Charles Bukowski

 

 

Panino al Prosciutto
1982 - Guanda, pag. 327

 

In una Los Angeles periferica e prostrata dalla Grande Depressione, Henry Chinaski, adolescente ribelle, figlio di immigrati tedeschi, vive il suo apprendistato alla vita: la scuola, i piccoli furti, i giochi di strada, le risse, il baseball, l’iniziazione al sesso. Un apprendistato ruvido, duro, rabbioso, consumato all’insegna della disillusione e del rifiuto: dei valori del padre, delle amicizie fasulle, dei sogni giovanili. Ma allo stesso tempo scopre la biblioteca pubblica e la compagnia impareggiabile dei libri, il conforto dell’alcol e la scrittura come unica strada verso l’autentica conoscenza di sé. Panino al prosciutto è la storia di un viaggio adolescenziale verso la libertà che Bukowski ci narra mantenendosi come sempre in bilico tra invenzione e racconto autobiografico, con i modi unici del suo stile acre, sarcastico, ma anche sottilmente e teneramente disperato. (tratto da "www.tealibri.it")

 

***

l'inizio...

La prima sensazione che ricordo è di essere sotto qualcosa.
Era un tavolo, vedevo la gamba di un tavolo, vedevo le gambe della gente, e un pezzetto di tovaglia che pendeva. Era buio, lì sotto, mi piaceva stare lì sotto. Dovevamo essere in Germania. Dovevo avere 1 o 2 anni. Era il 1922. Stavo bene sotto il tavolo. Pareva che nessuno si fosse accorto che ero lì sotto. Il sole illuminava il tappeto e le gambe della gente. Il sole mi piaceva, le gambe della gente non erano molto interessanti, non quanto quel pezzo di tovaglia che pendeva, non quanto la gamba del tavolo, non quanto la luce del sole.

Poi più nulla...poi un albero di Natale. Candeline Ornamenti: uccellini con ramoscelli pieni di bacche nel becco. Una stella. Due grandi che litigavano, urlando. Gente che mangiava, sempre gente che mangiava. Anch'io mangiavo. Avevo un cucchiaio piegato in modo che se volevo mangiare dovevo prenderlo con la destra. Se lo prendevo con la sinistra non riuscivo a metterlo in bocca. Io volevo prenderlo con la sinistra.

