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Cu risìa 'u mali all'àutri
 

COMISO E COMISANI

'u so è r'arrieri 'a potta


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COMISANI

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RACCONTI COMISANI

In questa sezione vengono presentati racconti che ondeggiano tra realtà e fantasia, nel senso che i personaggi esistono o sono realmente esistiti mentre, molto spesso, nomi e particolari sono frutto della fantasia degli autori.

Una cosa è certa: il protagonista di questi racconti è 'u cumisaru, con i suoi pregi ed i suoi difetti, col suo carattere impetuoso, col suo senso dell'ironia ed il gusto della battuta, con la sua linqua lonca (e, a volte, tagliente), con la passione per il gioco, col suo attaccamento alla famiglia e al suolo chiesastico, con la sua fede semplice, con la sua santa rassegnazione....

La presente pagina contiene tre racconti ( Paulinu, Raffeli, Francuzzu).

Seguono una pagina di
racconti matricrisiari contenente il racconto 'A lampa ro Sacramentu ed una pagina di racconti nunziatari contenente tre racconti (Don Cicciu, 'A missa cantata, 'U figgiu pruòricu).




Paulinu

Paulinu era un giovane sveglio, di altezza un po' inferiore alla media e di corporatura non propriamente robusta.
Aveva occhi scuri, vispi e penetranti, che, secondo qualche cacciatore, sembravano quelli di un furiettu.
Di carattere aperto, arguto e gioviale, diventava serio quando parlava di fìmmini.
Non è che l'argomento non appassionasse i suoi coetanei, anzi, ma
Paulinu ci metteva una particolare calore e mostrava una tal profonda "competenza teorica" (apprezzata anche da masculi alquanto più grandi di lui) che da molti era chiamato 'u privissuri.
Quando vedeva passare per la strada qualche bella donna accompagnata dal fidanzato o dal marito, dopo averli ben squadrati (soprattutto lei, 'a fimmina) dalla testa ai piedi, terminava inevitabilmente il suo ragionamento con questa frase:
"
A chi cci ha ffari chissu!".
E si, perché per fare "felice" quella fimmina ci voleva uno come lui, ancor meglio lui,
Paulinu.

* * *

Divenuto adulto, grazie alla sua vivace intelligenza ed allo spiccato senso degli affari, in pochi anni Paulinu si fece una discreta posizione.
Intorno alla trentina, quando ormai aveva messo su pancetta e aveva perso molti dei suoi capelli neri, pensò che era arrivato il tempo di mettere su famiglia.
E, grazie ai buoni uffici di un suo vicino, don Pitrinu, si fidanzò con la bella, ben dotata e alquanto giovane nipote di questi,
Milina.
A questo punto
Paulinu sentì di aver raggiunto, o quasi, la felicità.

Un giorno, mentre tutto raggiante portava a passeggio, su e giù per la strada della villa, la bella e ben dotata fidanzata, Paulinu vide vicino a una cantunera due giovani che parlottavano; e più di una volta si accorse che uno dei due (piccolino, mingherlino e con due occhi neri e vispi) da un bel pezzo seguiva con gli occhi lui e Milina.
Paulinu provò una certa soddisfazione, perché si sentiva invidiato da quel picciuottu per la sua bella fidanzata.
Ma, ad un certo momento, subito dopo esser passato vicino per l'ennesima volta, il venticello portò all'orecchio di
Paulinu, flebili ma chiare, queste parole:
"
A chi cci ha ffari chissu!".
Per
Paulinu fu una mazzata tremenda; divenne pallido, barcollò, ma riuscì a controllarsi e a continuare a camminare.
Arrivati vicino al posto dove una volta c'era 'a mandretta, per non tornare ancora indietro e non dover affrontare ancora una volta lo sguardo del giovane,
Paulinu disse a Milina che doveva riportarla a casa perché si era ricordato che doveva fare una certa cosa.

Per tutta la notte Paulinu non potè chiudere occhio; a un certo punto si alzò dal letto, accese la luce, prese in mano la fotografia di Milina e si mise davanti allo specchio; poi, guardando ora se stesso ora Milina, dopo aver riflettuto per un bel po' decise che doveva far scunciùriri 'u matrimuoniu.
Il vero problema sarebbe stato trovare un buon motivo.
Ma siccome di intelligenza ne aveva anche troppa,
Paulinu seppe creare l'occasione per mandare tutto all'aria.
Milina non ne fece una tragedia, anzi... Chi ci rimase veramente male fu suo zio don Pitrinu, quello che si era tanto adoperato per combinare il matrimonio.







Raffeli

Raffeli abitava in una vanedda ro quattieri 'i San Milasi. Era un giovane magro, sveglio e, per natura, portato a far sempre qualcosa.
Era un grande lettore di giornaletti e ne aveva di tutti i tipi: di Tex, Tom Mix, Tom Boy, Capitan Miki, Zorro, Mandrake, Topolino, Cucciolo, Tiramolla...; e, dopo averli letti, si li canciava con gli altri ragazzi e volentieri li prestava a chi glieli chiedeva.

