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American
Dust
(So
the Wind Won't Blow It All Away)
1982 - ISBN, pag.109
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l'inizio...
Quel pomeriggio non sapevo che la terra aspettava
di ridiventare una tomba nel giro di qualche giorno appena.
Peccato non poter afferrare il proiettile in corsa e respingerlo
dentro la canna del fucile calibro .22 perché si riavviti
nel caricatore e di lì dentro al bossolo, come se non
fosse mai stato sparato o nemmeno mai caricato.
Vorrei che il proiettile fosse ancora nella sua scatola con
gli altri suoi 49 fratelli e sorelle e che la scatola fosse
ancora al sicuro sugli scaffali dell'armeria e che quel piovose
pomeriggio di febbraio fossi passato davanti a quel negozio
senza entrarci.
Vorrei che invece di proiettili mi fosse venuta voglia di un
hamburger. C'era un ristorante proprio di fianco all'armeria.
Facevano degli ottimi hamburger, ma non avevo fame.
Per il resto della mia vita penserò a quell’hamburger.
Mi siederò lì, al bancone, tenendolo tra le mani,
con le lacrime che mi scorrono lungo le guance. La cameriera
guarderà altrove perché non le piace vedere i
ragazzini piangere mentre mangiano hamburger e poi non vuole
mettermi in imbarazzo.
Sono l'unico cliente nel ristorante.
Le mancava solo questo.
Come se non avesse già i suoi di problemi.
Il suo ragazzo l’ha lasciata la settimana scorsa per una
rossa di Chicago. Quest’anno è la seconda volta
che le capita. Non riesce a crederci. Non può essere
una semplice coincidenza. Ma quante rosse ci sono a Chicago?
Con uno straccio si mette a pulire una macchia immaginaria dall’altra
parte del bancone, asciugando qualcosa che non c’è.
Su questa storia ci tornerò:
Prima che il vento si porti via tutto
Polvere… d’America… Polvere
frammenti...
L'autostrada si allungava attraverso le città
e percorreva tutto lo stato, ma io ne usavo solo un chilometro
come mio impero di bottiglie di birra.
Quel chilometro si trovava ai margini della città, attorno
a uno di quei motel lungo l'autostrada dove vivevo con mia madre
e due sorelle, anche se noi l'auto non l'avevamo. Non l'abbiamo
mai avuta. Eravamo ospiti autosprovvisti dell'Assistenza Statale.
Era strano vedere tutta quella gente che andava e veniva da
ogni pane, quando noi non andavamo mai da nessuna pane.
Mia madre e le mie sorelle non compariranno più perché
non c'entrano niente con questa storia. Questa è ovviamente
una bugia. Torneranno più avanti. Non so perché
ho appena detto questa bugia. E’ stata davvero una cosa
sciocca e inutile, ma a volte la gente fa cose sciocche e inutili.
Non riesce a farne a meno. Spesso ci si trova in balia di forze
sconosciute.
Mi sono corretto però e ora possiamo continuare senza,
mi auguro, aver perso troppa credibilità, e vi prego
di non dimenticare che avrei potuto anche cambiare la storia
per nascondere questa bugia e lasciarle fuori davvero, sostituendole
magari con una zia e due cugine.
Quindi vi prego di accettare le mie scuse e preparatevi a vederle
ricomparire a pagina 21.
L’autostrada passava proprio di fianco al motel e io la
percorrevo fino a fuori città con la mia carrozzina.
La carrozzina me l'aveva data una vecchia signora che mi aveva
promesso una ricompensa se le facevo alcune commissioni. Io
le avevo detto "va bene" e lei mi aveva dato una lista
di cose che voleva e i soldi per pagarle.
***
Da bambino ero estremamente interessato alla
morte di altri bambini. Avevo senza dubbio qualcosa di morboso
e ogni
bambino che moriva non faceva altro che soffiare sul fuoco della
mia curiosità da medico legale.
Più tardi, nel febbraio del 1948, questa curiosità
sarebbe diventata una realtà personale e avrebbe avvolto
e stravolto la mia vita trasformandola in una versione funebre
di Alice nel paese delle meraviglie, con il coniglio bianco
ridotto a fare l'impresario delle pompe funebri e Alice che
fa i suoi giochi avvolta in un sudario imputridito.
Nella mia vita precedente a questo fatto però ero affascinato
dai bambini morti e dagli strascichi del loro decesso. Credo
che tutto sia cominciato nel 1940, quando ci trasferimmo in
un appartamento annesso a un'impresa di pompe funebri.
Un tempo l'appartamento stesso era stato parte integrante della
camera mortuaria. Quale parte non saprei dirlo con esattezza,
ma a un certo punto l'impresario delle pompe funebri, per farsi
un po' di soldi, aveva deciso di trasformare quello spazio morto
della sua impresa in un appartamento, in cui noi abitammo per
alcuni mesi verso la fine della primavera del 1940.