Due persone: una più grande, coi capelli ricci, il naso grosso, la bocca larga, le sopracciglia spesse; la persona più grande sembrava sempre arrabbiata, gridava sempre; la più piccola stava zitta, aveva la faccia tonda, pallida, e gli occhi grandi. Mi facevano paura tutti e due. A volte c’era una terza persona, grassa, col colletto di pizzo. Portava una grossa spilla e aveva la faccia piena di verruche coi peli. « Emily », la chiamavano. Queste persone non sembravano contente di stare insieme. Emily era la nonna, la madre di mio padre. Mio padre si chiamava « Henry ». Mia madre si chiamava « Katherine » . Io non li chiamavo mai per nome. Io ero « Henry Jr. ». Queste persone parlavano quasi sempre tedesco, e all'inizio parlavo anch'io quasi sempre tedesco.
La prima cosa che ricordo di aver sentito dalla bocca della nonna è: « Vi seppellirò tutti ! ». Lo disse per la prima volta proprio mentre stavamo cominciando a mangiare, e da allora glielo sentii ripetere un sacco di volte, sempre prima di mangiare. Mangiare sembrava molto importante. Mangiavamo purea di patate con il sugo, specialmente la domenica. Mangiavamo anche roast beef, wurstel coi crauti, piselli, rabarbaro, carote, spinaci, fagiolini, pollo, spaghetti con le polpette, a volte mescolati con ravioli: c'erano cipolle bollite, asparagi, e la domenica anche la crostata di fragole con il gelato di crema. A colazione mangiavamo pane inzuppato nell'uovo e fritto, e salsicce, oppure frittelle con uova e pancetta. E c'era sempre il caffè. Ma le cose che ricordo meglio sono quella purea col sugo e la nonna, Emily, che diceva: « Vi seppellirò tutti ! ».
Veniva a trovarci spesso, da quando ci eravamo trasferiti in America, prendeva il tram rosso da Pasadena a Los Angeles. Noi andavamo a trovarla di rado, con la nostra Ford Model-T.
La casa della nonna mi piaceva. Era una casetta piccola, sotto una gran massa di alberi del pepe. Emily aveva un sacco di canarini, ciascuno nella sua gabbia. Ricordo una visita in particolare. Quella sera la nonna fece il giro delle gabbie e le coprì tutte col loro cappuccio bianco per far dormire gli uccelli. I grandi erano seduti in poltrona e chiacchieravano. C'era un piano e io ero seduto al piano e premevo i tasti e ascoltavo i suoni mentre gli altri parlavano. Mi piaceva il suono dei tasti a quell'estremità del piano dalla quale praticamente non si riusciva a tirar fuori alcun suono... era un rumore come di cubetti di ghiaccio che si urtavano.
« Vuoi smetterla? », disse mio padre a voce alta. « Lascialo suonare », disse la nonna.
La mamma sorrise.
« Quel ragazzo », disse la nonna, «una volta che lo tirai su dalla culla per baciarlo mi diede un pugno sul naso ! ».
Continuarono a parlare e io continuai a suonare il piano.
« Perché non fai accordare quel piano? », chiese mio padre.
Poi mi dissero che dovevamo andare a trovare il nonno. Il nonno e la nonna non vivevano insieme. Mi dissero che il nonno era un cattivo soggetto, che gli puzzava il fiato.
« E perché gli puzza il fiato? ».
Non risposero.
« Perché gli puzza il fiato? ».
« Perché beve ».
Salimmo sulla Model-T e andammo a trovare il nonno Leonard. Quando arrivammo e ci fermammo davanti alla sua casa, lui era sulla veranda. Era vecchio, ma teneva la schiena dritta. Era stato ufficiale dell'esercito, in Germania, ed era venuto in America quando aveva sentito dire che le strade erano lastricate d'oro. Non era vero, e così il nonno era diventato il capo di un'impresa edile.
Gli altri non scesero dalla macchina. Il nonno agitò un dito verso di me. Qualcuno aprì la portiera e io uscii fuori e andai verso di lui. Aveva i capelli bianchissimi, e lunghi, e anche la barba, bianchissima e lunga, e quando gli fui vicino mi accorsi che i suoi occhi brillavano come lucine azzurre, e mi guardavano. Mi fermai a qualche passo da lui.
« Henry » , disse il nonno, « io e te ci conosciamo.Vieni dentro ».
Mi tese la mano. Mi avvicinai ancora e sentii il puzzo del suo fiato. Era molto forte, ma lui era l'uomo più bello che avessi mai visto e non avevo paura.
Entrai in casa con lui. Mi accompagnò a una sedia.
« Siediti, prego. Sono molto contento di vederti »
Andò in un'altra stanza. Poi ne usci con una scatoletta di latta.
« E per te. Aprila ».
Armeggiai col coperchio ma non riuscii ad aprirla. «Su », disse lui, « dalla a me ».
Apri il coperchio e mi porse di nuovo la scatoletta di latta. lo alzai il coperchio e vidi una croce, una croce tedesca con tin nastro.
« Oh no » , dissi, « tienila tu ».
« E’ tua », disse lui, « è solo una patacca ». «Grazie ».
« Adesso va'. Saranno preoccupati ». « Va bene. Arrivederci ».
« Arrivederci, Henry. No, aspetta... ».
Mi fermai. Lui infilò un paio di dita in un taschino dei pantaloni, con l'altra mano cominciò a estrarre una lunga catena d'oro. Poi mi diede il suo orologio d'oro da taschino, con la catena.
« Grazie, nonno... ».
Durante il viaggio di ritorno i grandi parlarono di molte cose. Parlavano sempre, e continuarono a parlare fino a quando arrivammo a casa della nonna. Parlarono di molte cose ma mai, neppure una volta, del nonno.

