes de aga
fieda
'es bagna
chera tèra negra
agnonche i mè paš
peta,
agnoche ra mè oš
sona,
agnoche iò no ciato
rechia.

Da "Agnere" di Marco Dibona Moro:

Agnere r'à tajù ra oš
uƒada a contà štories
a te dì el doman
fondà su radijes fortes.

Agnere l à fenì de vive
el recordo de un vecio saè:
ra ares es reštara da seà
ra legnes conbiades sun sorei
paroles, mote e susure
desmenteade
inze un cuore fiedo.

Da "Me ficio malamente sote i pes" di A. P. Nicolai:

Parchè crese le scarpade da le crode?
Aonde pende le faghere: sote o sora?
Parché scanpa le sghirate e le poiane
aonde muore le anguiane e le parole
se son dute nte sto bosco sepelide?
Forse meo ficiàse mute sote tera
finché l vermo se deseda, na farfala...

Afferma il Prof. Belardi: "La composizione letteraria non si limita a contemplare e a descrivere l'eccesso di bellezze naturali, che contraddistinguono le valli dolomitiche. Il passato non viene ricalcato solo come nostalgia dei bei tempi andati, quando tutto era più semplice e in armonia con l'indole umana. Il mondo moderno con la sua globalizzazione è ormai entrato nelle valli ladine in maniera tumultuosa, e le espressioni artistiche locali talvolta non riescono a chiamarsi fuori dal tumulto... La poesia non dovrebbe limitarsi a significare le parole, ma dovrebbe impegnarsi a suggerire, evocare l'intraducibile, suscitare emozioni. A volte taluni paiono quasi imbrigliati dal come bisogna dire, scrivere, piuttosto di che cosa esprimere." Spezzare le catene che legano i nostri poeti ladini odierni a forme e temi marcescenti, per non dire addirittura morti, è la sfida principale da affrontare. Non possiamo temere e/o negare il post-moderno, con tutti i paradossi che comporta: globalizzazione attraverso i mass media, pauperizzazione della lingua e della cultura "standard" del paese, la perdita di una travagliata innocenza, la contaminazione fra lingua e letteratura "locale" e quella delle zone confinanti, come pure di quelle straniere che arrivano alle nostre porte da ogni angolo del pianeta. Ciò richiede una sorta di simbiosi tra modernità e tradizione; bisogna costruire ponti fra le letterature locali, nazionali e/o internazionali del passato e le varie correnti artistiche che arricchiscono il presente. Ma per costruire questi ponti ci deve essere anche la volontà di demolire ostacoli per preparare il terreno. La tradizionale mentalità montanara, alquanto schiva e sospettosa, non si apre facilmente alla ormai inevitabile contaminazione-impollinazione-fertilizzazione. I nostri poeti dovrebbero analizzare, assimilare ed imparare dai percorsi già tracciati, dalle esperienze positive ormai alle spalle dei vicini poeti ladini, per esempio Valentino Dell'Antonio e Luciano Jellici (Fassa), Felix Dapoz e Iaco Ploner (Badia), Frida Piazza e Josef Kostner (Gardena), per non parlare dei poeti della "nuova generazione ladina" come Paul Zardini, Stefania Pitscheider e Iaco Rigo (Marebbe), Roberta Dapunt (Badia), Christian Ferdigg (Bolzano) e Ingrid Palfrader (Brunico).
Una parte necessaria di questa fertilizzazione coinvolge la traduzione, nelle varie "lingue madri", di validi testi provenienti dalle principali letterature sia antiche che moderne. Se tradurre implica in senso lato un tradimento, potenzialmente funziona anche come una "trasfusione" di idee, di ritmi, di concetti, di prospettive che possono fecondare la visione artistica degli autori che abitano nelle nostre vallate ladine. Può diventare un processo che rompe l'isolamento, che cancella il "provincialismo autoctono" e che offre le nostre creazioni letterarie a un pubblico più attento e più vasto. Un esempio positivo sono le traduzioni della gardenese Frida Piazza, come pure quelle del cadorino A. P. Nicolai. Non si parla quì di tradurre per imitare o per copiare bensì di un esercizio che spalanca occhi, cuori e orecchie del poeta-traduttore ad altre risonanze, a percorsi fatti da altri poeti che possono agire sulla propria creatività. La famosissima poesia dell'americano Robert Frost, "The Road Not Taken" assume interessanti vibrazioni in questa traduzione vighese:

