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Asce
di guerra
2000 Marco Tropea Ed., 384 pag. |
Certi
uomini sono quello che i tempi richiedono. Si battono, a volte
muoiono, per cose che prima di tutto riguardano loro stessi.
Compiono scelte che il senno degli altri e il senno di poi stringono
nella morsa tra diffamazione ed epica di stato. Scelte estreme,
fatte a volte senza un chiaro perché, per il senso dell’ingiustizia
provata sulla pelle, per elementare e sacrosanta volontà
di riscatto.
La retorica degli alzabandiera e la mitologia istituzionale
offrono una versione postuma e lineare della storia. Ma la linearità
e l’agiografia non servono a capire le cose. Le frasi
fatte e le formule ripetute dai palchi, come dai pulpiti, coprono
la rabbia, lo sporco e la dinamite, consegnando al presente
quello che chiede.
Scavare nel cuore oscuro di vicende dimenticate o mai raccontate
è un oltraggio al presente.
Un atto spregiudicato e volontario.
Le storie non sono che asce di guerra da disseppellire
***
Prologo
Europa orientale, località ignota,
1956.
L’ordine
di imbarco arriva a notte alta. Un quadrimotore di fabbricazione
sovietica, residuato della guerra mondiale. Proveniente dall’Albania.
Forse.
Ci stipiamo alla meglio tra casse di medicinali, croce rossa
su un lato, stella rossa dall’altro. Niente oblò.
Nessuno parla. Ognuno avvolto nei propri pensieri.
Lotto con il senso di colpa. Penso a cosa lascio alle spalle,
mia madre e mio padre, i miei fratelli. Non sapranno più
niente di me, né io di loro. Ufficialmente non siamo
mai saliti su questo aereo, non siamo mai stati addestrati,
non esistiamo. Quindi non possiamo morire. Nessuno comunicherà
ai familiari la nostra morte: è la regola.
L’aereo divora la pista lanciandosi nel buio.
Si
gela, trattengo il vomito. Mi accascio vinto dalla pressione
e dal frastuono dei motori.
Oltre i vetri della cabina intravedo le luci di una grande città.
Imola è lontana, un altro mondo.
La stanchezza degli ultimi giorni pesa nella testa e sugli occhi.
Tutt’intorno, sguardi fissi, puntati su niente.
Gli eroi che ho sempre desiderato imitare sembrano più
vicini. Il paese è diverso, lontano come Marte, ma lo
spirito è lo stesso. Ragazzi che alla mia età
hanno imbracciato le armi e combattuto da partigiani.
Teo, il maggior responsabile di questa avventura, ha resistito
con pochi altri contro un battaglione di tedeschi, con tanti
compagni paralizzati dal terrore, incapaci di reagire.
Geppi è sfuggito alle Brigate Nere grazie al piccolo
gregge che pascolavo dalle parti di Cuffiano. Pietro, mio fratello,
se l’è fatta sotto e dice di aver sparato si e
no dieci volte, ma c’è stato anche lui, lassù,
nell’inverno del ’44.
Il Moro e Bob, vere e proprie leggende.
Al Bar Nicola, detto il Cremlino, restano quelli con la rivoluzione
sulle labbra e le armi in giardino, sempre pronte a sparare,
ma buoni soltanto di sfogliare l’Unità, accusare
i punti del tresette e buttar giù un bicchiere di Albana
tra le risate. Dicono di aver conosciuto la fame anche loro,
ma a mala pena sanno cosa sia l’appetito.
Ora sono più vicini quel bambino di dieci anni e quella
donnina, always to go, sempre andare, in mezzo alla neve e alle
granate. Mia madre ed io, nel lungo inverno sul nostro Little
Big River, a cercare viveri per le larve umane strette insieme
a noi nel rifugio. Oggi torno ad essere qualcuno.
I carabinieri saranno già passati più volte. Vostro
figlio è fuggito dalla caserma del 9° CAR di Bari,
avete idea di dove possa trovarsi ora? No, niente. Non immaginano
neppure. Forse non rivedranno nemmeno il mio corpo, neppure
un pezzetto.
Il corpo straziato di Minghiné, trucidato dalle Brigate
Nere nel pozzo di Becca.
Aggiusto lo zaino sotto la testa e chiudo gli occhi.
L’agitazione si spegne, sopraffatta dal sonno.
frammenti...
