SOSTENIBILITÀ:
CONCETTO ANTICO E RECENTE
Il concetto di sostenibilità è presente
nella storia dell'umanità sin dalle sue origini.
Molte civiltà,
filosofie, religioni, fedi e culture del mondo, antiche e
più recenti (Buddismo, Sufismo, Gandhismo, Induismo,
Taoismo, dei Sumeri, dei Maya, delle aree Mediterranee,
degli Indiani Nord Americani, etc.) hanno cercato e
cercano di gestire il rapporto tra umanità e natura in
termini di saggezza (Cooper D. E. & Palmer J. A.,
1998; Samson P., 1995).
Ai tempi dell'antica Grecia, l'equilibrio
tra popolazione e risorse all'interno delle città
era considerato di vitale importanza. Ad esempio, Platone
era favorevole alla crescita zero della popolazione e
Aristotele affermava che una città popolosa era assai
difficile da governare (Harrison, 1993).
Welford (1995) richiama un antico
proverbio del Kenya: "Noi non ereditiamo la Terra
dai nostri genitori; la prendiamo in prestito dai nostri
figli". Questo esempio fornisce un'immagine
limpida del significato di posterità e di avvenire: un
valore di importanza capitale per la sostenibilità.
Robertson (1985) rievoca le antiche
culture indiane del Nord America: "Questo noi
sappiamo. La Terra non appartiene all'uomo; l'uomo
appartiene alla terra. Tutte le cose sono connesse.
Qualsiasi cosa accada alla Terra, accade ai figli della
Terra. L'uomo non ha tessuto la tela della vita.
Egli ne è soltanto un filo. Qualsiasi cosa egli faccia
alla tela, lo fa a sé stesso" (dall'orazione
di un capo indiano del 1852). Questo atteggiamento
tradizionale verso la natura fornisce un'altra
chiara immagine dell'importanza dei sistemi
biologici in tutte le attività sociali ed economiche
degli esseri umani: un altro valore estremamente
importante per la sostenibilità.
Wallace (1761) e Malthus (1798) erano
consapevoli del rischio di una Terra
sovrappopolata, la quale non avrebbe potuto garantire il
sostentamento della popolazione.
Wallace raccomandava uguaglianza,
confutando le critiche e obiezioni altrui in quanto
fondate sull'esistenza del seguente paradosso: se l'uguaglianza
fosse il rimedio per la miseria e l'egoismo, essa
favorirebbe l'aumento della popolazione; ne consegue
che, per limitarne l'incremento, verrebbero adottati
costumi e regole inumane.
Malthus, in opposizione a coloro i quali
ritenevano il genere umano capace di miglioramento
continuo e di felicità (Godwin e Condorcet), elaborò il
principio della popolazione, inteso come una sorta di
equilibrio naturale fra popolazione e risorse (alimentari)
che impedisce l'aumento del reddito e la sua
redistribuzione.
In breve, il concetto è basato sulla
seguente congettura. La tendenza naturale della
popolazione ad aumentare più velocemente delle risorse
sarebbe limitata dalla penuria e dall'insufficienza
di queste ultime. Perciò ogni tentativo di porre rimedio
alla povertà con l'incremento delle risorse sarebbe
inevitabilmente destinato a fallire, poiché un ulteriore
aumento di popolazione renderebbe le risorse
insufficienti per la vita dei nuovi nati.
Malthus era convinto che fosse molto
difficile (se non impossibile) arrivare ad una società
perfetta, nella quale tutti i cittadini vivessero a loro
agio e senza preoccupazioni circa il procacciamento dei
mezzi di sussistenza. E' ben conosciuta la quantità
di critiche sollevata da questa concezione. Per esempio,
Karl Marx scrisse che le cause della povertà non erano
da ricercarsi nell'incremento della popolazione, ma
nel modo in cui economia e società sono organizzate,
formulando quindi una critica basilare al capitalismo.
E' questo il periodo della prima
Rivoluzione Industriale, che vede l'affermazione
dell'economia politica classica, e della Rivoluzione
Francese, portatrice di nuovi principi, nuove prospettive
e nuove visioni future del mondo.
Crescita lineare e progressiva (fino ad
arrivare al concetto di crescita economica ottimale),
razionalizzazione culturale, primato della produzione
razionalizzata (sia di beni materiali che di servizi),
applicazione universale di metodi scientifici per la
soluzione di problemi, disciplina del tempo, burocrazia e
amministrazione a mezzo di regole, gerarchie razionali e
funzionali etc.; tutti questi elementi costituiscono le
componenti di un senso comune di società più
recentemente definita come utopia della certezza e
contraddistinta dalla fiducia nell'abilità e nella
capacità del genere umano di dominare la natura. (Giarini
& R. Stahel, 1993).