La sua grande passione era la sua bicicaletta, a cui dedicava, soprattutto d'estate, molta parte del suo tempo: dentro la carrittaria la smontava, sistemava, oliava, rimontava, puliva, lucidava; poi la ammirava e la faceva ammirare.
E spesso andava dal biciclittaru La Frisca, che aveva la bottega vicino alla chiesa di S. Biagio, a punta 'i cantunera, per farsi dare qualche consiglio.
Forse era più il tempo che impiegava per tenerla in forma che a pedalarvi sopra.

Raffeli, oltre ad essere intelligente, era anche spiritoso. Spesso il suo parlare era un'alluvione di battute (inventate all'istante e quasi mai volgari), tanto che talvolta il suo interlocutore rimaneva ubriacato e cercava di scappare.
Raramente prendeva in giro, cosa che in paese altri giovani, pur non avendone la stoffa, invece cercavano rozzamente di fare.
A lui interessava solamente divertirsi parlando e far divertire.
Inoltre conosceva una gran quantità di barzellette, anche sporche ma mai volgari;
e sapeva raccontarle così bene che riscuoteva molto successo presso chi l'ascoltava e spesso veniva invitato a continuare.

* * *

Raffeli è ancora vivo e vegeto; e, nonostante qualche disavventura e disgrazia familiare - compagne inseparabili dell'umana vicenda - ha conservato la sua arguzia e uno spirito giovanile.
L'augurio è che possa rimanere così ancora per tanto tempo.





Francuzzu

"Cettu ca 'u fanciullu è spettu" soleva dire suo nonno, pieno di orgoglio poiché il ragazzo portava il suo nome e il suo cognome. Ma i vicini, che lo conoscevano un po' meglio, tra loro commentavano con una punta d'ironia: "U fanciullu, spettu cc'eni; ma quant'è squetu!"; e uno di loro, che aveva letto qualche libro di racconti, l'aveva soprannominato Capitan Fracassa. Invece per i suoi parenti vittirisi Francuzzu era, più semplicemente, 'u mmazzìbbili.

Francuzzu, che allora frequentava le Scuole Elementari di via Bagni Diana, dopo aver fatto velocemente i compiti, correva a giocare, in strada o sui sagrati delle principali chiese del paese o dovunque ci fosse uno spiazzo.
Non c'era gioco che non conoscesse e non praticasse assieme agli altri ragazzi del paese: con la palla (
di gomma o di stoffa o di carta, per lui era lo stesso), con le figurine (o muru, o sciusciuni), cche soddi spicci (o paru o sparu, a tric-trac, o scannieddu, a fossa, o muru), cche nuciddi o ccu ll'ossa aruci re chiricopa, con le carte siciliane (o cuocci 'i l'oru, o latru, all'assu pigliattuttu, a bbriscula, a scupa - e la domenica e nei periodi delle grandi feste religiose - o settemmienzu, a zzicchinetta, e mazzetti).
Inoltre, per lo più con i compagni del vicinato, giocava
o trentunu, o mucciuni, o lapuni, a ciappedda, a nnanca e nnancaredda, o picuruni, o scinneccravacca; e ancora cco tuppiettu, cco scannieddu, cco circuni, cca carrimattella....
A dire il vero un gioco
Francuzzu non l'aveva mai giocato: 'u colpitu.
Questo gioco lo vedeva giocare dagli studenti della Scuola d'Arte nella palestra all'aperto adiacente al Municipio e rimaneva affascinato dall'agilità e dalla prontezza di riflessi dei giocatori; però non riuscì mai a capirne tutte le regole.

Spesso, quando vedeva arrivare 'n carrettu, Francuzzu aspettava che passasse. Poi, a seconda della faccia e dell'espressione del carrettiere, o con un balzo si sedeva sul ripiano esterno adiacente al purtieddu (sponda posteriore), oppure con le mani si appendeva alle aste sporgenti sotto questo ripiano e, dopo aver sollevato le gambe, si facìa carruzziari sino a quando non vedeva o sentiva venire in direzione opposta un altro carretto, dal quale si faceva riportare al punto di partenza.

Suo padre era disperato perché Francuzzu consumava troppe scarpe e, spesso, rincasava con strappi nel vestito oltre che con ginocchia e gomiti sanguinanti.
E, tra l'adirato e l'implorante, gli diceva: "Jucaturi sbannutu: ppo juocu piedd' 'a testa! Ma quann'è ca ti minti 'a testa a pattitu?"
Con la speranza di salvare almeno le scarpe, da don Nunziu 'u scapparu sotto le suole gli fece mettere i tacci, come quelli degli scarponi dei contadini.
Ma questa medicina, purtroppo, non diede tutti i risultati sperati.

La vera medicina fu il tempo; infatti col passare degli anni Francuzzu piano piano si misi 'a testa a pattitu.

Divenuto uomo, come tanti altri comisani, Francuzzu prese la via del nord.
Per alcuni anni tornò in paese durante le vacanze estive; dopo la morte dei suoi genitori non fu più visto.
E lentamente il tempo, nella memoria di coloro che l'avevano conosciuto, ha depositato tanta polvere da coprire il ricordo di quel fanciullu spettu ma squetu.




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