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Avventuroso e osceno, divertito e disperato,
sboccato e lirico. Factotum è il romanzo che ha rivelato
Bukowski al pubblico italiano, è un romanzo on the road,
con Henry Chinaski, l’alter ego dell’autore, è
il suo protagonista assoluto. Passa indifferentemente da un
mestiere all’altro, attraversa l’America vivendo
alla giornata, affidandosi all’improvvisazione e al caso,
pronto a seguire il primo richiamo, fedele a un destino che
si trasforma in uno stile di vita fatto di lavori manuali, sesso
intenso e sfrontato, sbornie quotidiane, un’esistenza
randaga.
«Dato che tutte le mie macchine da
scrivere finivano al banco dei pegni, avevo semplicemente rinunciato
all'idea di possederne una. Scrivevo le mie storie a mano, in
stampatello, e le spedivo così. Le scrivevo a stampatello
con una penna. Alla fine diventai bravissimo a scrivere a stampatello.
Ci mettevo di meno che a scrivere normalmente. Scrivevo tre
o quattro racconti alla settimana. Li mandavo per posta. Mi
sembrava di vederli, i redattori di The Atlantic Monthly e di
Harper's: "Ehi, ecco qua un altro manoscritto di quel pazzo...
".»
l'inizio...
I
Arrivai
a New Orleans sotto la pioggia alle cinque del mattino. Mi fermai
alla stazione degli autobus per un po' ma la gente mi deprimeva
tanto che presi la valigia, uscii nella pioggia e cominciai
a camminare. Non sapevo dove fossero le pensioni, dove fosse
il quartiere povero.
Avevo una valigia di cartone che cadeva a pezzi. Una volta era
stata nera ma il nero si era scrostato e sotto si vedeva il
cartone giallo. Avevo cercato di rimediare spalmando di lucido
nero il cartone scoperto. Ma mentre camminavo la pioggia lavava
via il lucido e mi feci due belle strisce nere sulle gambe dei
pantaloni passando la valigia da una mano all'altra.
Be', era una città nuova, forse mi avrebbe portato fortuna.
Smise di piovere e uscì il sole. Ero nel quartiere nero.
Continuai a camminare lentamente.
" Ehi, povero bianco!".
Misi giù la valigia. C'era una mulatta seduta sui gradini
della veranda. Dondolava le gambe. Non era niente male.
" Ehi, ciao, povero bianco!".
" La vuoi un po' di fica, povero bianco?".
Non dissi niente. Restai li a guardarla. Mi rideva in faccia.
Teneva le gambe incrociate in alto e dondolava i piedi. Aveva
un bel paio di gambe, portava i tacchi alti, dondolava i piedi
e rideva. Presi la valigia e svoltai su per il vialetto. Vidi
la tendina di una delle finestre alla mia sinistra spostarsi
leggermente. Dietro c'era una faccia nera di uomo. Assomigliava
a Jersey Joe Wolcott. Indietreggiai lungo il vialetto fino al
marciapiede. La risate della mulatta mi seguì giù
per la strada.
***
la fine...
Nella
vetrina sulla facciata c'erano le foto delle spogliarelliste
in bella mostra. Andai allo sportello e comperai un biglietto.
La ragazza alla cassa era meglio delle foto. Mi restavano trentotto
cents. Avanzai nel teatro buio fino all'ottava fila. Le prime
tre file erano piene zeppe.
Avevo fortuna. Il film era finito e sul palco c'era gia la prima
spogliarellista. Darlene. La prima di solito era la peggiore,
una vecchia che aveva visto tempi migliori, ridotta a sgambettare
nelle file di qualche avanspettacolo di quinta categoria, per
lo più. Comunque la prima era Darlene. Probabilmente
qualche ragazza era stata assassinata o aveva il marchese o
una crisi isterica e questa era l'unica chance per Darlene di
fare ancora un numero da sola.
Invece Darlene non era male. Magra, ma con un bel seno. Un corpo
flessuoso come un salice. In fondo a quella schiena snella,
a quel corpo snello, c'era un enorme didietro. Era una specie
di miracolo... da far perdere la testa.
Darlene indossava un vestito nero lungo con uno spacco altissimo...
le caviglie e le cosce erano cadaveriche contro tutto quel nero.
Ballava e ci lanciava occhiate tra le ciglia piene di mascara
nero. Era la sua grande occasione. Voleva tornare a fare il
numero da sola. Io tifavo per lei. Cominciò a lavorare
di cerniera lampo e a mostrare sempre di più. Scivolava
fuori da quel sofisticato velluto nero. Gambe e carne bianca.
Dopo un po' era in reggiseno rosa e cache-sex... con i diamanti
finti che ondeggiavano e mandavano bagliori mentre ballava.
Darlene si avvicino sempre ballando al sipario. Il sipario era
strappato e pieno di polvere. Lo afferrò, ballando al
ritmo del quartetto che la accompagnava sotto la luce rosa del
riflettore.
Cominciò a scoparsi il sipario. II quartetto la accompagnava
a ritmo di rock. Darlene se lo stava veramente scopando, quel
sipario; il quartetto picchiava un rock e lei si dimenava. Improvvisamente
la luce rosa diventò color porpora. Il quartetto cominciò
a darci dentro sul serio. Darlene sembro arrivare all'orgasmo.
La testa le cadde all'indietro, la bocca si aprì.
Poi si raddrizzò e tornò ballando al centro del
palco. Da dov'ero seduto la sentivo cantare fra sé e
sé sopra la musica. Prese il reggiseno rosa e se lo strappò
e un tizio tre file più in giù si accese una sigaretta.
Adesso aveva solo il cache-sex. Si ficcò un dito nell'ombelico
e cominciò a gemere.
Darlene continuò a ballare in mezzo al palco. Adesso
il quartetto suonava piano. Darlene cominciò a muoversi
lentamente in cerchio, poi avanti e indietro. Ci stava scopando.
Il cache-sex pieno di perline oscillava lentamente. Poi i quattro
del complesso ricominciarono a darci dentro. Si stava arrivando
al culmine del numero; il batterista faceva i fuochi artificiali;
sembravano tutti stanchi, disperati.
Darlene si titillò i seni nudi, mostrandoceli, gli occhi
sognanti, le labbra umide, socchiuse. Poi all'improvviso si
voltò e ci agitò in faccia quel suo enorme culo.
Le perline saltarono e scintillarono, impazzirono, mandarono
scintille. La luce del riflettore si muoveva e danzava come
un raggio di sole. Il quartetto picchiava e crepitava. Darlene
girava come una trottola. Strappò via le perline. Io
guardavo, gli altri guardavano. Si vedevano i peli della fica
sotto il velo color carne. La banda ci dava dentro, picchiava
forte, lo martellava, quel culo. E io non riuscivo a rizzarlo.
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