***

XXIV

La nostra insegnante d'inglese, Miss Gredis, era la perfezione assoluta. Era una bionda con il naso lungo e affilato. Il naso non era granché, ma non lo si notava nemmeno, guardando il resto del corpo. Indossava vestiti attillati con profonde scollature a V, scarpe nere col tacco alto e calze di seta. Era sinuosa come un serpente e aveva due gambe lunghe, bellissime. Restava seduta in cattedra solo per fare l'appello. Dopo l'appello scendeva giù e andava a sedersi su un banco vuoto di fronte a noi. Miss Gredis se ne stava appollaiata lassù con le gambe accavallate e la sottana alzata. Mai avevamo visto caviglie, gambe e cosce come quelle. Be', c'era Lilly Fischman, ma Lilly era una ragazzina troppo cresciuta, mentre Miss Gredis era una donna fatta. E potevamo guardarla con comodo, per un'ora intera ogni giorno. Non c'era ragazzo nella classe che non sentisse con tristezza il suono del campanello, alla fine dell'ora di inglese. Parlavamo sempre di lei.
« Credete che voglia farsi scopare? ».
No, vuol solo provocare. Lo sa che ci fa diventare matti, e si diverte, è l'unica cosa che le interessa ».
« Io so dove abita. Una di queste sere vado a trovarla ».
« Non ci credo! Ti ci vorrebbe un bel fegato! » .
« Ah, non ci credi, eh? Non ci credi? La scoperò a sangue. E’ quello che vuole ».
« Un tizio di seconda ha detto che una sera è andato a trovarla ».
« Ah si? E cosa è successo? ».
« Gli ha aperto la porta in camicia da notte, con le tette praticamente di fuori. Lui le ha detto che aveva dimenticato che compiti c'erano per il giorno dopo. Lei gli ha detto di entrare ».
« Non e una palla? ».
« No, lo giuro. Ma non è successo niente. Lei gli ha fatto il té, gli ha detto che compiti c'erano e poi lui se n'è andato ».
« Se io fossi riuscito a entrare, non me ne sarei certo andato a mani vuote ».
« Ah si? E cos'avresti fatto? ».
« Prima glielo avrei messo dentro, poi le avrei leccato la fica, poi gliel'avrei sfregato in mezzo alle tette e poi l'avrei costretta a succhiarmelo ».
« Ma senti, senti... il nostro sognatore. Hai mai scopato? ».
« Cazzo si, certo che ho scopato. E parecchie volte ».
« E com'è andata? ».
« Uno schifo ».
« Non sei riuscito a venire, eh? ».
« No, sono venuto dappertutto, pensavo di non riuscire più a fermarmi ».
« Ti sei sporcato la mano, eh? ».
« Ah, ah, ah, ah! ». « Ah, ah, ah, ah, ah, ah ! ».
« Ah, ah! ».
« Sei venuto in mano, eh? ».
« Andate a fare in culo ! »
« Non credo che qualcuno di noi abbia mai scopato davvero », disse uno dei ragazzi.
Ci fu un attimo di silenzio.
« Balle. Io ho scopato per la prima volta a sette anni ».
« Roba da ridere. Io ne avevo quattro, la prima volta ».
« Si, Rosso. Raccontalo a qualcun altro ».
« Con una bambina piccola ».
« E ti è venuto duro? ».
« Certo ».
« E sei venuto? ».
« Credo di si. Qualcosa è schizzato fuori ». Certo. Le hai pisciato nella fica, Rosso ».
« Balle ! ».
« Come si chiamava? ».
« Betty Ann ».
« Cazzo », disse il ragazzo che sosteneva di aver scopato a sette anni. « Anche la mia si chiamava Betty Ann ».
« Quella puttana », disse Rosso.