3
Bologna, 20 gennaio 2000, 2.00 a.m.
Coda insonne
di una lunga giornata di merda. Cominciata con un caffè,
il mal di stomaco e una camicia pulita.
L’arrivo in studio, tre saluti e una decisione senza pensare:
niente telefono, vado.
Via Siepelunga, Centro Accoglienza “Monte Donato”.
L’incontro con Kadisha, occhi verdi sotto capelli castani
leggermente ramati, è una recita tra maschere. La maschera
dell’angoscia, della sottomissione, della rassegnazione
di fronte alle decisioni altrui, anche le più bizzarre
e grossolane.
«Said non era clandestino» dice, mordendosi il labbro,
con Nidal in braccio, la maschera di Kadisha.
Quella dell’avvocato, la mia, è un patetico succedersi
di frasi di rincrescimento, di imprecazioni sulla “burocrazia
assassina”, così ho detto, di inviti a farsi forza,
di sconfitte nel sostenere il suo sguardo, prima della fuga
quasi precipitosa, liberatoria.
Tornato in studio, telefonate, giornali, due appuntamenti. Dopocena
miserevole tra scazzi e sproloqui alla riunione dei Giuristi
Democratici. Poi a casa.
Primi piani di orologi cronografi e labbra carnose, titoli dei
giornali di domani e oroscopi, repliche di telefilm e dirette
di eventi sportivi dall’altra parte del globo, predicatori
di sette protestanti e lezioni di ingegneria. Nel naufragio
dello zapping, l’isola di un film sconosciuto, titoli
di testa su pellicola in bianco e nero.
Renato Salvatori, quello di Poveri ma belli e I soliti ignoti,
insieme a Tomas Milian, consegnato all’immaginario collettivo
nei panni sbracati d’Er Monnezza. Il binomio promette
bene, appoggio il telecomando e mi accomodo sul divano. La regia
è di Florestano Vancini, lo stesso de La lunga notte
del ’43 e Il delitto Matteotti, uno in gamba.
La banda Casaroli. Reminiscenze, qualcosa dei tempi di mio nonno.
Una storia vera.
Bologna, dicembre 1950. Un giovane e imberbe Tomas Milian si
aggira all’incrocio tra Santo Stefano e via Dante. La
scena è ingombra di fotografi, poliziotti, giornalisti
e curiosi. Si capisce che il ragazzo è coinvolto con
quanto è appena accaduto. Dalle sue riflessioni sul destino
dei due amici, Paolo e Corrado, parte il flash-back che illustra
l’antefatto.
Man mano che le immagini scorrono, la tensione aumenta. Un conflitto
aspro e irrisolto elettrizza le gesta criminali della banda
Casaroli, dedita alle rapine in banca e alla bella vita. E’
difficile dire da dove arrivi questa sensazione, ma certo è
qualcosa di molto lontano dai soliti Anni Cinquanta su celluloide.
Bologna è tetra e spettrale, sempre avvolta nella nebbia,
deserta. «La sentite questa puzza che non se ne va mai?»
chiede a un certo punto Casaroli fresco di doccia annusando
il cappotto nuovo. «Lo sapete cos’è? E’
Bologna!».
Milian/Gabriele abita in uno squallido caseggiato per profughi
istriani, nessuna concessione alla falsa estetica della povertà.
Salvatori/Casaroli ha una ghigna allucinata, satanica, che non
gli avevo visto nemmeno nella scena dello stupro in Rocco e
i suoi fratelli. La sua smania di vivere non ha niente del fancazzismo
dei vitelloni o della dolce vita romana. E’ una febbre
rabbiosa, uno sfogo, ansia di vedere il mondo, anche se il viaggio
non va oltre Venezia e Genova, paragonata addirittura a Shanghai.
Prende pastiglie di simpamina per svegliare i riflessi, sbraita
che il mondo si divide in due categorie, chi alza le mani e
chi le fa alzare, insiste che nella vita è questione
di fegato e meningi, mescola fascismo di ritorno e teorie deliranti
da Superuomo. Finché non lo senti gridare «Noi
non saremo mai poveri!». Lui, quello di Poveri ma belli.
Alla fine per la banda non c’è scampo, troppe ingenuità.