Come scrive Robertson (1985), il
Rinascimento, la Riforma Protestante e, più recentemente,
la rivoluzione industriale hanno comportato un totale
cambiamento di prospettiva. Il genere umano ha preso le
distanze dall'universo naturale per osservare se
stesso separatamente dall'ambiente che lo circonda.
Da una posizione esterna, l'uomo ha misurato,
studiato, sfruttato ed imbrigliato la natura; ha trattato
la natura come un oggetto esterno, facendole subire i
processi oggettivi della scienza e quelli manipolatori
della tecnologia; ha trattato le altre specie come cose
da catturare, osservare, vivisezionare, usare e
distruggere per soddisfare gli scopi umani.
Questa percezione della natura come
qualcosa di separato dall'uomo ha avuto un impatto
tremendo sul modo di concepire il lavoro, e sui generi di
lavoro che le persone hanno svolto ed ai quali hanno
attribuito valore durante l'era industriale.
In sintesi, l'ambiente ha valore
soltanto nella misura in cui fornisce benefici agli
esseri umani. E viceversa, ciò che era utile per l'economia
degli esseri umani avrebbe dovuto essere utile anche per
la natura. E' noto che, oggigiorno, questa
giustificazione logica è fortemente rifiutata dai
movimenti verdi. Essi, secondo Jacobs (1991) hanno
argomentato che l'ambiente ha un valore "intrinseco",
indipendente da ogni beneficio che possa derivarne alla
società umana; fino a giungere alla posizione "ecocentrica",
secondo la quale gli animali e le piante (e gli
ecosistemi a cui essi appartengono), hanno diritti morali
che potrebbero passare sopra agli interessi umani nel
determinare il livello di protezione ambientale
appropriato.
Ma la natura può essere avara e cattiva
sia come fattore di produzione, sia come fonte di vita e
di ricchezza. Secondo J. S. Mill (1866 e 1963-1977): i
poteri della natura agiscono spesso sull'uomo come
dei nemici; egli deve sottrarle, con la forza e l'astuzia,
quel poco che riesce ad utilizzare; tutte le cose più
terribili che gli uomini possono compiere sono commesse
dalle forze della natura in scala più grande, uragani,
cavallette, inondazioni, etc. Quindi, con la natura
occorre convivere e il serio pericolo della
sovrappopolazione potrebbe portare a condizioni di
saturazione nell'uso delle risorse e nella crescita
economica. Per tali motivi, Mill (1857) riteneva che il
processo di crescita economica sarebbe, prima o poi
arrivato ad uno "stato stazionario", con un
livello statico di popolazione, infrastrutture, case,
industrie, fattorie, etc.; uno stato di felice equilibrio
che non poteva essere a lungo rinviato e del quale, per
il bene della posterità, l'uomo avrebbe dovuto
essere contento prima di raggiungere condizioni di grave
rischio per se stesso; per questo era inevitabile
contenere la crescita della popolazione.
Molti autori concordano sull'influenza
mondiale delle culture eurocentriche ed occidentali nel
corso dell'era moderna. Si tratta chiaramente di un
problema storico, e costituisce un esempio del processo
umano attraverso il quale civiltà e culture (precedenti)
hanno potuto essere sostituite, integrate, mescolate,
annientate o distrutte da (nuove) culture più potenti (Morin,
1994). In verità le società occidentali sono divenute,
a livello mondiale, poteri dominanti, mentre le altre
società (e le loro culture) si indebolivano (P. Kennedy,
1988).
Esistono però filosofie e culture che
hanno attratto milioni di persone (Buddismo, Sufismo,
Gandhismo) e che ancora oggi mantengono diversità
sostanziali rispetto alla cultura
dominante, promossa e sviluppata dalla società
occidentale (Khan, 1995). Ad esempio, Khan cita un passo
dal manoscritto di Goodland, proveniente dalla cultura
Sioux delle Pianure Centrali: "Soltanto
quando l'ultimo albero sarà stato tagliato,
Soltanto quando l'ultimo fiume sarà stato
avvelenato, Soltanto quando l'ultimo pesce sarà
stato preso, Soltanto allora imparerai che il denaro non
può essere mangiato".