***

XXXI

Il giorno dopo ero seduto nella mia sedia di metallo verde ad aspettare che mi chiamassero. Davanti a me c'era un uomo con qualcosa al naso. Aveva il naso molto rosso e molto infiammato, molto grosso e molto lungo, che cresceva su se stesso. Si vedevano i pezzi cresciuti sugli altri pezzi. Qualcosa doveva aver irritato il naso di quell'uomo, che aveva cominciato a crescere. Guardai quel naso e poi cercai di non guardarlo. Non volevo che l'uomo si accorgesse che lo guardavo, sapevo cosa si provava. Ma l'uomo sembrava molto tranquillo. Era grasso e sembrava praticamente addormentato.
Lo chiamarono per primo: « Mr. Sleeth? ». Si spostò leggermente in avanti sulla sedia. « Sleeth? Richard Sleeth? ».
« Uh? Si, eccomi... ».
Si alzò e si avvicinò al dottore.
« Come sta oggi, Mr. Sleeth? ».
« Bene... sto bene... ».
Seguì il dottore dentro l'ambulatorio.

Mi chiamarono un'ora dopo. Seguii il dottore attraverso una porta a vento dentro un'altra stanza. Era più grande della prima. Mi dissero di spogliarmi e di sedermi su un lettino. Il dottore mi guardò.
« Una bella acne, eh, ragazzo? ».
« Si ».
Mi toccò un foruncolo sulla schiena.
« Male? ».
« Si ».
« Be' », disse, « vediamo di spurgarli un po' ».
Lo sentii accendere la macchina. Ci fu un ronzio e odore di olio che si scaldava.
« Pronto? », mi chiese.
« Si ».
Mi infilò l'ago elettrico nella schiena. Mi stava trapanando. Il dolore era indescrivibile. Riempiva la stanza. Sentivo il sangue scorrermi giù per la schiena. Poi tolse l'ago.
« Adesso un altro », disse il dottore.
Mi piantò dentro l'ago. Poi lo tirò fuori e lo infilò in un terzo foruncolo. Erano entrati altri due uomini e se ne stavano lì a guardare. Dovevano essere dottori. Sentii di nuovo l'ago nella schiena.
« Non ho mai visto nessuno sopportare l'ago in questo modo », disse uno degli uomini.
« Sembra insensibile », disse l'altro uomo.
« Perché non andate un po' fuori a toccare il culo alle infermiere? », dissi.
« Senti, ragazzo, non puoi parlarci in questo modo! ».
Sentii di nuovo l'ago nella schiena e tacqui.
« Evidentemente il ragazzo è nervoso... » .
« Si, certo, poveretto » .
Se ne andarono.
« Sono due bravi professionisti » , disse il mio dottore. « Non è carino da parte tua trattarli così ».
« Lei vada avanti con quell'ago », dissi.
Ubbidì. L'ago era ormai bollente, ma lui non smetteva. Mi trapanò tutta la schiena, poi passò al petto. Poi mi fece stendere la testa e il collo e continuò fino all'ultimo brufolo.
Arrivò un'infermiera e lui le disse cosa doveva fare. « Ora, Miss Ackerman, voglio che spurghi queste pustole... completamente. Se comincia a uscire il sangue, non importa, continui a strizzare. Voglio che le spurghi completamente ».
« Si, dottor Grundy ».

