La Guerra di Campagna e la Pace di cave

on questo capitolo c’inoltriamo nelle vicende  della disastrosa guerra sotto l’imperturbabile pontefice Paolo IV Caraffa, conclusasi con la nota pace firmata a Cave.

Trattandosi di un fatto storico che rese celebre questo Castello, ci si accinge a narrarne le vicende un po’ più ampiamente.

Con la scorta di vari autori, specie il Moroni, il Cardella, il Ratti ed altri, ci proponiamo quindi di espletare, nel miglior modo possibile, il nostro compito.

Anzitutto bisogna sapere che durante il pontificato di Paolo III fu aumentato il prezzo del sale. Ascanio Colonna pretese che il privilegio d’esenzione di Martino V, non si dovesse applicare alle sue terre. Gli esattori pontifici carcerarono alcuni vassalli dei Colonnesi ostili a tale aumento.

Ascanio per rappresaglia, coi suoi armigeri fece una scorreria nell’agro romano predando una quantità considerevole di bestiame.

Il Papa che già vedeva di mal occhio la potente Casa Colonna, nel 1541 mosse guerra con 10.000 armati comandati da Luigi Farnese nipote del Papa, ed espugnò vari castelli, e d’ordine pontificio, distrussero Paliano e preso possesso di tutti i territori di Ascanio.

Il Cardella ci narra nelle "Memorie dei Cardinali" e il Ratti "Della Famiglia Sforza", che si ricoverò nel porto di Civitavecchia due galere aderenti a Filippo II re di Spagna, tolte dalla flotta d’Enrico II re di Francia e già di Carlo Sforza gran Priore di Lombardia che n’era proprietario e ammiraglio, come per lui acquistate dal cardinale, essendo distrutte nelle guerre navali altre tre, pure comprate per lui dal cardinale.

A chiarimento aggiungiamo: Carlo Sforza aveva servito, alcuni anni, colle sue galere, il re di Francia, il quale venuto in sospetto chi era di passare ai servizi del re di Spagna, voleva arrestarlo. Ciò conosciutosi da Carlo fuggì, rimanendo le galere sequestrate in Marsiglia d’ordine del re, e poco dopo approdarono in Civitavecchia comandate da Nicolò Alemanni al servizio della Francia. Il cardinale Sforza di lui fratello, per ricuperarle ottenne artificiosamente da Giovanni Caraffa conte di Montoro e nipote di Paolo IV, una lettera perché il Castellano di Civitavecchia la rilasciasse a Alessandro e Mario di lui fratelli, onde furono portate a Gaeta, indi a Napoli in potere di don Bernardino Mendoza comandante spagnolo. Allora la Francia si querelò col Papa per la violata fede, ed il conte di Montoro ricuperata, la sua lettera, altra ne sostituì per discolparsi col Papa in aggravio degli Sforza, onde Paolo IV minacciò il cardinale di gravissime pene se non procurava che le galere, fossero restituite alla Francia.

Ma il cardinale Sforza, potentissimo in Roma per le grandi aderenze di sua famiglia congiunta in parentela colle principali della città, volle procurarsi un appoggio. A tale oggetto tenne in casa sua una notturna adunanza, alla quale intervennero i cardinali di fazione imperiale, i Colonnesi, i Cesarini e tutti gli altri baroni aderenti allo stesso partito spagnolo, il marchese Saria ambasciatore Cesareo, il conte di Cincione ambasciatore di Filippo II, ed altri signori, essendosi riempite le camere, le scale, il cortile del palazzo sforza, di minori partigiani e servitori, e persino le piazze e strade contigue.

Fu riferito al severo Paolo IV che tale notturno congresso avesse un colore sedizioso, e si fosse sparlato di lui, sino a mettere in dubbio la legittimità di sua elezione. Ciò mise al colmo lo sdegno del Capo della Chiesa, e ordinò l’arresto del cardinale Sforza e degli altri suoi partigiani, dandone la commissione al poco scrupoloso e famoso nipote cardinale Carlo Caraffa.

Questi portatosi al 31 agosto 1555 a far visita al cardinale di Santa Fiora per non fare pubblicità e con apparente amicizia, ed invitandolo ad uscire seco a diporto, proditoriamente lo condusse in Castel Sant’Angelo (ove più tardi Caraffa, d’ordine di Pio IV, fu strangolato: giudizi di Dio!). La prigionia durò 22 giorni, essendosi date al Papa le dovute richieste soddisfazioni. La prima e più essenziale fu quella della pronta restituzione delle galere in Civitavecchia imperocché il conte di Santa Fiora, fratello del cardinale Sforza temendo di sua vita, essendo in grandissimo credito presso gli imperiali, si portò dal viceré di Napoli Duca D’Alba per ottenere che Mendoza rilasciasse le galere, e fu contentato.

Il Papa volle inoltre una sicurtà per 150.000 scudi d’oro, altri dicono 300.000, di non partir mai il cardinale da Roma senza sua licenza, e di presentarsi ad ogni richiesta. Inoltre il cardinale Sforza soffrì nuova mortificazione in concistoro per la parlata di Paolo IV, che die Paliano dei Colonna al Conte di Montoro con altri feudi, restituendo agli Sforza i beni sequestrati.

Non andò guari che i Colonnesi furono nuovamente in guerra al tempo di Paolo IV, perché le suddette circostanze servirono di scintille per la guerra che scoppiò tra il Papa e la Spagna. Paolo IV, poté nella sua rettitudine meglio conoscere l’attaccamento del cardinale Sforza alla Santa sede, giacché a lui singolarmente si deve la riconciliazione tra il Papa e la Spagna, essendosi con molto calore ed efficacia interposto mediatore presso il Duca D’Alba viceré di Sicilia.

Nel pontificato di Paolo IV Caraffa, già consigliere segreto e cappellano maggiore di Carlo V, nonché arcivescovo di Napoli, per l’affare delle galere, di cui hanno parlato, e in altre parole quando la persona del cardinale Guido Ascanio Sforza, ardì la sediziosa congiura dai due ambasciatori di Carlo V e Filippo II, coi Colonna ed altri loro partigiani, contro il Papa e suoi nipoti.

Gli storici ci affermano che Camillo Colonna, e lo afferma lo stesso Moroni nel suo Dizionario, nella sua parlata del notturno congresso in casa del cardinale Sforza in Roma, si vantava d’aver la sua casa nei tempi addietro, fatto morire i Papi in una torre e che lo stesso sarebbe accaduto a Paolo IV. Questi risaputolo fecero arrestare in Cave, Camillo e insieme al cardinale Sforza chiusi in Castel Sant’Angelo. Fece quindi occupare Cave e Bracciano per la fortezza, e prese altre energiche provvidenze. Carlo V e Filippo II vedevano di male occhio il Papa, ed il primo dei due precedenti conclavi gli aveva dato l’Esclusiva, ed in quello in cui fu eletto l’ambasciatore Mendoza gliela aveva minacciato, di che si rese il Papa, solo rimettendosi al volere di Dio.