Io mi alzavo la mattina e guardavo i funerali dalla finestra.
Dovevo salire su una sedia perché avevo cinque anni e
volevo vederci bene. Mi pare di ricordare che ci fossero dei
funerali la mattina presto, perché nell'appartamento
dormivano ancora tutti e io ero in pigiama.
Per prendere parte ai funerali, dovevo tirar su un'avvolgibile
che metteva seriamente alla prova la mia destrezza, ma in qualche
modo ci riuscivo e allora avvicinavo una sedia, ci salivo sopra
e mi guardavo i funerali.
Ci trasferimmo nell'appartamento un pomeriggio tardi e la mattina
dopo, mentre erano ancora tutti a letto, mi alzai e feci un
giro nel salotto. Sbirciai assonnato sotto l'avvolgibile e vidi
il mio primo funerale, grande come la morte.
***
Arrivai per primo, parcheggiai la bici e andai
a prendermi una bibita. Avevo il mio fucile sottobraccio. Avevo
dodici anni e nessuno faceva caso a un ragazzino con un fucile
sottobraccio che si beve un'aranciata davanti a una stazione
di servizio.
Inutile dire che l'America è cambiata da quei giorni
del 1948. Se oggi vi capitasse di vedere un dodicenne con un
fucile sottobraccio di fronte a una stazione di servizio, probabilmente
chiamereste la Guardia Nazionale e fareste bene.
Attorno al ragazzino trovereste un mucchio di cadaveri.
"Perché ha sparato a tutta questa gente?" sarebbe
una delle prime domande che gli farebbero dopo averlo disarmato.
"Perché non mi piace fare ginnastica" sarebbe
la risposta.
"Vuoi dire che hai ucciso tutta questa gente perché
non vuoi fare educazione fisica?"
"Non proprio."
"Che vuol dire, non proprio? Cos'è che vuol dire
allora? Qui ci sono dodici persone morte."
"Da McDonald's non mi mettono abbastanza salsa speciale
nel Big Mac."
"Vuoi dire che hai ucciso dodici persone perché
non ti piace fare ginnastica e da McDonald's non ti hanno messo
abbastanza salsa speciale nell'hamburger?"
A quel punto, per la prima volta dopo il suo interludio da carnefice,
lo vedreste assumere un'espressione leggermente stupita e lo
sentireste dire: "Cos'è, non basta? Ti farebbe piacere
se succedesse a te? Perché non provi a metterti nei miei
panni?". Questo direbbe il ragazzino salendo sulla macchina
della polizia, destinato con tutta probabilità a uscire
sulla parola otto anni e sette mesi dopo.
Lo lascerebbero libero al compimento dei ventun anni, con la
faccia da bambino e un buco del culo largo dieci centimetri.
La prefazione dell'editore Isbn
"Bernard Brautigan, settantasei anni, è un uomo
sorpreso. Ha saputo di essere il padre dello scrittore Richard
Brautigan soltanto dopo il presunto suicidio di Richard avvenuto
la scorsa settimana. Brautigan, un operaio in pensione di Tacoma,
era divorziato dalla moglie Lulu Mary che non gli aveva rivelato
di essere incinta al momento della separazione. Brautigan ha
appreso la notizia dalla cognata. Soltanto l'atto di nascita
e la conferma da parte dell'ex moglie lo hanno convinto. Brautigan,
scosso, ha dichiarato: “Non so niente di lui. Ha il mio
stesso cognome, ma perché hanno aspettato quasi cinquant’anni
per dirmi che avevo un figlio?”. Il breve articolo, non
firmato, appare sul Detroit Free Press lunedì 29 ottobre
1984, quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere.
Sono passate almeno quattro settimane da quando Richard Brautigan
si uccide, sparandosi con un fucile calibro .44 nella sua casa
di Bolinas Mesa, California. Di suo padre, fino a sedici anni,
Richard non conosceva neppure il cognome. Per tutta l’infanzia
era stato Richard Porterfield, dal cognome di uno dei tanti
patrigni che si erano alternati al fianco di sua madre. Raccontava
di averlo incontrato una volta, suo padre. Ma l’aneddoto
cambiava. A volte era uno che si faceva la barba e gli regalava
un dollaro. Altre uno che entrava in casa e gli dava 50 centesimi
per andarsene al cinema.
Quando la notizia del suicidio si sparse, si parlò molto.
Per alcuni lo scrittore aveva pianificato tutto: le telefonate
a Becky Fonda, la moglie di Peter, che lo attendeva in un ranch
del Montana, il mandato all'editore di vendere i suoi manoscritti
e creare un fondo per la figlia Ianthe che da anni non gli rivolgeva
la parola, l'urna funeraria inviata all'amico scrittore Tom
McGuane, il cartello "Do not disturb" appeso alla
porta. Altri, come Don Allen, il suo primo editore, se lo aspettavano.
