Chuck Palahniuk

 

Ninna Nanna
2002 - Mondadori, Strade Blu, pag.273


 

 

Carl Streator è un uomo solitario. Ha quarant'anni, è vedovo e fa il giornalista. Mentre lavora a un reportage sulla sindrome della morte improvvisa del neonato scopre qualcosa di terribile: la presenza in tutti i luoghi dove sono morti dei bambini piccoli del libro “Poesie e filastrocche da tutto il mondo”, aperto su una nenia africana usata per dare la "dolce morte". Il canto si rivela un'arma micidiale: basta leggerlo a voce alta o anche solo recitarlo a mente "dirigendolo" verso qualcuno e quel qualcuno finisce per tirare le cuoia. Carl diventa - più o meno involontariamente - un serial killer e si associa con un'agente immobiliare (tale Helen Hoover Boyle, specializzata nella compravendita di case "infestate" da spiriti e che anni prima ha perso un figlio piccolissimo per colpa della ninna nanna). Insieme solcano in lungo e in largo gli Usa, allo scopo di fare piazza pulita di tutte le copie esistenti del libro, nel timore che il mortale virus verbale si diffonda fino a cancellare ogni forma di vita umana. Ad accompagnarli sono l'assistente di Helen, Mona, aspirante strega, e il suo ragazzoOstrica, un ecoterrorista che vive di truffe e ricatti. Benvenuti nella nuova famigliola!
Ninna nanna è una raggelante parabola sul pericolo di infezioni psichiche in un'epoca di proliferazione spropositata dell'informazione. Ma è anche un thriller mozzafiato, con una trama ricca di suspence e di sorprese. Infine, trattandosi di un romanzo di Palahniuk, è anche una black comedy che lo impone una volta per tutte come il più divertente e visionario dei nichilisti di oggi.

***

1.

Il problema delle storie è che le racconti a giochi fatti.
Anche le telecronache di baseball alla radio, gli home-run e gli strikeout, persino quelli sono in ritardo di qualche minuto. Persino i programmi Tv in diretta arrivano un paio di secondi dopo.
Persino il suono e la luce non superano una certa velocità.
Un altro problema e chi la storia la racconta. Il chi, il cosa, il dove, il quando e il perchè del giornalismo. La forma che il messaggero dà ai fatti. Quello che i giornalisti chiamano
Il Guardiano. Il fatto che il modo in cui si presenta una storia è tutto.
La storia dietro la storia.
Parlo di tutto questo da un bar ogni volta diverso. Il luogo in cui scrivo questo libro, capitolo dopo capitolo, non è mai lo stesso paesino, o città, o bar per camionisti perso nel nulla.
Ciò che tutti questi luoghi hanno in comune sono i miracoli. Mi riferisco alla roba che leggi nei rotocalchi di bassa lega, tutte le guarigioni, le apparizioni e i miracoli di cui i giornali importanti non parlano mai.
Questa settimana è la volta della Santa Vergine di Welburn, New Mexico. La settimana scorsa l'hanno vista volare giù per Main Street. Con i lunghi dreadlock rossi e neri al vento, i piedi scalzi e sporchi, una gonna di cotone indiana di due tonalità di marrone diverse e un toppino di jeans legato dietro il collo. Tutti i dettagli nel "World Miracles Report" di questa settimana, accanto alla cassa di ogni supermercato d'America.
Ed eccomi qua, una settimana dopo. Sempre un passo indietro. A giochi fatti.
La Vergine Volante ha le unghie con lo smalto rosa e le punte bianche. Una manicure alla francese, l'hanno definita alcuni testimoni. La Vergine Volante aveva una bomboletta di spray antizanzare Off, e con quella nell'azzurro cielo del New Mexico ha scritto:

SMETTETELA DI FARE FIGLI

(Sic)
Poi la bomboletta di Off l'ha lasciata cadere. Ora è in viaggio per il Vaticano. Per delle analisi. Già adesso sono in vendita foto dell'evento. Videocassette, persino.
Quasi tutto quello che si può comprare, lo si può comprare a giochi fatti. Catturato. Ucciso. Cotto e servito.
Nei videosouvenir si vede la Vergine Volante che agita la bomboletta. Fluttuando nel cielo di Main Street, saluta la folla. E sotto l'ascella ha un ciuffo di peli scuri. Un attimo prima che cominci a scrivere, una folata di vento le solleva la gonna, e la Vergine Volante non porta gli slip. In mezzo alle gambe è depilata.
E da qui che oggi scrivo la mia storia. Da una tavola calda dove parlo con alcuni dei testimoni di Welburn, New Mexico. Con me c'è Sarge, un vecchio patatone di poliziotto irlandese. Sul tavolo che ci divide c'è un quotidiano locale, ripiegato in modo da evidenziare un annuncio su tre colonne che dice:

A tutti i proprietari di mobili imbottiti: attenzione!

