Charles Bukowski

 

 

Confessioni di un codardo
1995 - Guanda; pag.

La mia pazzia

Ci sono vari gradi di pazzia, e più sei matto e più la tua pazzia risulterà evidente agli occhi degli altri. Per quasi tutta la vita ho nascosto la mia pazzia dentro di me, ma è qui, esiste. Per esempio, un tale, uomo o donna, mi sta parlando di una certa cosa, bè, quando inizia a rompermi l'anima con i soliti luoghi comuni, me lo immagino con la testa sul ceppo della ghigliottina, oppure dentro un enorme tegame, a friggere, e intanto mi guarda con occhi terrorizzati. Se queste fantasie si avverassero, molto probabilmente tenterei un salvataggio, ma mentre sono lì che mi parlano non posso fare a meno di immaginarmeli così. O, più pietosamente, li vedo allontanarsi di corsa in bicicletta. Il fatto è che ho dei problemi con gli esseri umani. Gli animali, li adoro. Non mentono mai, e di rado tendono d aggredirti. A volte fanno i furbi, ma questo è tollerabile. Non vi sembra?
Gran parte della mia vita da ragazzo e da adulto l' ho passata in piccole stanze, raggomitolato a guardare le pareti, le persiane rotte, i pomelli dei cassetti dei comò. Non ero indifferente alla femmina, e la desideravo, ma non così tanto da dannarmi per procurarmela. Mi piacevano i soldi, ma anche lì, come per la femmina, non volevo fare le cose necessarie per averli. Volevo appena quanto mi bastava per una stanza e qualcosa da bere. Bevevo da solo, generalmente a letto, con le cortine abbassate. A volte andavo nei bar per dare un'occhiata alla specie umana, ma la specie restava sempre uguale - niente di straordinario, nella migliore delle ipotesi. In tutte le città setacciavo le biblioteche. Un libro dopo l'altro. Pochi mi dicevano qualcosa. Per lo più erano come polvere nella mia bocca, sabbia nella mia mente. Nessuno aveva niente a che vedere con me o con quel che provavo: dove mi trovavo - in nessun posto - che cosa facevo - niente - e cosa volevo - sempre niente. I libri del passato servivano soltanto a ingigantire il mistero di avere un nome e un corpo, di camminare, parlare, fare le cose. Nessuno sembrava corrispondere alla mia particolare pazzia. In alcuni bar diventavo violento, ci furono risse di strada dalla maggior parte delle quali uscii presto e sconfitto. Ma non lottavo conto nessuno in particolare, non ero inferocito, soltanto che non riuscivo a capire e persone, il loro modo di essere, di agire, di presentarsi. Entravo e uscivo di galera, venivo sfrattato dalle stanze. Dormivo sulle panchine dei parchi, nei cimiteri. Ero confuso, ma non ero infelice. Non ero cattivo. Solo che non riuscivo a ricavare niente da quello che avevo intorno. La mia violenza si contrapponeva all'evidenza del tranello, io gridavo e loro non capivano. E anche nelle risse più furibonde, guardavo il mio avversario e pensavo: perché è arrabbiato? Vuole uccidermi. Allora dovevo tirare pugni per liberarmi della bestia che avevo dentro.
La gente non ha senso dell'umorismo, si prendono tutti così cazzutamente sul serio. Ad un certo punto, e non so più da dove sbucata, mi è venuta l'idea che avrei dovuto diventare uno scrittore. Forse potevo scrivere le parole che non avevo letto, forse così facendo mi sarei scrollato dalla schiena quella tigre. Così ho iniziato ed è passato qualche decennio senza troppa fortuna. Adesso ero un matto scrittore. Altre camere, altre città. Sprofondai sempre più in basso. Una volta ad Atlanta mi stavo assiderando in una baracca di carta catramata,vivevo con un dollaro e un quarto a settimana. Né acqua corrente, né luce, né riscaldamento. Stavo seduto ad assiderarmi nella mia camicia da californiano. Un mattino trovai un mozzicone di matita e cominciai a scrivere poesie sui margini dei vecchi giornali sparsi sul pavimento.
finalmente, a quarant'anni, pubblicarono il mio primo libro, una raccolta di poesie: Il fiore, il pugno e il gemito bestiale. Era arrivato un pacco di libri con la posta, aprii il pacco e dentro c'erano i libricini. Si rovesciarono sul pavimento, tutti quei libricini, e io mi inginocchiai fra loro, ero in ginocchio e raccolsi una copia e la baciai. Questo trent'anni fa. Scrivo ancora. Nei primi quattro mesi di quest'anno ho scritto 250 poesie. Sento ancora la follia scorrermi dentro, ma ancora non ho scritto le parole che avrei voluto, la tigre mi è rimasta sulla schiena. Morirò con addosso quella figlia di puttana, ma almeno le ho dato battaglia. E se fra voi c'è qualcuno che si sente abbastanza matto da voler diventare scrittore, gli consiglio và avanti, sputa in un occhio al sole, schiaccia quei tasti, è la miglior pazzia che possa esserci, i secoli chiedono aiuto, la specie aspira spasmodicamente alla luce e all'azzardo e alle risate. Regalateglieli. Ci sono abbastanza parole per noi tutti.

 

 

 

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