L'esistenza e lo straordinario successo letterario di Richard
Brautigan da anni stavano scivolando nel baratro banale degli
alcolisti. Richard Brautigan aveva quarantanove anni. Era nato
l’11 aprile 1935 a Tacoma, Washington, lo stato invernale
della West Coast, lo stesso dove, negli anni novanta, sarebbe
fiorito il grunge, l'ultima rivoluzione musicale degna di nota.
Un certo miscuglio quindi, di camicie a quadri da boscaiolo
e anarchia, di machismo e sensibilità, lo stesso profumo
di oceano, la stessa lontananza dai luoghi dove accadono le
cose.
Le ragioni per un suicidio si trovano sempre: la fine dell'amore
con le sue ultime due donne (entrambe giapponesi, Akiko e Masako,
che lo chiamava "Lichad"), la figlia perduta, ma anche
il tramonto del successo. "Era, ritengo, fatalmente deluso
dalla mancanza di approvazione per i suoi libri, specialmente
per l'ultimo American Dust" ha scritto John F. Barber "raccontava
che quel romanzo gli era stato in testa per diciassette anni
e che aveva lavorato molto duramente per scriverlo. Quando non
fu accettato e lodato dai critici e dal pubblico si sentì
incompreso e alienato." Era il suo romanzo più autobiografico,
quello che scavava con più malinconia nell'infanzia.
Era il romanzo che viene oggi pubblicato per la prima volta
in italiano, a ventitre anni dall'edizione americana, dopo essere
stato tradotto in varie lingue dal giapponese al turco, dal
ceco all'islandese. Un romanzo breve che a quel tempo non poteva
essere compreso. Era il 1982.
Gli anni ottanta spalancavano i battenti. Gli hippy iniziavano
a perdere i capelli e, se non erano morti di eroina, erano stati
assunti dall'Ibm.
La carriera di Brautigan si era accartocciata su se stessa.
L"hippy gentile" e naif, osannato dalla critica e
divorato dal pubblico di tutto il mondo a partire dal 1967 -
anno in cui pubblica Pesca alla trota in America che avrebbe
venduto due milioni di copie in tutto il mondo - appare ormai
soltanto un omone biondo e molesto, un gigante anacronistico
che da anni è costretto a cercarsi applausi e pubblico
in paesi come la Francia e il Giappone.
La sua sensibilità era sincronizzata, per caso, con la
moda culturale dominante. Per un decennio la sua figura era
stata perfetta per il brand della Beat Generation. Ma non era
un hippy e non era un beat. Sintetizza l'amico Gerald Haslam
in A last letter to Richard Brautigan: "Non c'erano fiori
nei tuoi capelli, ma è dannatamente sicuro che tu eri
originale. Haslam continua raccontando di quando, a un happening
di freaks, uno gli domanda che cosa si facesse per scrivere:
"Sei pazzo, ragazzo. Scrivere è lavoro". "Non
sono uno scrittore hippie" diceva, "la mia è
solo la risposta di un uomo alla vita del XX secolo".
Cosìi, fatalmente, Brautigan perse il ritmo e la sintonia,
ma il talento era intatto. Per questa ragione, forse, l'ultima
opera doveva ripartire da capo. American Dust avrebbe dovuto
fare i conti con il trauma iniziale. I conti vengono effettivamente
fatti, ma tutto avviene da lontano, con la nostalgia che si
prova per i dolori trascorsi. American Dust è il resoconto
triste e sereno di uno già morto.
E’ il dopoguerra, ma per i poveri l'America non è
cambiata.
Si sopravvive di espedienti come durante il proibizionismo,
quando la nonna materna di Richard, Bessie Cordelia Ashlock,
detta Moonshine Bess, mandava soldi ai figli distillando e vendendo
whisky. La madre alterna lavori da cassiera, insegue sussidi,
amanti e mariti. Si sposa quattro volte e partorisce tre figli.
Dallo Stato di Washington, la famiglia si sposta più
a nord e si stabilisce a Eugene, in Oregon, poi a Great Falls
nel Montana (dove Brautigan viene abbandonato in una stanza
d'albergo alle cure di uno degli uomini della madre, uno che
faceva il cuoco in una friggitoria). Nel 1944 tornano a Eugene
dove Brautigan inizia la scuola.
Il ragazzo è alto, biondo, gioca a basket e parla poco.