In seguito e mentre si era quietata in parte la cosa, fu ravvivata per il supplizio cui furono condannati l’abate Nanni e Cesare Spina sicario calabrese, mandati, si dice da Carlo V per uccidere il cardinale Caraffa nipote del Papa e di grand’autorità.

Per le misure ostili prese dai ministri spagnoli del confinante regno delle due Sicilie, il cardinale Caraffa spinse lo zio alla guerra, ma il Papa vi ripugnava; soltanto per la sicurezza di Roma fece scrivere al Duca d’Urbino Guido Ubaldo II feudatario della Santa Sede di tenere pronti 6000 fanti e 300 cavalli; accrebbe le milizie papali di 3000 fanti e pose in stato da combattere le preesistenti.

I fuorusciti napoletani e toscani, ed i ministri francesi, continua a dirci il Moroni, facevano di tutto perché si vincesse la contrarietà di Paolo IV a fare uso delle armi temporali, sebbene avesse notato che i ministri imperiali avevano impedito ai napoletani l’inviarli un ambasciatore per congratularsi di sua esaltazione, e che Filippo II ancora non aveva mandato l’ambasciatore d’ubbidienza come re delle due Sicilie. Ma, quanto seppe che Granvela, primo ministro di Carlo V si era fortemente lagnato di lui col nunzio di Brusselles, per l’imprigionamento di Colonna Camillo, signore di Cave, e del cardinale Sforza, e la confisca dei feudi di Mare Antonis II Colonna, e che istigava l’imperatore e Filippo II a guerreggiare il Papa e spogliarlo d’ogni sovranità temporale; di più venuto in cognizione Paolo IV, che i ministri regi andavano adunando ai confini dello stato ecclesiastico, nell’intendimento che il regno delle due Sicilie non poteva essere sicuro finché il principato dei Papi vi confinasse; per non essere biasimato di debolezza dalla posterità e pei tradimenti arditi contro di lui e il cardinale nipote, nel 1555 fece lega con Enrico II re di Francia, il quale lusingandosi di poter acquistare il regno delle due Sicilie per il suo secondogenito, spedì in seguito nello Stato Pontificio il Duca di Guisa.

Collo andare del tempo molte cose si tramarono contro il Papa e lo stato della chiesa da Ferdinando Alvarez di Toledo Duca D’Alba, governatore di Milano, successore al padre nella carica di Viceré di Napoli, ove era passato per la guerra, della quale era famoso capitano.

Paolo IV a sua volta nominò generale delle armi ecclesiastiche il nipote Giovanni Caraffa conte di Montorio.

Nella lega offensiva e difensiva accettata dal re di Francia nell’ottobre 1555, e di poi sottoscritta al 18 gennaio 1556, in seguito vi fu compreso anche il Duca di Ferrara.

Negli articoli della lega con la Francia, e riportati, con la storia di questa infausta guerra, dal Carrara nella storia di Paolo IV, principalmente si convenne:

  1. Che Enrico II si obbligava di difendere con tutte le forze la Santa Sede, Paolo IV, il cardinale Caraffa, i suoi due fratelli e discendenti, e di ricompensarli dei beni che avessero perduto per la lega, con altri beni in Italia e in Francia convenienti alla loro nobiltà.

  2. Che la guerra si cominciasse nel regno di Napoli, o in Toscana a piacere del Papa, per essere in grado di difendere Roma e lo Stato Pontificio.

  3. Che acquistandosi lo Stato di Siena si desse alla Santa Sede, o al Conte di Montoro, od a chi volesse il Papa.

  4. Che il re mandasse subito un principe suo figlio, secondo l’accordo a voce.

  5. Che ricuperandosi Milano, il Papa e la Santa Sede si reintegrassero i beni che gli appartenevano.

  6. Che il re dovesse sgravare il Ducato di Milano, ed il regno di Napoli e di Sicilia dalle insopportabili gravezze dalle quali erano oppressi i popoli.

  7. Che il re delle conquiste fatte nel regno concedesse uno stato libero di 25.000 scudi annui al Conte di Montoro, ed un altro di 15.000 scudi al suo fratello Antonio (poi Marchese di Montebello), feudo tolto al Conte di Bagno in Romagna.

  8. Che niuno di confederati potesse far pace con i nemici, senza il comune consenso e per qualunque ragione.

  9. Che il re concederebbe ad uno dei suoi figli il regno di Napoli, con investitura del Papa, secondo lo stabilito da Leone X; e ad un altro figlio il Ducato di Milano, dovendo l’uno e l’altro risiedervi, e perciò escludersi il Delfino erede di Francia.

  10. Che restasse luogo ai Veneziani d’entrare nella lega, con promessa del regno di Sicilia; e vi restasse pure per il Duca di Ferrara con compensi da convenirsi.

  11. Che il censo del regno di Napoli si accrescesse di 40.000 scudi d’oro di camera, poiché sotto Carlo I d’Angiò erano altrettanti, sotto Carlo VIII re di Francia ascendeva a 48.000 scudi, e per Carlo V diminuiti e ridotti a 7000 scudi.

  12. Che il re desse uno stato alla Santa Sede in Sicilia, secondo la lega di Leone X.

  13. Che il re nei regni non s’ingerisse nelle materie spirituali e beneficiali, né facesse pratiche o decreti contro la giurisdizione ecclesiastica, dovendosi così distruggere il famoso tribunale detto la Monarchia di Sicilia.

  14. Che il re si conservasse sempre fedele ed ubbidiente al Papa, somministrasse a lui ad ogni richiesta 400 lance e due galere armate.

  15. Che non ricettasse nemici o ribelli di Santa Chiesa, né potesse assoldare gente nello Stato ecclesiastico senza licenza del Papa.

La repubblica di Venezia volle restare neutrale.

Al Duca di Ferrara Ercole II fu conferita la dignità di generale dell’esercito della lega, ed assicurata la protezione di sua persona e del suo stato feudatario della Santa Sede, un’entrata di 20.000 scudi se si acquistasse il regno di Napoli, se la Toscana di 15.000 scudi, se il Ducato di Milano 50.000 scudi e Cremona per sicurtà.

Dai rioni di Roma si ricavarono 8000 abili alle armi, benedetti sulla piazza di San Plettro dal Papa, e tutti i romani furono compresi da grand’allegrezza, come i Caraffa, avendo concepito grandi speranze.

Ma il re di Francia dopo aver tanto esposto Paolo IV contro un nemico formidabile, subito irriconoscente lo abbandonò, per la tregua conclusa con gli imperiali e spagnoli di cinque anni al 3 febbraio 1556, senza affatto nominarlo, contro i patti stabiliti e ciò appena 15 giorni dopo la formale sottoscrizione della lega dal re vagheggiata!

Come ne restassero sorpresi e dolenti il Papa e i nipoti per tale inganno e tradimento, ognuno può immaginarlo, vedendosi segno al risentimento di un Filippo II, liberatosi da un potente avversario che lo poneva in imbarazzo.

Le rimostranze riuscirono inutili, con un re che non aveva avuto ribrezzo in 15 giorni sottoscrivere due trattati opposti, e altamente compromettere il capo della Chiesa, che sempre si era mostrato avverso alla guerra!