La strada mai tolta

Doe strade se separàa te n bosco
ngialiu, me à despiasesto de no podè
féile nsieme parché son na sola persona;
ei vardòu una dò fin al fondo
aonde la se ncurvàa tel sotebosco

e dopo ei tolto chel'autra, anch'ela
giusta, e forse l avea pì dirito, con
tanta erba n tin manco pestada,
anche se tante persone era pasade
che le someàa proprio conpai;

e dute doe, chela bonora, mostràa
neanche n inpronta sora le foie.
Ei lassòu una par n autra dornada!
saveo che contrada ciama contrada
anche se forse no torno pì ndrio.

 

No sei aònde e dopo quanto tenpo
co' un sospiro te contarò sta storia:
doe strade se separàa te n bosco e iò
son desto su chela manco pestada
e chel me à fato duta la diferenza. (Traduzione di A. P. Nicolai)

Andrea Zanzotto, illustre poeta che scrive sia in italiano che in "lingua madre" solighese, rappresenta forse la più visibile incarnazione del poeta neo-dialettale. "Legittima o discutibile, la definizione di poesia neo-dialettale è entrata nell'uso corrente per definire la produzione di versi in dialetto degli anni Settanta-Ottanta, ad opera di autori provvisti di notevole strumentazione critica e consapevoli, sopratutto, del processo di estinzione e/o trasformazione subìto dal dialetto nella nuova realtà socio-culturale." Forse per rallentare la morte dei vernacoli locali, vari poeti di alto livello hanno abbracciato con passione ed originalità l'uso dei linguaggi appresi dal particolare microcosmo socio-culturale dove sono nati e dove vivono. Però il sorprendente risultato di questo processo è l'arricchimento della loro visione ed espressione poetica, ormai contaminata negativa-mente dall'uso della lingua ufficiale. Basta leggere le poesie "neo-dialettali" di Pier Paolo Pasolini, Giacomo Noventa, Biagio Marin, Ernesto Calzavara, Mario Dell'Arco, Franco Loi, insieme a quelle di Zanzotto, per capire l'impatto positivo creato da questa scelta. "Decisiva è la conversione o meglio l'estensione all'ambito dialettale della poesia di Andrea Zanzotto (1921), un autore che aveva già raggiunto una posizione eminente poetando in lingua, in una personale maniera neoclassico-sperimentale. Ancorato alla sua Pieve di Soligo, dialettofono coi dialettofoni, Z. non inibisce nel suo italiano parlato il marcato accento trevigiano, ma ha una cultura che non riconosce frontiere di nazioni né di discipline." Ogni lingua è un organismo vivente; se non viene alimentata, rinnovata, entra in coma ed infine muore. Tutte le "lingue madri" partecipano in questà realtà: hanno bisogno di nutrirsi di neologismi, di innesti contenutistici e formali; devono imparare a scontrarsi e confrontarsi con altri linguaggi e culture. Le poetiche ladine delle zone del Cadore, Ampezzo, Agordo e Zoldo stanno prendendo i primissimi passi in questa direzione e possono essere guidate dalle esperienze già fatte dai ladini limitrofi.
Polilinguismo, multiculturalismo, innesti con arti multimediali offrono i mezzi per spaziare nuovi orizzonti, per neutralizzare barriere imposte da un provincialismo soffocante, per dialogare con poeti di altri paesi, culture ed impostazioni artistiche. Offrono la possibilità di sopravvivenza, anche se continuamente logorata da un globalismo osceno e cannibaliz-zante. Ogni artista coinvolto deve confrontarsi con la sfida inevitabile: come equilibrare la dialettica rappresentata dal passato con le tendenze moderne che lo bombardano da ogni lato, che lo spingono ad aggiornarsi per non perdersi nel labirinto poliedrico delle tante lingue ascoltate, parlate e forse abusate ogni giorno. Non