Scommette di essere il primo della classe, ci riesce, ma gli
sembra un gioco noioso e lascia perdere. Scrive poesie. La prima
a essere pubblicata è The Light, l'anno il 1952. Intanto
ha conosciuto i Webster: Peter, il suo migliore amico che renderà
protagonista dei suoi libri, la sorellina Lidia, il suo primo
amore, ed Edna, la madre che farà da mamma un po' anche
a lui. Le sue poesie, spesso, sono per loro. Probabilmente voleva
essere amato. Scrivendo. Nel 1954 pubblica il poema The Ageless
Ones, ma fa la fame. Alcuni sostengono che sia proprio questo,
il motivo che lo spinge a entrare in una stazione di polizia
e scaraventare un sasso nella vetrata per farsi arrestare. Una
settimana dopo si ritrova a Salem, nello stesso ospedale in
cui Milos Forman girerà nel 1975 Qualcuno volo sul nido
del cuculo, tratto dal romanzo del 1962 di Ken Kesey. Ci rimane
per tre mesi con una diagnosi di schizofrenia paranoica e una
cura a base di elettroshock. Quando viene dimesso, abbandona
la famiglia, in particolare la madre che non rivedrà
mai più. Parte per San Francisco.
Entrare nel giro, spesso, è un fatto banale. Di tempi,
luoghi e attitudini coincidenti. Brautigan conosce, tra gli
altri, Lawrence Ferlinghetti, Jack Kerouac, Allen Ginsberg,
Jack Spider.
Eppure continua a rimanere esterno al gruppo. Scrive e pubblica
poesie, ha una figlia, fonda una rivista, un numero unico, e
nel 1964 esce il suo primo romanzo Il generale immaginario (tradotto
da Luciano Bianciardi). Nel primo anno ne vende solo 743 copie
e l'editore scioglie il contratto.
Nel 1967 pubblica per la Four Seasons Foundation Pesca
alla trota in America e, poco dopo, Zucchero di cocomero. Il
successo è travolgente. Kurt Vonnegut lo presenta all'editore
Delacorte Press che a partire dal 1969 pubblica i tre romanzi.
Trecentomila copie vendute nel primo anno. Acclamato come nuova
voce della letteratura americana, diventa di punto in bianco
un autore di successo inseguito e invitato ovunque, ottiene
sussidi artistici, partecipa a reading nelle università,
tiene lezioni anche a Harvard, è sulla copertina di Time
Life e incide un disco in cui legge poesie e racconti. Viene
definito "un erede di Ernest Hemingway" e "un
Mark Twain psichedelico".
Così com'è stata repentina, la fama sarà
effimera, durerà meno di un decennio. Dal romanzo successivo,
L'aborto, che ancora riscuote successo di pubblico, qualcosa
si è incrinato. Libro dopo libro questo giudizio peggiorerà
mentre alcolismo, paranoia e depressione declinano il sentimento
di un abbandono che investe, improvvisamente, anche la scrittura.
La prospettiva di American Dust è, quindi, quella di
chi ormai è fuori dai giochi, di chi è esiliato
dal mondo. Per questo, in un certo senso, si tratta del solo
romanzo di Brautigan fuori dal flusso della storia. Forse, il
più autentico. Autentico anche per la fatica immensa,
che crepita tra le poche pagine, di tenere insieme un passato
quando il presente è scardinato.
Negli anni gli amici di Brautigan, i fans e i critici (ma non
quelli italiani) hanno molto discusso di quanto quest’opera
sia autobiografica.
Russell Chatam in Dark Waters, Clark City Press, 1988, strive:
“L'ho visto mandare in frantumi ogni tipo di oggetti improbabili,
inclusa un'intera parete della sua casa del Montana, orologi,
telefoni, servizi da tavola, giacche sportive e televisioni,
il suo bersaglio perferito”. Certamente raccontò
a Chatam di aver sparato e ucciso un amico da ragazzo. Certamente
raccontò al suo amico Keith Abbott, mostrandogli un fucile
calibro .22: "Mi rimanda indietro all'infanzia. Ho passato
anni a sparare ai barattoli come fossero selvaggina. Ma non
mi piace sparare con nessun altro. Ho avuto un incidente quando
ero ragazzo". Certamente negli ultimi anni Brautigan si
accompagnava a questo fantasma biografico o immaginario.
Al fantasma dell'America che già all'origine, già
nel tempo mitologico e biografico dell'infanzia individuate,
gli appariva come una comica e sconnessa sfilata di paesaggi,
di luoghi e di persone. Non c'è nessun collante a tenere
unite le cose se non il bisogno di vivere e la necessità
di morire. Oggetti ed esseri umani in questo breve romanzo se
ne stanno lì, bizzarri e indifesi come granelli di polvere,
del tutto scollegati dal loro contesto, pronti a essere spazzati
via dal vento, uniti soltanto dallo sguardo e dal fucile di
un adolescente.
Isbn, maggio 2005
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