Non per questo l’animo grande di Paolo IV si smarrì, quantunque i suoi nemici si mostrassero più Altieri e insolente, siccome divenuti più potenti per l’annientata lega che li aveva umiliati.

Fatalmente, ci narra sempre il Moroni, per caso fortuito, non essendo stato permesso d’uscire per tempo dalla porta Nomentana o Pia, all’ambasciatore imperiale marchese di Saria, questi, coi suoi armati, la sfondò con violenza e passò, onde il Papa alterato, assolutamente volle che l’orgoglioso ambasciatore in Castel Sant’Angelo fosse imprigionato, durando molta fatica i nipoti placarlo. Intanto Paolo IV vedendo come i nipoti erano stati gravati col vergognoso ritiramento dei francesi, con perdere i beni che possedevano nel regno di Napoli, al Conte di Montorio die Paliano e altre terre; ed al suo figlio Cave, confiscate ad Ascanio e Marcantonio Colonna, ei beni del Conte di Bagno ad Antonio quali feudi della Chiesa (ed i primi già ai Colonnesi tolti da Paolo III), che dichiarò nel Concistoro del 4 maggio rei di lesa maestà e ribellione, ed incorsi nella scomunica maggiore.

Mentre Paolo IV, coi cardinali Caraffa e Rebiba legati spediti alle corti di Francia e di Spagna procurava la pace, i ministri di Filippo II istigarono questi alla guerra con false rappresentazioni, dimostrandogli il pendolo in cui erano i regni di Napoli e di Sicilia, massime il crudele ed altero Duca D’Alba Viceré di Napoli, che più tardi fu cagione dell’insurrezione dei Paesi Bassi, ove fu detto nobile carnefice, uomo inumano e nuovo Silla.

Accolse magnificamente Marcantonio Colona, e fece preparativi per guerreggiare il Papa, che trovandosi isolato era più debole di quello che lo credesse il Viceré e scarsità di denaro, ripugnando al suo cuore l’imporre nuovi dazi. A queste afflizioni il Papa si aggiunse quella che Filippo II non aveva voluto ricevere il cardinale Rebiba, e facilmente poté congetturare con qual sorte di gente avesse a fare, sperimentate da Clemente VII e da lui vendute nel 1527 per il tremendo sacco di Roma, in cui fu gravemente con San Gaetano oltraggiato.

Pertanto credé opportuno, per precauzione, di prendere al suo servizio Camillo Orsini capitano assai stimato; il quale sebbene temeva come il sagace senato veneto un esito infelice a quell’impresa, pure ubbidì e ricusò generosamente lo stipendio; nonché pose in stato di difesa le province di Frosinone e Velletri, e, infatti, comunemente fu chiamata questa disgraziata guerra col nome di Guerra della Campagna Romana.

In pari tempo Paolo IV non risparmiava sollecitudini e premure per mantenimento della pace, al che eccitava il cardinale nipote presso la corte di Francia; e siccome seppe che il fiero Duca D’Alba Viceré di Napoli, continuando le mosse per invadere il suo stato, nel declinar di giugno aveva proibito ai sudditi regi il commercio con i pontefici, se ne gravò nel Concistoro del 11 luglio, protestando con gli oratori dei principi di voler che la pace, deplorando i travagli della guerra, e solo armarsi pel decoro di una suprema dignità. Il governatore di Terracina, per sospetto arrestò un uomo, e credé che era un corriere spagnolo che da Roma portava lettere al Duca D’Alba, onde con scorta lo mandò in Roma, ove fu carcerato e ritenute le lettere scritte con cifre oscure, anche di don Garzia della Vega parente del Viceré e di Colonna.

L’ambasciatore Saria andò a reclamare al Papa, il quale sapendo che lo aveva accompagnato don Garzia, questo fece imprigionare.

Allora si scoprì che don Garzia aveva scritto al Duca D’Alba, che Roma era senza difesa, e che per rendersene padrone e terminar la guerra con questa sola impresa, occorreva venire segretamente e con tutta la possibile diligenza, ed attaccare lo stato primo che Paliano fosse ridotto a compiuta difesa, e mentre il nemico stava in disordine.

Da questa lettera s’imparò il nome di vari confidenti degli spagnoli, come Ascanio della Corgnia generale della cavalleria pontificia in Velletri, sebbene colle milizie pontificie avesse spogliato del marchesato di Montebello il Conte di Bagno, molto poteva giovare all’impresa guardando i confini.

Paolo IV colla sua intrepidezza chiamò a sé il della Corgnia, che invece fuggì avvisato dal cardinale fratello, perciò portò in Castel Sant’Angelo, e, ad ambedue confiscati i beni; quindi il Papa aumentò i mezzi di difesa, temendo un nuovo 1527; ordinò un processo contro tante insidie, e nel concistoro del 27 luglio comparve Alessandro Pallantieri procuratore fiscale (che sotto Pio IV fece decapitare il cardinale Caraffa e perire i suoi fratelli, poi castigato con l'estremo supplizio da S. Pio V), e Silvestro Aldobrandini avvocato fiscale, i quali in nome del fisco lessero un’istanza di protesta: che i ministri di Carlo V e di Filippo II, e massimamente il Duca D’Alba Viceré di Napoli del 2° e luogotenente in Italia del 1°, macchinavano apertamente contro lo stato ecclesiastico e Roma, non solo ricettando e proteggendo i Colonnesi scomunicati, ma eziandio preparando assalti alle terre pontificie e un nuovo sacco alla reggia papale. Non poter ciò avvenire e senza notizia dei lori principi, che erano da molti, e tutto ciò contro i giuramenti prestati pel feudo del regno di Napoli, il cui Diretto Dominio apparteneva alla chiesa.

In conseguenza il fiscale supplicò il Papa a delegare alcuni cardinali i quali conoscessero questa causa, ed ove il fiscale provasse le cose narrate, dichiarasse che i detti ministri e principi erano incorsi in tutte le pene di maggiore scomunica, di caduta dal feudo, e di privazione degli onori e degli stati loro; si assolsero i sudditi dal giuramento, ed i loro domini si esponessero per lecito acquisto agli occupatori.

Paolo IV ammessa l’istanza: Se, ed in quanto era di ragione, disse pure che quanto alla delegazione dei cardinali giudici, avrebbe tenuto consiglio col Sagro Collegio e poi maturamente risposto. Allora due chierici di camera di tutto ne rogarono l’atto, facendo da testimoni i prelati maestro di camera e segretario del Sagro Collegio.

Intanto il Duca D’alba fece fare delle lamentele col Papa, che tutti i ministri e ben affetti a Carlo V e Filippo II era da lui maltrattati e imprigionati, e Paolo IV opportunamente rispose esponendo la storia dei fatti, mentre l’ambasciatore Saria partì all’improvviso da Roma, contro il promesso quando il Papa lo invitò a mensa e trattò umanamente, in tutto procedendo con cautela e col parere dei cardinali, come diffusamente racconta il suo biografo, e non come scrissero i falsi storici venduti ai suoi nemici, inventando la più incredibili calunnie, fino ad affermare che voleva collegarsi coi turchi, per avergli scritto Solimano II pregandolo a liberare, onde ne soffriva grave danno, promettendogli invece di trattare benignamente i cristiani del suo impero.