Seguii Miss Ackerman in un'altra stanza. Mi disse di sdraiarmi sul lettino. Prese una velina e attaccò il primo foruncolo.
« Male? ».
Non importa.
« Poverino... ».
« Non si preoccupi. Mi dispiace per lei, costretta a strizzare tutta questa roba ».
« Poverino... » .
Miss Ackerman era la prima persona che mi dimostrava un po' di comprensione. Era una sensazione strana. Era un'infermierotta paffuta, sulla trentina.
« Vai a scuola? », mi chiese.
« No, sono dovuto restare a casa ».
Miss Ackerman continuava a strizzare, mentre parlavamo.
« Che cosa fai tutto il giorno? ».
« Sto a letto ».
« Dev'essere tremendo ».
« No, a me piace »
« Male? ».
« Non si preoccupi. Vada avanti ».
« Come mai ti piace stare a letto tutto il giorno? ».
« Almeno non sono costretto a veder gente ».
« Non ti piace la gente? »
« No ».
« Che cosa fai tutto il giorno? ».
« Ascolto la radio ».
« E che cosa ascolti? ».
« Musica. E la gente che parla ».
« Pensi alle ragazze? ».
« Certo. Ma con questa roba non ho speranze ».
« Non devi abbatterti. Vedrai che... ».
« Faccio anche le tabelle orarie degli aeroplani che sento passare. Passano tutti i giorni alla stessa ora. Li controllo orologio alla mano. Diciamo che so che uno di questi aerei deve passare alle 11,45. Verso le 11,10 mi metto in ascolto. Voglio sentire il rumore del motore quand'è ancora lontano. Certe volte mi sembra di sentirlo, ma non sono sicuro, poi lo sento davvero, lontano. E aumenta. Alle 11,45 in punto l'aereo mi passa sopra la testa e il rumore è al massimo ».
« E tutti i giorni fai la stessa cosa? ».
« Non quando vengo qui ».
« Voltati », disse Miss Ackerman.
Mi voltai. Nella stanza vicina un uomo cominciò a urlare. Eravamo vicino al reparto agitati. Urlava davvero forte.
« Che cosa gli fanno? », chiesi a Miss Ackerman.
« La doccia ».
« E grida a quel modo? ».
« Si ».
« Io sono conciato peggio di lui ».
« No, non è vero ».
Miss Ackerman mi piaceva. La guardai di sottecchi. Aveva la faccia tonda, non era carina ma aveva due grandi occhi scuri e la cuffia appoggiata sui capelli con un'angolatura sbarazzina. Gli occhi erano proprio belli. Mentre appallottolava un po' di veline da buttar via, la guardai camminare. Be', non era Miss Gredis, e avevo visto un sacco di donne più belle di lei, ma aveva qualcosa di caldo, di attraente. Non pensava continuamente al fatto di essere donna.
« Appena finisco la faccia », disse, « ti metto sotto la lampada a raggi ultravioletti. Devi tornare dopodomani alle 8,30 ».
Dopo quella frase non parlammo più.
Finì di strizzare tutti quei foruncoli. Mi misi gli occhialoni e Miss Ackerman accese la lampada a raggi ultravioletti.
Si senti un ticchettio. Un rumore piacevole. Poteva essere il timer automatico, oppure il riflettore di metallo della lampada che si scaldava. Era piacevole e rilassante, ma poi cominciai a pensare a quello che mi avevano fatto, e decisi che era tutto inutile. Tanto per cominciare quell'ago mi avrebbe lasciato cicatrici per tutta la vita. Non era una be]la prospettiva, ma non mi faceva molta paura. Quello che mi faceva davvero paura era la certezza che non sapessero affatto come curarmi.

 

***

la fine...