"Qualora dei ragni velenosi abbiano deposto le uova nei vostri mobili imbottiti" dice l'annuncio, "sussistono gli
estremi per intentare un'azione legale collettiva." E indica anche un numero di telefono, del tutto inutile.
Il Sarge ha uno di quei colli con la pelle tanto floscia che se gliela pizzichi quando la lasci andare non si distende, resta cosi com'è. A quel punto lui deve cercare uno specchio e sfregarsela finché non torna liscia.
Fuori dalla tavola calda il flusso di gente che entra in città non si è ancora interrotto. Gente che si inginocchia e prega per un'altra apparizione. Con le grosse mani giunte, il Sarge finge di pregare, e intanto sbircia fuori dalla vetrina con la coda dell'occhio. Fondina slacciata, pistola carica e pronta per il tiro al piattello.
Dopo aver fatto il suo graffito nel cielo, la Vergine Volante si è messa a mandare baci. Ha fatto il segno della pace con le due dita. Si è levata al di sopra degli alberi, tenendosi giù la gonna con una mano, si è ravviata i dreadlock rossi e neri e Amen. Sparita dietro le montagne, al di la dell'orizzonte. Nel nulla.
Ma è anche vero che non si può credere a tutto quello che scrivono i giornali.
La Madonna Volante non è stata un miracolo.
E’ stata una magia.
Questi non sono santi. Sono incantesimi.
Io e il Sarge non siamo qui per assistere a un'apparizione. Noi due siamo cacciatori di streghe.
Ma è anche vero che questa storia parla del qui e dell'ora. Di me, del Sarge, della Vergine Volante. Di Helen Hoover Boyle. Quella che sto scrivendo è la storia di come ci siamo incontrati. Di come siamo arrivati fin qui.


2.

