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Confessioni di
un codardo
1995 - Guanda; pag.
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La
mia pazzia
Ci sono vari gradi di pazzia, e più
sei matto e più la tua pazzia risulterà evidente
agli occhi degli altri. Per quasi tutta la vita ho nascosto
la mia pazzia dentro di me, ma è qui, esiste. Per esempio,
un tale, uomo o donna, mi sta parlando di una certa cosa, bè,
quando inizia a rompermi l'anima con i soliti luoghi comuni,
me lo immagino con la testa sul ceppo della ghigliottina, oppure
dentro un enorme tegame, a friggere, e intanto mi guarda con
occhi terrorizzati. Se queste fantasie si avverassero, molto
probabilmente tenterei un salvataggio, ma mentre sono lì
che mi parlano non posso fare a meno di immaginarmeli così.
O, più pietosamente, li vedo allontanarsi di corsa in
bicicletta. Il fatto è che ho dei problemi con gli esseri
umani. Gli animali, li adoro. Non mentono mai, e di rado tendono
d aggredirti. A volte fanno i furbi, ma questo è tollerabile.
Non vi sembra?
Gran parte della mia vita da ragazzo e da adulto l' ho passata
in piccole stanze, raggomitolato a guardare le pareti, le persiane
rotte, i pomelli dei cassetti dei comò. Non ero indifferente
alla femmina, e la desideravo, ma non così tanto da dannarmi
per procurarmela. Mi piacevano i soldi, ma anche lì,
come per la femmina, non volevo fare le cose necessarie per
averli. Volevo appena quanto mi bastava per una stanza e qualcosa
da bere. Bevevo da solo, generalmente a letto, con le cortine
abbassate. A volte andavo nei bar per dare un'occhiata alla
specie umana, ma la specie restava sempre uguale - niente di
straordinario, nella migliore delle ipotesi. In tutte le città
setacciavo le biblioteche. Un libro dopo l'altro. Pochi mi dicevano
qualcosa. Per lo più erano come polvere nella mia bocca,
sabbia nella mia mente. Nessuno aveva niente a che vedere con
me o con quel che provavo: dove mi trovavo - in nessun posto
- che cosa facevo - niente - e cosa volevo - sempre niente.
I libri del passato servivano soltanto a ingigantire il mistero
di avere un nome e un corpo, di camminare, parlare, fare le
cose. Nessuno sembrava corrispondere alla mia particolare pazzia.
In alcuni bar diventavo violento, ci furono risse di strada
dalla maggior parte delle quali uscii presto e sconfitto. Ma
non lottavo conto nessuno in particolare, non ero inferocito,
soltanto che non riuscivo a capire e persone, il loro modo di
essere, di agire, di presentarsi. Entravo e uscivo di galera,
venivo sfrattato dalle stanze. Dormivo sulle panchine dei parchi,
nei cimiteri. Ero confuso, ma non ero infelice. Non ero cattivo.
Solo che non riuscivo a ricavare niente da quello che avevo
intorno. La mia violenza si contrapponeva all'evidenza del tranello,
io gridavo e loro non capivano. E anche nelle risse più
furibonde, guardavo il mio avversario e pensavo: perché
è arrabbiato? Vuole uccidermi. Allora dovevo tirare pugni
per liberarmi della bestia che avevo dentro.
La gente non ha senso dell'umorismo, si prendono tutti così
cazzutamente sul serio. Ad un certo punto, e non so più
da dove sbucata, mi è venuta l'idea che avrei dovuto
diventare uno scrittore. Forse potevo scrivere le parole che
non avevo letto, forse così facendo mi sarei scrollato
dalla schiena quella tigre. Così ho iniziato ed è
passato qualche decennio senza troppa fortuna. Adesso ero un
matto scrittore. Altre camere, altre città. Sprofondai
sempre più in basso. Una volta ad Atlanta mi stavo assiderando
in una baracca di carta catramata,vivevo con un dollaro e un
quarto a settimana. Né acqua corrente, né luce,
né riscaldamento. Stavo seduto ad assiderarmi nella mia
camicia da californiano. Un mattino trovai un mozzicone di matita
e cominciai a scrivere poesie sui margini dei vecchi giornali
sparsi sul pavimento.
finalmente, a quarant'anni, pubblicarono il mio primo libro,
una raccolta di poesie: Il fiore, il pugno e il gemito bestiale.
Era arrivato un pacco di libri con la posta, aprii il pacco
e dentro c'erano i libricini. Si rovesciarono sul pavimento,
tutti quei libricini, e io mi inginocchiai fra loro, ero in
ginocchio e raccolsi una copia e la baciai. Questo trent'anni
fa. Scrivo ancora. Nei primi quattro mesi di quest'anno ho scritto
250 poesie. Sento ancora la follia scorrermi dentro, ma ancora
non ho scritto le parole che avrei voluto, la tigre mi è
rimasta sulla schiena. Morirò con addosso quella figlia
di puttana, ma almeno le ho dato battaglia. E se fra voi c'è
qualcuno che si sente abbastanza matto da voler diventare scrittore,
gli consiglio và avanti, sputa in un occhio al sole,
schiaccia quei tasti, è la miglior pazzia che possa esserci,
i secoli chiedono aiuto, la specie aspira spasmodicamente alla
luce e all'azzardo e alle risate. Regalateglieli. Ci sono abbastanza
parole per noi tutti.
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