Il Duca D’Alba si preparò per partire da Napoli con 12.000 soldati, 500 cavalli e 12 pezzi d’artiglieria, dichiarando Marcantonio Colonna capo dei fanti; i cavalleggeri lì affidarono al Conte di Popoli; la maestria del campo ad Ascanio della Corgna; la cura dell’artiglieria a Bernardino d’Aldano, tutti infiammati contro il Papa. In pari tempo ai 25 agosto1556 scrisse due lettere artificiosamente di pace a Paolo IV ed al Sagro Collegio, per dare alle sue armi una politica apparenza, e giustificandosi in faccia al mondo nello scandaloso attentato di portare il terrore e la confusione nello stato ecclesiastico. Nelle lettere pregava il Papa, ed a lasciare nemico di Carlo V e di Filippo II, promettendo che questi sarebbero stati suoi riverenti figli; pregava i cardinali d’indurre Paolo IV a sensi d’equità e carità pastorale! Sono, dice lo stesso Moroni, due monumenti di fina politica guerriera, che con artifizi pacifici nascondendo le più prave intenzioni, e scritti con la spada impugnata. Ma il Duca D’Alba impaziente di risposta, che il Papa stava maturando coi cardinali e consultando con sentimenti pacifici, il 1° settembre 1556 partì con l'esercito da Napoli, senza attendere risposta, ed ai cinque di settembre prese Pontecorvo, indi per Ceprano da lui occupato; assalì Frosinone con molta preda di bestiame, e la notte ne giunse la triste notizia a Roma.

Il Papa oltremodo inquieto radunò i cardinali, e alla loro presenza chiamò il portatore di messaggio del Duca D’Alba e, rimproverandolo gli narrò il tradimento eseguito e la violazione del diritto delle genti, assalendo con le armi mentre pendevano trattative di pace, delle quali egli doveva essere latore. Ma che Dio, apostrofò il Papa, avrebbe protetto la giustizia e punita la frode! Indi lo mandò in Castel Sant’Angelo, per l’infedeltà del suo padrone.

Il Duca D’Alba disprezzando i clamori pontefici, prosegui con ferocia senza ostacoli le sue conquiste, tutto a lui cedendo con falsità, precedendolo il terrore delle iniquità che andava commettendo il suo sanguinario e distruttore esercito. Ripi fu abbandonato dalla defezione dei soldati. Falvaterra si die spontaneamente, dopo disfatte le milizie papali. Il Duca protestava nelle sue invasioni di occupare i luoghi per il Sagro Collegio, e di restituirli poi a lui e al futuro Papa, per mitigare l’odiosità che provocava nelle popolazioni, e diminuire le opposizioni degli abitanti, ed insieme spargeva semi di discordia e di scisma fra il Papa e i cardinali, tentando d’alienarli da lui, o far sospettare Paolo IV d’essere con loro di segreto accordo.

Questo maligno e furbo procedere fu dal Papa manifestato ai cardinali, scoprendo loro le mene del Duca e qual concetto avevano formato del Sagro Collegio. Ma i cardinali dopo tutta indignazione e dolore per sì riprovevole procedere, pregando il cardinale decano alla presenza del Papa a notificare al Duca il loro acerbo risentimento, dichiarandosi altamente offesi da quell’apparente ed ingannevole rispetto, il che eseguì con energia al 13 settembre 1556 per mezzo dello zio cardinale Giovanni Alvarez. Ai 16 il Duca con ufficiose parole, ringraziando i cardinali degli avvertimenti dati; ma secondo gli ordini di Filippo II dovendo ritenere le terre occupate in protezione del re, questi avendogli imposto di consegnarle a loro ed al nuovo Papa, colla sua dichiarazione aveva mitigato l’ordine con esternare di restituirle ai cardinali appena morto il Papa, senza attendere l’elezione del successore, nuovamente pregarli d’indurre Paolo IV a consigli più paterni e più giusti. Frattanto il Duca si era impadronito di Veroli e saccheggiato Bauco ed altri luoghi, spontaneamente cedevano altri Castelli, fra cui Piperno, Terracina, Acuto, Fumone e Ferentino.

Fu sollecito di occupare Anagni, perché abbondante di grano, e dopo l’inutile difesa di Torquato Conti con 800 fanti, oltre il presidio, fu miseramente saccheggiata e manomessa, perciò tutta Roma era caduta in confusione e timore, essendo recente la dolorosa memoria del saccheggio e barbarie che la desolò nel 1527. In Roma si demolì il Convento Agostiniano di Santa Maria del Popolo, con quasi cento case contigue; si tassarono i proprietari dei beni stabili, di una centesima parte; si requisirono i migliori cavalli con promessa di pagamento, per formare una compagnia di 200 lance; ai religiosi fu ordinato prestarsi in ogni maniera, e lavorare alla difesa della città; si prese nota di tutto il grano e si fecero altri provvedimenti.

Era ritornato dalla Francia il cardinale Caraffa con 1500 guasconi concessi dal re, con promessa d’altri aiuti col Duca di Guisa, e avendo pure ottenuta la segreta rinnovazione della lega con qualche modificazione. Il cardinale si diede con somma vigilanza a confortare il generale abbattimento ed a provvedere l’occorrente; il Papa si mostrò intrepido, perché le sue rette intenzioni gli facevano sperare l’aiuto divino, ed i soccorsi di Francia, lodando il coraggio di Camillo Orsini che in Campidoglio eloquenti ed efficaci parlate contro detrattori del Papa, ed eccitando tutti alla difesa della patria e non abbandonarla contro i divieti, come avevano fatto molti. Questi lamenti derivavano anche da alcuni cardinali, perché non s’induceva il Papa a cercare la pace; e Paolo IV che prima sempre l’aveva procurata, pieno d’imperturbabilità non voleva sentire più parlare, indignato acremente contro il traditore Duca D’Alba, meritevole dei maggiori fulmini del Vaticano, perciò gli sembrava indegno di un Papa d’umiliarsi a sé iniquo invasore; bensì s’egli fosse rientrato nel regno, allora n’avrebbe ripreso le trattative, e respinse le consigliate rappresaglie di vendetta.

Grave e miserabile fu il corrispondente discorso pronunciato ai cardinali, che, con tutti i particolari di quest’obbrobriosa guerra.

Nonostante tutto al 16 settembre 1556, fu mandato al Duca, per una soppressione d’armi, durante la quale si trattasse la pace, il padre Tommaso Manriquez Domenicano.

S’intavolarono gli accordi, ma furono rotti quando il Duca, tra le altre cose esigeva che Marcantonio Colonna ed Ascanio della Corgna fossero reintegrati in tutto: la congregazione dei cardinali, preposta dal Pappa, non volle cedere a tali condizioni, altrimenti con fatale esempio si sarebbero animati altri sudditi alla sedizione ad al tradimento, non che a calpestare le autorità pontificie, tutte le volte che trovassero la protezione regia; e sebbene composta di cardinali devoti a Filippo II, non osarono farne parola a Paolo IV, ciò ritenendo indegno per gli eccessi commessi dai nominati.