è una impresa facile, ma sembra essere obbligata da un mondo quasi senza frontiere. Le nostre vallate, il nostro paese, l'Europa sono attraversati da emigranti e da immigranti che portano con loro un bagaglio al minimo bilinguistico e spesso multilinguistico. Nessuno rimane illeso, incontaminato. E il poeta non può non rispondere a questa realtà. Ognuno di noi dovrà scegliere come, dove, quando e perchè farlo oppure non farlo, accettandone le conseguenze. Ma temo che l'isolamento condurrà più velocemente alla distruzione delle lingue minoritarie tuttora in bilico. Non è detto che solo le lingue principali domineranno il dialogo globale. Anche l'anglo-americano perderà il suo dominio, come è accaduto al latino e al francese. Morto l'impero, muore pure il dominio esercitato dalla lingua dominante. Nel frattempo ogni poeta dovrà decidere se inserire "anglicismi" o no nei suoi versi, se coniare neologismi per concetti alieni alla cultura tradizionale che non poteva conoscere la terminologia per cose e processi scoperti recentemente dalla scienza, dalla filosofia, dall'informatica, ecc. Il poeta e medico Cesare Ruffato ha scelto di rinnovare la "lingua madre" padovana creando una fittisima rete di neologismi, basta leggere il suo Scribendi licentia per apprezzare l'originalità e la genialità di quella impresa. Andrea Zanzotto ha fatto una simile scelta. Non scegliere mi sembra fatale per una lingua, letteratura e cultura. "Le nuove forme espressive del tipo 'performance' propongono anche contenuti letterari," insiste il Prof. Belardi, che continua: "L'incontro e l'elaborazione di progetti culturali, di comune accordo con artisti figurativi, musicisti e scrittori sta facendo maturare buoni frutti. L'apertura e il coinvolgimento delle realtà linguistico-culturali contermini possono pervadere proficuamente il mondo ladino, che non può più chiamarsi fuori da quel che accade nella contemporaneità circostante." Un autorevole esempio di questo coinvolgimento sinergistico fra poesia, musica e spettacolo è concretizzato nei progetti multimediali del Gruppo Musicale di Costalta, con il "tastierista" e direttore del coro, Daniele De Bettin che ha musicato le poesie di Lucio Eicher Clere. Scrive il critico Giuseppe Munarini: "Quindi il messaggio di Lucio Eicher Clere e del suo gruppo...è chiaro: dimostrare che è possibile creare versi, prose, canzoni e brani teatrali in ladino, cercare contatti con altri ladini o non ladini che apprezzano il tentativo che tende a favorire il risveglio di un piccolo popolo come tale." È un esempio che potrebbe essere seguito da ogni nostro gruppo linguistico minoritario. Infatti, per potenziare le prospettive, inviterei sia il Gruppo di Costalta sia ogni altro artista disposto, a tradurre nella sua "lingua madre" le opere di autori "foresti" e poi presentarle al pubblico: un altro modo di dialogare con il macrocosmo che si estende oltre i confini delle nostre isole alloglotte e che dovrebbe prolungare l'esistenza attiva delle nostre parlate.

©Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 17 settembre 2004

UN INVITO AI LETTORI...
Questo profilo storico è un works-in-progress, senza nessuna pretesa di completezza e/o finalità. Al contrario, invito i lettori ad accennarmi altri poeti, sia storici sia contemporanei, che per mia carenza sono stati ommessi. Vi invito a spedire i vostri commenti, raccomandazioni e materiale a:

prof. A. P. Nicolai
Piazza S. Orsola, 2
32040 Vigo di Cadore (BL)
Posta elettronica: apnicolai@hotmail.com

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