Mentre tali culture fanno parte dell'area
della moderazione, professando la frugalità come
filosofia e stile di vita, la minaccia principale alle
prospettive di sviluppo
sostenibile proviene dalla cultura occidentale, che
può essere etichettata come la cultura dei massimi. Ad
esempio, un insieme di massimi sembra caratterizzare l'Europa
o la sua immagine, secondo la definizione di spirito
europeo data da Paul Valery nel 1922 (citato da Khan,
1995): ovunque domini lo spirito europeo si
avverte l'apparizione del massimo dei bisogni,
del massimo di lavoro, del massimo di capitale,
del massimo di profitto, del massimo di ambizione,
del massimo di potere, della massima modifica di capitale
esterno, del massimo di relazioni e scambi.
Questi due differenti stili di vita si
confrontano ancora. Oggigiorno, per esempio, diverse
comunità, essenzialmente rurali, esprimono culture che
sono più rispettose dell'ambiente naturale e delle
altre specie viventi, e sono più sensibili ai cosiddetti
cicli naturali della vita rispetto a quelle tipicamente
industriali.
In altre parole, la rivoluzione
industriale, che ha consentito agli esseri umani di porre
fine ai periodi di carestia, non ha completamente
cancellato, dalla memoria collettiva delle diverse
culture occidentali, l'influenza delle culture
antiche o tradizionali, come ad esempio quella rurale.
L'era industriale, infatti, occupa
soltanto due secoli di storia (Robertson, 1985; Grint,
1991) sebbene si collochi in un'epoca chiamata con
il termine di "modernità" a significare modi
di vita e di organizzazione sociale che, affiorati in
Europa intorno al diciassettesimo secolo, hanno
successivamente esteso la loro influenza a quasi tutto il
mondo (Giddens, 1990).
Di fatto, a partire dagli anni 60,
anche nei paesi che hanno sperimentato e promosso l'industrializzazione,
si sono levate ampie critiche ai loro modelli di sviluppo.
Queste critiche erano mirate ad entrambi
i principali sistemi dell'era industriale (gli ideal-tipi
di società capitalista e comunista), ed hanno
contribuito anch'esse alla nascita della nozione di
sostenibilità.
Secondo alcuni autori, il concetto di
sostenibilità appare per la prima volta nel 1968, ad una
conferenza inter - governativa di esperti sulla Biosfera,
tenuta a Parigi (K. J. Grundy, 1997).
Una lunga serie di conferenze,
pubblicazioni, programmi internazionali ed europei segna
un crescente approfondimento di questo concetto e dei
principi ad esso correlati, in particolare:
- nel 1972, la Conferenza ONU su Human Environment
(Stoccolma);
- nel 1980, la pubblicazione su The World
Conservation Strategy (Programma ONU relativo
all'ambiente, WWF, IUCN - The World Conservation
Union);
- nel 1987, la pubblicazione di Our Common
Future (Commissione ONU su Ambiente e
Sviluppo, presieduta dalla Sig.ra Brundtland);
- nel 1990, la Dichiarazione dell'Unione
Europea sullo sviluppo sostenibile (Bergen);
- nel 1992, la Dichiarazione
di Rio su Ambiente e Sviluppo e sulla Agenda 21,
nonché i relativi trattati e protocolli (ONU,
Summit Mondiale);
- nel 1993, il 5° Programma Azione Ambiente (Towards
Sustainability) elaborato dall'Unione
Europea;
- nel 1994, la Carta di Aalborg su Sustainable
Cities and Towns;
- nel 1995, la Conferenza sulle Agende 21
Mediterranee (Roma);
- nel 1996, la Conferenza Europea su Sustainable
Cities and Towns (Lisbona);
- nel 1996, la Conferenza dell'ONU su Human
Settlements (Istanbul);
- nel 1996, la Dichiarazione di Newcastle (Australia)
su Pathways to Sustainability: Local
Initiatives for Cities and Towns;
- nel 1997, la Risoluzione di Goeteborg fatta dagli
assessori e dai ministri regionali per l'ambiente
degli Stati Membri dell'Unione Europea su EU
regulation, Regional Agenda 21, Sustainable
Development and Structural Funds;
- nel 1997, la Dichiarazione di Brema su Business
and Municipalities (New Partnerships for the 21st
Century)
- nel 1997, il Protocollo di Kyoto su Climate
Change (ONU, Summit Mondiale)
- nel 1998, il 4° meeting mondiale sul Cambiamento
Climatico (Buenos Aires)
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