Le piogge impedirono al Duca di progredire colle artiglierie; un congresso che doveva tenersi a Grottaferrata, essendo svanito con rabbia del Duca, in Roma crebbe lo spavento e il popolo tumultuò, né si quietò all’arrivo del maresciallo Monluc, già difensore di Siena, con qualche soccorso francese; troppo vivo era il patito sacco, ad onta che si era sufficientemente disposti e distribuiti i mezzi di difesa, ma il timore eccessivamente aveva oppresso tutti gli animi.

Il Duca continuò le sue conquiste: prese Segna (Segni) e Valmontone; indi perplesso se rivolgersi contro Velletri o Tivoli, si decise per questa città, l’altra sapendola gesuita di numerosi soldati, ed il popolo bellicoso ed affezionato al Papa già stato suo vescovo. A dunque pure Tivoli cadde nelle sue mani, ove era Francesco Orsini con 400 fanti, il quale con l’aiuto Monluc, si ritirò a Vicovaro, ma dovette arrendersi il 1° ottobre, prendendosi con l’inganno la rocca. Tivoli e Vicovaro giovava al Duca, onde aver libero il passo delle vettovaglie provenienti dal regno. Tutte le con vicine terre dei Colonnesi, come era avvenuto nella provincia di Frosinone, prontamente si diedero al Duca, come Palombara, Ponticelli, S. Angelo e Palestrina furono ugualmente occupate, perché il suo signor Alessandro Colonna comandava l’esercito papale.

Le milizie pontificie tentarono qualche azione, ma senza successo, anzi con la peggio. Il Duca di Parma feudatario della chiesa, con gettarsi nel partito spagnolo, poté ricuperare Piacenza; ma oltre la sua defezione, nacque allo stato ecclesiastico per l’aiuto dato agli invasori.

Nettuno e Porto d’Anzio, abbandonarono il partito del Papa e tornarono a sottomettersi a Marcantonio Colonna, già loro barone; assediata Ostia per la sua importanza, si risvegliò la paura dei Romani, vedendo il Papa tanto mal servito dai suoi capitani e soldati, poiché i nemici andavano impunemente scorrazzando la Via Ostiense, e quel tratto che da San Paolo conduce al Laterano ed operandovi non pochi guasti, che è quanto dire intorno alle mura di Roma, perciò corse gravissimo pericolo d’essere ucciso il cardinale Caraffa, che per animare i cittadini e ostentando sicurezza, incautamente soleva uscire fuori delle porte.

Paolo IV per non dare piacere ai nemici continuava nella sua inalterabile tranquillità. Ad Ostia fu fatta buona difesa da Orazio Farnese valoroso capitano, e per mancanza di munizioni si die a discrezione al 18 novembre 1556.

Seguì una tregua di dieci giorni, per la penuria in cui trovatosi l’esercito spagnolo e si riparlò di pace aderendovi il Papa ad onta che sapeva avvicinarsi il Duca di Guisa. Il cardinale Caraffa si abboccò a Fiumicino, ma nulla fu concluso, benché n’avessero i poteri; sempre il Duca D’Alba insistendo per la restituzione delle terre ai Colonna e Corgna, ottenne a suo vantaggio e per andare a Napoli altra tregua di quaranta giorni, essendo egli intento a prolungare la guerra per comandare, sapendo d’essere detestato dai ministri regi che disapprovavano la sua impresa.

Il Cecconi attribuisce che durante la tregua, Valmontone, Genazzano e Palestrina furono ricuperati per opera di Giulio Orsini e Francesco Colonna favorevoli al Papa. Cave era già stato confiscato, come abbiamo detto ad Ascanio e Marcantonio Colonna dal figlio di Montoro.

Il Cappi afferma che i Pontefici distrussero Montefortino. Marcantonio Colonna che militava a favore degli spagnoli, si accostò a Valmontone col suo esercito di 3000 uomini, e nel mese di giugno 1557, cominciandolo ad abbattere colle artiglierie, i terrazzani disperando della difesa e solleciti della propria salute, iniziarono le trattative per arrendersi, col patto di poter i soldati con il bagaglio e armi liberamente uscire; e tutto fu concesso dal detto capitano.

Nondimeno Valmontone fu barbaramente saccheggiata ed arsa per opera d’alcuni contadini di Montefortino (Artena); i quali si trovavano nell’esercito di Marcantonio Colonna per guastatori, vivandieri ed altri uffici; poiché ricordandosi questi che nell’antecedente eccidio di Montefortino, i primi che cominciarono ad inveire contro di lui e depredarlo erano stati i Valmontonesi, bramosi di vendetta appiccarono il fuoco in molte case e da molte parti. E benché Marcantonio si affaticasse molto per farlo spegnere, non fu però possibile; mentre sopraggiungendo l’oscurità della notte, e per mala ventura soffiando un vento fresco, non si poté impedire che tutta la terra fosse rivolta in cenere. Narrano la fatale disgrazia Girolamo Ruscelli, Ascanio Centorio, Pietro Nores ed altri scrittori dell’infelice guerra della Campagna Romana.

Nonostante la rovina generale di Montefortino, poté a poco a poco riaversi, rifabbricandolo i superstiti abitanti con l'aiuto dei Colonnesi, per aver i dispersi montefortinesi supplicato la celebre marchesa di Pescara Vittoria Colonna, Virginia Colonna Massimi e Turzia Colonna dei Mattei, le quali a favore loro si prestarono efficacemente.

Secondo il Moroni, p. Casimiro avverte che i sullodati scrittori non riferiscono lo spoglio operato dagli spagnoli di tutte le campane delle chiese di Valmontone il che saputosi dal Duca D’Alba, fece sapere al clero che era pronto a risarcire il danno col danaro, come si legge in un istromento rogato da Teofilo Papei ai 27 settembre 1559.