Ti fanno una sola domanda. Poco prima di diplomarti alla scuola di giornalismo, ti chiedono di immaginarti nei panni di un reporter. Lavori in un importante quotidiano di una grande città e una sera, la vigilia di Natale, il caporedattore ti spedisce a indagare su un caso di morte.
La polizia e l'ambulanza sono già sul posto. Il corridoio dello squallido condominio è già stipato di vicini in accappatoio e ciabatte. Nell'appartamento c'è una giovane coppia che singhiozza accanto all'albero di Natale. Il figlio è morto soffocato da uno degli addobbi dell'albero. Raccogli i dati che ti servono, nome del bambino, età e via dicendo, dopodiché torni in redazione che è quasi mezzanotte e riesci a finire l'articolo giusto in tempo per mandarlo in stampa.
Lo fai leggere al caporedattore e lui te lo stronca perché non hai scritto di che colore era l'addobbo. Rosso o verde? Vederlo era impossibile, e a te non è venuto in mente di chiederlo.
Dalla tipografia strillano che bisogna chiudere la prima pagina, e tu hai solo due scelte.
Chiamare i genitori e farti dire il colore.
O rifiutarti di chiamarli e perdere il lavoro.
Ecco il quarto stato. Il giornalismo. E dove ho studiato io, l'intero esame di deontologia professionale consisteva in quest'unica domanda. E un aut-aut. Io ho risposto che avrei chiamato i paramedici. Oggetti del genere vengono catalogati. Qualcuno doveva per forza aver ficcato l'addobbo in una busta e scattato una foto. Figurarsi se andavo a chiamare i genitori la vigilia di Natale a mezzanotte passata.
In deontologia professionale ho preso dal 5 al 6.
Al posto della deontologia professionale, ho imparato a dire alla gente solo quello che vuole sentirsi dire. Ho imparato a scrivere tutto quanto. E ho imparato che i capiredattori possono essere davvero stronzi.
Da allora non ho mai smesso di chiedermi quale fosse il vero senso di quel test. Oggi faccio il giornalista, lavoro per un quotidiano importante, e le cose non ho più bisogno di immaginarmele.
Il mio primo bambino risale a un lunedì mattina di settembre. Niente addobbi natalizi, quella volta. Niente vicini accalcati intorno alla casetta prefabbricata in periferia. Solo un paramedico seduto nel cucinino con i genitori a fargli le domande standard. Il suo collega mi ha accompagnato nella nursery e mi ha fatto vedere quello che trovano di solito nella culla.
Tra le domande standard dei paramedici ci sono le seguenti: Chi è stato a trovare il cadavere? Quando? Il bambino è stato spostato? Quand'è stato visto vivo per l'ultima volta? Veniva allattato al seno o artificialmente? Sembrano domande fatte a casaccio, ma un medico non può fare altro che raccogliere dati statistici nella speranza che un giorno emergano delle analogie.
La nursery era gialla con le tendine a fiori azzurri alle finestre e una cassettiera bianca di vimini accanto alla culla. C'era una sedia a dondolo dipinta di bianco. Sopra la culla era appeso uno di quei giochini mobili fatto di farfalle gialle di plastica. Sulla cassettiera c'era un libro aperto a pagina 27. Per terra c'era un tappetino intrecciato azzurro. Appesa a un muro, una cornice con dentro una scritta ricamata. Diceva: “Nato di Giove farà strada e non ci piove”. La stanza profumava di borotalco.
E magari io la deontologia professionale non l'ho imparata, però ho imparato a osservare. Non esistono dettagli di poco conto.
Il libro aperto si intitolava “Poesie e filastrocche di tutto il mondo” ed era stato preso in prestito dalla biblioteca della contea.
Il mio caporedattore aveva in mente di realizzare un reportage in cinque parti sulla cosiddetta sindrome della morte improvvisa del neonato. Ogni anno settemila neonati muoiono senza un motivo apparente. Due bambini su mille un bel giorno vanno a nanna e non si svegliano più. Il mio caporedattore, Duncan, le chiama morti in culla.
I dettagli di Duncan sono che ha la pelle butterata dalle cicatrici dell'acne e che ogni due settimane quando si tinge le ricrescite grigie gli spunta una linea marrone sul cuoio capelluto, lungo l'attaccatura dei capelli. La password del suo computer è "password".
L'unica cosa che sappiamo sulla morte improvvisa del neonato è che non esiste uno schema preciso. Quasi tutti muoiono mentre sono da soli, tra la mezzanotte e il mattino, ma un neonato può morire anche mentre dorme accanto ai genitori. Può morire nel seggiolino dell'auto o nel passeggino. Un neonato può morire tra le braccia della madre.
C'è un sacco di gente che ha dei figli, ha detto il mio caporedattore. E’ il tipo di articolo che un genitore o un nonno ha troppa paura di leggere ma che alla fine legge lo stesso. Di informazioni nuove da dare non ce ne sono, ma l'idea era quella di realizzare cinque ritratti di famiglie che hanno perso un figlio neonato. Mostrare come la gente affronta la perdita. Come la vita continua. Qui e là potremmo infilarci qualche dettaglio essenziale sulle morti in culla. Descrivere la fonte inesauribile di forza interiore che queste persone scoprono di avere. Il taglio del reportage sarebbe quello. Il genere di cronaca che, non essendo legata a un fatto d'attualità specifico, in gergo si definisce soft. Uscirebbe sulla prima pagina della sezione Costume.
Come illustrazioni potremmo usare foto di bimbi sani ora morti.
Spiegheremmo che è una cosa che può capitare a chiunque. Così mi ha detto lui. E’ il tipo di reportage concepito per beccarsi un premio giornalistico. Eravamo alla fine dell'estate e le notizie scarseggiavano. Ed era il periodo dell'anno in cui si concludono più gravidanze e nascono più bambini.
L'idea di tallonare i paramedici delle ambulanze è stata del mio caporedattore.
La faccenda di Natale, la coppia di genitori singhiozzanti, l'addobbo dell'albero... ormai lavoravo da così tanto tempo che quelle cazzate me le ero scordate.
Quella domanda di deontologia devono per forza fartela a fine corso, perché a quel punto non puoi più tornare indietro. Hai le rate del prestito studentesco da rimborsare. A distanza di anni e anni, il sottoscritto è giunto alla conclusione che il vero senso della domanda è: Sei sicuro di volerti guadagnare da vivere cosi?



 

il prossimo libro è Fight club


Chuck PALAHNIUK -
gli altri SCRITTORI - HOME