Me ne andai dalla stazione. Improvvisamente le strade erano piene di traffico. Guidavano tutti malamente, senza fermarsi ai semafori, insultandosi a vicenda. Tornai verso Main Street. L'America era in guerra. Guardai nel portafoglio : avevo un dollaro. Contai la moneta: 67 cents.
Scesi giù per Main Street. Non sarebbe stata una serata buona, per le ragazze. Continuai a camminare. Poi arrivai alla Penny Arcade . Non c'era nessuno, laggiù. Solo il proprietario nel suo botteghino alto. Era buio là dentro, e c'era puzza di piscio.
Andai giù per i corridoi bui tra le macchinette rotte. La chiamavano Penny Arcade, ma la maggior parte dei giochi costava cinque cents, alcuni anche dieci. Mi fermai davanti alla macchinetta della boxe, la mia preferita. In una gabbia di vetro c'erano due omini d'acciaio con dei bottoni sul mento. C'erano due manopole, simili a impugnature di pistola, con il grilletto, e quando si premeva il grilletto le braccia del pugilatore partivano in un tremendo uppercut. Si poteva muovere il proprio omino avanti e indietro e di lato. Quando si colpiva il bottone sul mento dell'altro pugile, il poverino cadeva riverso, K.O.
Quand'ero piccolo e Max Schmeling aveva messo K.O. Joe Luis, ero corso in strada alla ricerca dei miei amici, urlando: "Ehi , Max Schmeling ha messo K.O. Joe Luis!". E nessuno mi aveva risposto, nessuno aveva detto niente, se n'erano andati tutti a testa bassa.
Bisognava essere in due per giocare alla boxe, e io non avevo nessuna intenzione di giocare con il pervertito proprietario del posto. Poi vidi un ragazzino messicano, di otto o nove anni . Stava venendo giù per il corridoio . Un ragazzo messicano di bell'aspetto, intelligente.
"Ehi, ragazzo?".
"Sì, signore?".
"Vuoi giocare alla boxe con me ?".
"Gratis?".
"Certo. Pago io. Scegli il tuo uomo".
Il ragazzino girò intorno alla macchinetta , sbirciando dentro il vetro. Aveva l'aria molto seria. Poi disse: "O.K., scelgo quello coi calzoncini rossi. E' più bello".
"Va bene".
Il ragazzino si mise dalla sua parte e guardò dentro il vetro. Guardò il suo pugile, poi me .
"Signore, ma lei lo sa che è scoppiata la guerra".
"Sì".
Restammo lì a guardarci.
"Deve infilare dentro la moneta", disse il ragazzino.
"Che cosa ci fai qui ? ", gli chiesi. "Com'è che non sei a scuola ? ".
"E' domenica ".
Infilai la moneta da dieci cents nella macchinetta. Il ragazzino cominciò a premere i suoi grilletti e io i miei. Il ragazzino aveva scelto male. Il braccio sinistro del suo pugile era rotto, e si alzava solo a metà. Decisi di fare con calma. Il mio pugile aveva i calzoncini blu. Il ragazzino messicano era bravissimo, ce la metteva tutta, non si scoraggiava. Lasciò perdere il braccio sinistro e si diede da fare col grilletto del braccio destro. Io feci scattare calzoncini blu per il colpo finale, premendo entrambi i grilletti. Il ragazzino continuava a pompare il braccio destro di calzoncini rossi. All' improvviso calzoncini blu piombò a terra . cadde di colpo, con un rumore di ferraglia.
"L' ho steso, signore ", disse il ragazzino.
"Hai vinto ", dissi io.
Il ragazzino era eccitato. Continuava a guardare calzoncini blu steso sul culo.
" Facciamo un 'altra partita, signore ?".
Esitai, non so perché.
"Hai finito i soldi, signore ?".
"Oh, no ".
"O.K. , allora facciamone un'altra".
Infilai un'altra moneta da dieci cents nella macchinetta e calzoncini blu scattò in piedi. Il ragazzino cominciò a premere il suo grilletto e il braccio destro di calzoncini rossi si mosse su e giù come una pompa.
Lasciai che calzoncini blu restasse fermo per un po' a guardare lo spettacolo. Poi feci un cenno con la testa al ragazzino. Feci partire calzoncini blu, braccia verticali. Dovevo vincere. Sembrava molto importante che vincessi. Non so perché mi sembrasse importante, e continuai a pensare, perché penso che sia importante?
E un'altra parte di me rispondeva , perché sì.
Poi calzoncini blu piombò di nuovo a terra , con lo stesso rumore di ferraglia. Lo guardai, sdraiato sulla schiena sul suo tappetino di velluto verde.
Poi mi voltai e me ne andai.

 

 

 

il prossimo libro è Factotum

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