Col nuovo anno 1557 si riprese la guerra, ed al 8 gennaio si presentarono sotto Ostia, il Conte di Montoro, Duca di Paliano, col maresciallo Strozzi, capo dei fuorusciti fiorentini, e 6000 fanti, 800 cavalli e sei pezzi d’artiglieria, e tosto ai 14 si arrese, onde fu poi decapitato a Brusselles il comandante Varquez. Indi Palestrina, S. Angelo, Frascati, Grottaferrata, Marino, CastelGandolfo presto tornarono all’ubbidienza della Chiesa, così altri luoghi circostanti. Tivoli fu abbandonato dal Conte di Popoli, che in tanta commozione si ritirò ad Orticola nel confine del regno, e nel vicino Subiaco; ribellandosi Roviano, Cantalupo e Canemorto. Vicovaro fu assediato e preso dai pontefici, con strage del nemico al 14 febbraio; Roma si abbandonò alle allegrezze, ed il Papa liberò i prigionieri e fece dar loro del denaro, dicendo di non acconsentire alla guerra che per conservare gli stati e la dignità della Chiesa. In questo tempo, superata l’asprezza delle Alpi e della stagione, continua sempre il nostro Moroni, giunse in Roma al 2 marzo il Duca di Guisa con 12.000 uomini, oltre 1200 di cavalleria, coi primari signori della Francia, con ordine del re Enrico II, d’ubbidire in tutto a Paolo IV e difenderlo contro gli attentati del Duca D’Alba, dopo essersi molto lamentato cogli ambasciatori di Filippo II sulla guerra mossa al Papa. I Romani ne furono lieti e rincuorati, riconoscendo con clamorosi applausi; ma si sparse il terrore in tutti i vicini luoghi posseduti dagli spagnoli e loro aderenti. I velletrani indispettiti di un’imboscata tesa con loro danno dal presidio di Rocca di Papa, castello dei colonnesi, per vendetta l’assalirono e presero. Il capitano Foschi della milizia urbana di Velletri fu preso prigioniero con 70 dei suoi e morì nella Rocca per ferite ricevute combattendo valorosamente.

Paolo IV avendo inviato il cardinale Caraffa per legato ai principi italiani, in Ferrara ad Ercole II solennemente presentò lo Stocco e il Berrettone benedetti, per aver armato 6000 fanti e 800 cavalleggeri, come generale supremo della lega; ormai e coi 3000 svizzeri assoldati dal Papa, la lega giunse ad avere 40.000 combattenti. Venezia si conservò sempre neutrale operò dichiarando agli spagnoli di non volere l’oppressione, né la depressione del Papa. Questi finalmente al 12 febbraio per moderazione deputò i giudici e quasi tutti vassalli regi, per corrispondere all’istanza su descritta del Fisco pontificio, per esaminare in forma giudiziaria il procedere di Carlo V e Filippo II contro la Santa Sede, i ministri dei quali avevano di fresco fatti molti atti pregiudizievoli alla giurisdizione ecclesiastica nella Spagna, ed aprendosi le lettere provenienti da Roma per timore che contenessero scomuniche.

Questi attentati uniti all’invasione, già preceduta da altri eccessi riferiti dal fiscale in concistoro, fecero risolvere il Papa a procedere contro quei principi che per rispetto avevano fino allora agito lentamente, volendo che quei monarchi sentissero d’essere figli e non sovrani della Chiesa, pretendendo essi di non aver superiori in terra.

Intanto con questi principi di cupidigia dei monarchi, di baroni e del Papa, si perpetuano le guerre fra i partiti per divedersi i pochi beni terreni, da cui nasceva e nasce tuttora la superbia di chi conquista e l’invidia di parte.

Ai nove di aprile Paolo IV revocò in concistoro tutti i suoi ministri e rappresentanti della Santa Sede presso Carlo V e Filippo II, e fece credere che era disposto di scomunicarli e di sciogliere i loro sudditi dal giuramento secondo il potere riconosciuto nei Papi da tutto il cristianesimo.

Nel giovedì santo poi, colla Bolla in Coena Domini, specialmente scomunicò gli occupatori delle sue terre della Campagna e della Marittima, quantunque eminenti per dignità eziandio imperiali e tutti i consiglieri e fautori aderenti. In conformità di ciò, nel seguente venerdì santo si tralasciò la solita preghiera per l’imperatore, che per tale Paolo IV riconosceva Carlo V, sebbene avesse rinunciato l’impero nel precedente settembre, ma senza effetto, perché ancora non accettata la rinuncia dalla Dieta dell’Impero.

Mentre il Duca di Guisa difficoltava a cominciare la guerra nel regno di Napoli, il Duca D’Alba pieno d’attività e senno fortificò Anagni, Frosinone ed altri luoghi della Campagna, i confini e i luoghi forti del regno, persino la Puglia e Calabria, temendo uno sbarco dei turchi collegati dei francesi, indi si die a formare un numeroso esercito, radunando gente da ogni parte, ricevendo mezzo milione d’oro da Bona Sforza vedova del re di Polonia, ricordevole della persecuzione fatta dai francesi ai suoi antenati signori di Milano.

Il Duca di Toscana Cosimo I aspirando al dominio di Siena, come poco prima abbiamo riferito, essendo alleato degli spagnoli, si mostrò avverso e invidioso col Papa, onde fu spedito lo Strozzi a guardare la Romagna. L’indugio del Duca di Guisa per invadere l’Abruzzo, permise al viceré Duca D’Alba di ammassare 24.000 uomini; ma incominciata dai francesi la guerra furono saccheggiati Campili, Teramo ed altri luoghi faresi, assediando Civitella il Duca di Guisa con fortezza ben munita, che dovette dopo sforzi abbandonare, onde s’indispose di proseguire la guerra nel regno, preferendo egli quella di Toscana e Lombardia. Perciò insorsero discordie tra lui ed i Caraffa, massime con l'altero marchese di Montebello, e ne fece risentite lagnanze al Papa.

Dispiacente Paolo IV delle minacce del Duca che voleva ritornare in Francia, gli inviò per placarlo l’altro nipote Duca di Paliano modesto e gentile, con qualche somma di denaro, imponendo una gabella di uno scudo per 100 sui beni stabili di tutto lo stato, e per tutti i feudi compresi Napoli e Parma, per sopperire ai soccorsi promessi ai francesi.

Inoltre il Duca di Guisa non volle proseguire la guerra in Abruzzo, anche per aver saputo qualche proposizione fatta da Filippo II per la pace col Papa, il quale era ingannato dal cardinale nipote e il re dal Duca D’Alba, e perciò si prolungava la guerra con immensi danni dei popoli e disastrose conseguenze.

Negò Paolo IV di dare al Duca di Guisa in sicurtà Perugia, Ancona e Civitavecchia, né di fare una promozione di cardinali a modo di Francia; soltanto offrì e fu spedito per ostaggio al re il figlio del Duca di Paliano.

Per questo contegno il Duca di Guisa lasciò il pensiero di ritirarsi, e nel maggio passò e si trattenne nell’Ascolano e in Macerata, onde Roma, che si era allarmata, si tranquillizzò.

Marcantonio Colonna intanto con 4000 fanti presidiava Anagni, Frosinone, Ferentino, Acuto, Montefortino (Artena), Terracina, Giuliano, Sonnino ed altri numerosi castelli, per negligenza dello Strozzi e del Duca di Paliano, che dopo l’impresa di Vicovaro avrebbero potuto riconquistare la Campagna, perché il Duca D’Alba era ala difesa d’Abruzzo. Non tardò peraltro a divenir la Campagna nuovo campo di desolante guerra, di rovina e di sangue, quando i pontefici con Giulio Orsini ne ripresero l’offensiva.

Montefortino per primo ne provò i miserabili effetti, in punizione del suo tradimento, poiché sebbene dopo difesa da Marcantonio Colonna, si die a discrezione: fu saccheggiata senza pietà e bruciata insieme alla chiesa ove si erano rifugiate donne e bambini, venendo spianata anche la rocca; arata la piazza il cardinale Caraffa vi fece seminare il sale al 13 maggio 1557.