Nulla però che ricordi i Soliti ignoti. Il finale è
una scena da Far West nel pieno centro di Bologna. Spari, morti
ammazzati, inseguimenti, violenza gratuita, vigili urbani armati…
Uno dei banditi si spara in testa durante il conflitto a fuoco,
Casaroli resta ferito, Gabriele assiste impotente senza essere
coinvolto. Il giorno dopo, minato dall’angoscia, si uccide
con un colpo al cuore durante la proiezione di un film con Fernandel
in un cinema del centro.
Il “Giornale dell’Emilia”, ovvero Il Resto
del Carlino sotto mentite spoglie, dà la notizia della
morte di Casaroli. Il capobanda, invece, è ancora vivo,
ricoverato in ospedale. Un cronista querulo e pieno di domande
imbecilli, desideroso di spiegare ai lettori il perché
di tanta violenza, lo va a intervistare. Il criminale non rinuncia
alla facciata.
«Meglio un giorno da Casaroli che la miseria di un lavoro.»
4
Bologna, 20 gennaio 2000, 3.55 a.m.
Il dopoguerra.
Gli anni Cinquanta.
Avrei sempre voluto intervistare mio nonno. Ho rimandato fino
a che non è stato troppo tardi. E così, a trent’anni,
ti ritrovi con la sensazione di aver perso qualcosa, come smarrire
il filo del discorso durante un’arringa. La stessa sensazione.
Gli anni Cinquanta.
Il cinema mi trascina in un buco nero.
Esistono altri film come La banda Casaroli? Sicuramente poca
roba.
Fantasmi.
Di quel decennio, l’uso politico della memoria ci ha consegnato
un’immagine piatta, lontana, distorta.
La decade ingenua e scanzonata di Poveri ma belli.
Quella melensa e dalla lacrima facile dei film di Matarazzo
con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson.
L’Italietta onesta, laboriosa, che si crede alleata delle
grandi potenze occidentali mentre ne diviene colonia.
Italietta stupida, con un piede ancora nel fascismo (stessi
codici, stessi prefetti, stessi questori) e uno a mezz’aria,
sul ciglio di nuovi baratri chiamati «modernità».
Bella Italia da cartolina, forse un po’ ammorbata dalla
presenza dei comunisti, guastafeste che rovinano l’atmosfera
di concordia generale. Ma anche su di loro si può spargere
abbondante melassa ridanciana. Il compagno Peppone da Brescello.
L’intero ciclo di Don Camillo viene riproposto con cadenza
ossessionante sui canali Mediaset, a ogni campagna elettorale.
Curiosa coincidenza. Un esplicito intento anti-“comunista”?
Può darsi. Ma il messaggio recepito è diverso,
se possibile ancor più reazionario. Com’era semplice
e bonario, il conflitto. Com’era... rustico. La guerra
fredda si poteva sempre riscaldarla con un bicchiere di Lambrusco
in osteria. Le ideologie passano, ma noi italiani sempre Brava
Gente, la mamma, la famiglia, il bar e un prete nelle immediate
vicinanze. Condannati a un eterno democristianismo, qualunque
accozzaglia si trovi al governo.
Don Camillo e Peppone li si riguarda sempre volentieri. Fanno
ridere.
Dal
‘48 al ‘54, le forze dell’ordine uccisero
circa un centinaio di persone (la maggior parte scioperanti
e manifestanti, ma anche semplici passanti), ne ferirono migliaia,
ne arrestarono o fermarono più di centomila. Di questi,
i tribunali ne condannarono circa la metà, per un totale
di decine di migliaia di anni di carcere, tra cui molti ergastoli.
E’ stato il bisogno di tranquillità, di figure
rassicuranti, di pace sociale e politica a cristallizzarsi nel
cinema, mentre tutto ciò che non assecondava quel desiderio
veniva rimosso, censurato?
Perché non era l’Italia di Peppone e don Camillo
ma quella “con più armi sotto terra che patate”.
Un paese che sognava Peppone, ma aveva i morti per le strade,
sognava don Camillo, mentre scomunicava i comunisti.
Il cinema assecondò i sogni e ignorò il resto:
era troppo duro perché il pubblico aspirasse a sentirselo
raccontare, oltre che a viverlo.
Certo, la censura clericale e di stato picchiava duro: Totò
e Carolina di Monicelli non venne distribuito perché
accusato di vilipendere le forze di polizia. Non era facile
esprimersi.