Il Marocco, seguendo Alessandro D’Andrea, autore de: “Ragionamenti della guerra di Campagna di Roma narrò la totale desolazione di Montefortino e sua Rocca, ma troppo assolutamente e in tutto l’attribuì a Paolo IV, senza tenere presente la Storia del p. Carrara e altre scritte con imparzialità, e l’abuso che fecero del potere i nipoti del Pontefice; i quali nipoti appena da lui conosciuti, furono inesorabilmente cacciati e puniti, esiliandoli da Roma, relegando il cardinale Caraffa a Civita Lavinia.

Nell’assalto di Piglio fu molestato l’Orsini dal Colonna obbligato a ritirarsi, non senza perdite. Avendo il Colonna ricevuto rinforzi dal Duca D’Alba, deliberò nel giugno di non contenersi della Torre di Gavignano e di Valmontone saccheggiato e incendiato; indi passò in Palestrina e la pose a sacco, distrusse Colleferro, incendiò Anagni danneggiando il territorio di Paliano.

Nel concistoro del 14 giugno il Papa pregò i cardinali d’impegnarsi col consiglio e con l’opera per la pace, alla quale non era alieno Filippo II, inclinandosi ormai anche i Caraffa, onde fu scritto al re che mandasse autorità a chi gli piacesse per condurla, postochè il Duca D’Alba falsamente diceva di non averla. Gli spagnoli col Duca infestavano le frontiere della Marca, bruciando Acorano, ed avrebbero fatto maggiori progressi se Toraldo che difendeva Ascoli non l’avesse impedito, mentre il Duca di Guisa guardava il riposo.

Al 20 luglio finalmente, dicono gli storici, giunsero in Roma 3000 svizzeri, ricevuti come angeli dal Papa, onde creò 11 loro capitani cavalieri di S.S. Pietro e Paolo. Subito con vettovaglie, di cui aveva carestia Paliano, furono mandati nella Campagna col marchese di Montebello e Giulio Orsini, per liberare il paese dal Colonna. Pei nuovi aiuti da questi ricevuti dal Duca D’Alba, dai pontefici la vettovaglia fu rimandata a Roma, e l’artiglieria fu portata a Segni, per trovarsi liberi e pronti per combattere Colonna. Ebbe luogo una zuffa colla avanguardia, ma senza conseguenza; però al 27 luglio il Colonna poté trovarsi a fronte alle milizie papali, che si erano private dell’artiglieria e penuriando di polvere sciupata nelle scaramucce, e le sbaragliò completamente, ad onta degli sforzi di Domenico Massimi e di Giulio Orsini fatto prigioniero: gli svizzeri dopo aver opposto ostinata resistenza, furono uccisi e fugati e 700 fanti fatti prigionieri. Giunta in Roma la fatale novella, grande e universale fu la mestizia, come la costernazione per i tanti disastri e furori che si commettevano nell’infelice e disgraziata provincia di Campagna, e paventando il proprio eccidio.

Il solo Papa si mostrò impossibile, e rivolse il pensiero ad assoldare nuove genti, volendo ad ogni costo sostenere il decoro di sua dignità, contro di coloro che erano congiurati ad opprimerla: considerando egli i suoi nemici per ribelli, voleva una pace che fosse come concessa da sovrano benigno a vassalli umiliati. Per questo motivo nella festa di San Pietro non aveva voluto ricevere il censo delle due Sicilie, che il Viceré con apparente dimostrazione ossequioso gli aveva fatto offrire coi 7000 scudi d’oro, che pure nelle sue angustie sarebbero riusciti utili. Non volle ascoltare i consigli in contrario dei cardinali, ragionevolmente affermando che era ridicolo riconoscere per feudatario chi occupava le terre del suo sovrano, e qual ribelle lo guerreggiava!

Aveva Filippo II ordinato ai suoi sudditi in Roma di partire entro tre mesi, pena la confisca e l’esilio; ed il Papa pose le stesse pene ai cardinali, prelati e altri se dentro due mesi non ritornassero in Roma.

Pei nuovi ordini del re di Francia al Guisa, di dipendere dalla volontà del Papa, e per la disfatta dell’esercito ecclesiastico, il Duca celermente da Macerata, si recò a Tivoli, perciò il Duca D’Alba si recò da Giulianova a Sora. Marcantonio Colonna subito dopo la vittoria incaricò il Barone di Felz che coi suoi tedeschi s’impadronisse di Rocca Massima che inespugnabile per natura ottenne, per stratagemma, facendo credere agli abitanti che aveva trasportato l’artiglieria sul monte, quindi miseramente la saccheggiò.

Intanto Colonna si portò a Segni ove erano le artiglierie e le provvigioni del vinto esercito, e subito l’attaccò senza attendere Sforza e Corgnia, e gli spagnoli rapidamente l’assaltarono, certi di ricco bottino per le ricchezze che vi avevano depositato gli abitanti dei vicini luoghi, principalmente Anagni, Alatri, Veroli e Ferentino come fortissima per posizione.

Si era aperta qualche breccia, quando mancò al Colonna la polvere; nondimeno gli spagnoli, avidi di penetrarvi, al 15 agosto con impeto e nonostante il fuoco di tre pezzi d’artiglieria, di quella di 200 fanti e delle macchine artificiali dei coraggiosi difensori, penetrarono con alte grida e furiosamente, seguiti dai tedeschi, nella sventurata città, che divenne bersaglio del più feroce scempio e d’ogni iniquità. Trucidato la maggior parte del presidio, riempirono le vie di sangue, di cadaveri, di lacrime e di lamenti. Uccisi gli inermi cittadini, le donne, i fanciulli, la libidine più sfrenata, non rispettò nemmeno le sagre vergini.

"Violate le vergini, oltraggiate

  Le spose, inermi e vecchie come gregge

  Senza pietà sgozzati"

                          "La Pellegrina" F. Clementi

Generale fu il saccheggio, e le chiese, gli altari e le sagre reliquie profanate; tutto fu posto a ferro a fuoco. I 13 pezzi d’artiglieria furono condotti in Anagni; Giambattista Conti, signore del luogo fu mandato in prigione a Gaeta; il saccheggio di tutto fu peggiore di quello di Roma del 1527.

Commosso il Pontefice nel sentire a quali abominevoli estremi giungeva il furore de suoi ribelli, sparse molte lacrime, riferendo in concistoro questa strage, e soggiungendo che egli ormai intrepido si attendeva il martirio. A tanto disastro, per sopra più fu notificato al 23 agosto al Papa che i francesi erano statti vinti a S. Quintino con orribile sconfitta dagli spagnoli comandati da Emanuele Filiberto Duca di Savoia, onde per necessità Enrico II aveva chiamato il Duca di Guisa, lasciando Paolo IV in libertà di accordarsi a bene placido coi suoi nemici. Per questo complesso d’infausti avvenimenti la desolazione di Roma giunse al colmo, vedendo nell’eccidio di Segni un’immagine dolorosa del disastro che le sovrastava.