C’era la commedia satirica, ma col tempo la satira ha
perso incisività, anche i film più caustici sono
ormai elementi del fondale, l’ennesima rassicurante presenza
degli Italiani Brava Gente.
Quando
m’imbatto nel conflitto, fatico a riconoscerlo. Il «neorealismo».
Ripenso ai film di Rossellini, De Sica e compagnia. Pezzi di
storia del cinema, d’accordo, ma non mi restituiscono
nulla del far west che trovo nelle cronache. La messa in scena
di una miseria che oggi appare poetica, glamourizzata. La povertà
non è poetica. E’ squallida, anti-estetica, puzza.
Francescanesimo e zdanovismo hanno inquinato l’immaginario.
Non solo. Lo scorrere degli anni modifica il senso degli enunciati.
Dolce vita oggi è sinonimo di spensieratezza. Il film
di Fellini invece non è certo un grido d’amore
per una società squallida e zuccherosa, e Roma è
una puttana di quart’ordine.
E allora? Allora è successo che nel ricordare, chi era
giovane in quel decennio si è lasciato prendere dalla
nostalgia. Quando sei vecchio gli anni della giovinezza ti sembrano
sempre belli, e li rimpiangi qualunque cosa sia successa. Così,
con i loro sospiri, i nostri nonni e genitori ci hanno raccontato
un’altra storia e nessun film, qualche libro, hanno provato
a smentirli. Anche per questo l’intervista al padre di
mio padre è un’occasione mancata. Perché
quello che i vecchi ci raccontano dipende anche dalle domande
che gli rivolgiamo. «E’ vero che si ballava il mambo?
E’ vero che ci si trovava tutti insieme a vedere la TV
nel bar sotto casa? E’ vero che baciarsi in pubblico era
sconveniente?». Mancano gli altri interrogativi, a cui
forse avrebbero risposto con pochi rimpianti. «E’
vero che la polizia sparava sugli scioperanti? E’ vero
che se uno era comunista non gli davano il passaporto? E’
vero che gli americani volevano tirare l’atomica sull’Indocina?».
Nel
decennio successivo, il paese venne percorso e squassato da
una febbre cementizia di cui continua a pagare le conseguenze.
Il Paese democristiano doveva dare di sé un’immagine
positiva, rampante, proiettata verso il boom economico.
Ma in tanti abitavano ancora nei tuguri, non avevano il bagno
in casa, molti nemmeno l’acqua corrente. Però si
costruivano le autostrade.
Chiudiamo gli occhi e vediamo il maritino e la mogliettina di
fronte ai conti del mese che si fanno coraggio a vicenda: vedrai
che ce la facciamo, fra un paio d’anni avremo i soldi
per la Seicento. L’immaginario borghese ci ha consegnato
questi piccoli eroi.
Qualcuno avrebbe dovuto scovarne degli altri, tra la massa silenziosa
degli sconfitti.
Bisognerebbe guadare fiumi di sangue e bile, affondare nelle
frattaglie umane fino al ginocchio, per capire cosa ci è
stato sottratto, cosa è stato rimosso, cosa ad un certo
punto è diventato ineffabile, indicibile ancora e soprattutto
oggi.
In fondo, hanno vinto i cattivi, cioè “i buoni”.
Prima
di tornare a letto e tentare di dormire afferro un foglio di
carta. Scrivo ai miei futuri nipoti: se un giorno vi parlerò
bene degli anni Ottanta, provate a farmi delle domande diverse.
Se insisto, avvertite la mamma che il nonno si è rincoglionito.
Ripongo la busta e spengo la luce.
Mi giro nelle coperte.
Ho ancora davanti agli occhi quelle sbarre. Facce dure di tagliagole
stanchi, di miserabili, di bestie reiette. Animali “cattivi”
in gabbia.
E lo sguardo insostenibile di Kadisha che mi scava dentro.
Cosa abbiamo fatto per meritarci questa merda? Qual è
il Grande Tradimento? O è piuttosto un accumularsi nel
tempo di piccoli tradimenti, ciascuno perfettamente giustificabile,
anche se il risultato finale è l’orrore?
Qual è il punto d’origine? E’ possibile rintracciarne
uno? Uno qualsiasi, che aiuti a capire.
Sì, avrei proprio dovuto farle quelle domande al vecchio
“Soviet”.
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