Il Papa esortato alla pace da Giovanni III re di Portogallo, inviò subito il cardinale Trivulsi a Venezia, per rappresentarle il pericolo non meno di Roma, che di tutta Italia esposta e quasi in balia dei vittoriosi spagnoli, disposto a tutto, purché vi fosse la dignità della Santa Sede.

Paolo IV per disporre il Duca D’Alba alla pace gli fece sapere a mezzo del cardinale Sforza la sconfitta dei francesi a S. Quintino che ignorava, e che era disposto alla concordia, a far partire tra dieci giorni i francesi dallo stato, e restare amico a Filippo II; purché il Duca in dieci giorni ritirasse dal regno tutte le sue truppe e restituisse alla Chiesa tutte le sue terre. Ma il Duca che trovasi a Bauco aveva ordinato alla fanteria e cavalleria di riunirsi a Marcantonio Colonna, e considerando tutti i suoi prosperi successi e il Duca di Ferrara costretto a difendersi da altri principi, si figurò come padrone dello stato ecclesiastico di Roma e del Papa, il perché si alterò con Placidi segretario del cardinale e portavoce di tali proposizioni.

Mostrò grave sdegno col cardinale Sforza, che amico e servitore di Filippo II, tentasse parole di pace e proponesse condizioni sì pregiudizievoli alla sua corona, mentre aveva in pugno la vittoria. Con altro tono rispose al segretario, che dicesse al cardinale e a chiunque, che il Duca D’Alba giammai avrebbe ascoltato trattative pacifiche, se Paolo IV non confessasse prima pubblicamente il suo errore d’essersi alleato coi nemici di Filippo II, di aver molestato i suoi dipendenti, e se non restituita loro la libertà, i beni e l’onore.

Licenziato il Placidi, subito mosse il campo per sorprendere senza indugio Roma. Riferite dal Placidi le proteste del Duca, rispose il Papa: “Preferire la morte a tanto oltraggio della maestà pontificia.

Al 26 agosto il Duca con Marcantonio Colonna marciò su Roma segretamente, con disegno di piombarvi nella notte, e per non far strepito, ordinò che si scalassero le mura presso Porta Maggiore, piuttosto che abbatterla colle artiglierie, calare pel Rione Monti, e piantare i cannoni contro Castel Sant’Angelo.

In Roma però si vegliava dalle genti d’arme, e il cardinale Caraffa sempre infaticabile la scorreva tutta a cavallo; la popolazione essendo immersa nel sonno mentre il nemico era alle mura. Gli esploratori vedendo la città illuminata e in armi, e poi altri avendola osservata in quiete, fece ingerire al Duca il sospetto d’agguato. Pertanto e per buona ventura di Roma retrocedette per la Colonna e Genazzano, rimettendo truppe intorno a Paliano che reggeva.

Molte dicerie spiegarono la ritirata, che fu biasimata dall’esercito anelante di sangue e di rapina. Temendo i Veneziani che Paolo IV consegnasse le fortezze ai francesi, e ingelositi dei progressi degli spagnoli, gli spedirono il segretario Franceschi, il quale passò subito dal Duca D’Alba, ove pure si recò Averando de Medici inviato da Cosimo I, cui premeva la pace pel conquisto di Siena.

Però trovarono, ambedue, duro il Duca ed ebbero dei suoi trionfi, benché Franceschi gli notificasse avere il re protestato alla repubblica dopo la vittoria di S. Quintino, non aspirare a ingrandimenti, ed essere pronto ad ordinare il ritiro dell’esercito e venire ad oneste condizioni col Papa.

Al parlare e gravi considerazioni de due messaggi, il Duca dopo aver sfogato il suo risentimento, fremendo per le disposizioni del re alla pace, disse che il timore e gli scrupoli mal si convenivano con la politica e la guerra; indi si arrese ed ammise in Palestrina un altro congresso di pace, avendo nuove facoltà regie del 26 luglio.

Ritornato in Roma Franceschi colla grata novella, e conferito con Paolo IV, questi autorizzò l’8 settembre il cardinale Caraffa alla pace, che partì lo stesso giorno alla volta di Cave, luogo stabilito per il Congresso, coi cardinali Sforza e Vitelli come plenipotenziari, mentre potevano dirsi i primi autori della guerra.

Fin qui è quanto ci narra il Moroni.

Il D’Andrea "Guerra di Campagna", ci narra che nel corso del frangente, mentre più viva ardeva la sete di sangue, dall’infimo soldato al capo condottiero dell’una e dell’altra parte, ansante la mischia fluttuava alla volta di Cave.

Giunti ormai al Campo, i due capitani ebbero a scontrarsi lungo l’olmata . Allora la via era adorna d’antichi olmi, colmi smisurati che fiancheggiavano la via e la toglievano agli ardori del sole estivo, rendendola ombreggiata.

Quivi, dopo il sostenuto contegno del Duca D’Alba pei discorsi del cardinale Caraffa e dei due colleghi mediatori, tutto improvviso, come avvolti in una nube ambo i visi dei due condottieri si trasfonde un’aria di pace. Oh, misero! L’un altro si porgono la mano in segno d’amicizia e cessano le ire. Si portarono a cave raggianti di gioia, e nella casa Leoncelli, ora Mattei principale del luogo, si convenne ai seguenti accordi:

  1. Che il Duca farebbe al Papa e alla Santa Sede atti di sottomissione e ubbidienza, convenienti per impetrare perdono e grazia; e che il re manderebbe un suo ministro al papa per loro stesso ufficio.

  2. Che il Papa riceverebbe Filippo II per suo buon figlio e della Santa Sede, ammettendolo alle grazie comuni agli altri principi cristiani.

  3. Che il Papa abbandonerebbe la lega di Francia promettendo d’essere padre comune e neutrale.

  4. Che il re restituirebbe al Papa e alla Santa Sede tutte le terre occupate, diroccandone le fortificazioni.

  5. Che scambievolmente si rendessero le artiglierie prese.

  6. Che si rimettessero a tutte le persone e comunità, anche ed ecclesiastiche, tutte le pene spirituali e temporali incorse nella guerra; dichiarandosi però che non fossero compresi in questo capitolo Marcantonio Colonna, né Ascanio della Corgnia, né il Conte di Bagno, né alcuni altri ribelli al Papa.

  7. Che Paliano fosse consegnato a Bernardino Carbone confidente d’ambo le parti, il quale a loro giurasse fedeltà, e si tenesse 800 fanti a spese comuni osservando le condizioni intorno a ciò stabilite dal cardinale Caraffa e il Duca D’Alba pel servizio dei loro principi.

Portate a Roma queste capitolazioni al 9 settembre da Antonio Elio vescovo di Pola, avanti che fossero sottoscritte dal Duca D’Alba, il Papa avendole considerate, convenendo per amor della pace, di lasciare qualche libertà a Filippo II di disporre su Paliano, senza però voler per questo favorirete i Colonna antichi suo padrone, e che voleva sottoposto a tutte le pene fulminategli per esempio dei sudditi pontifici, le approvò e le rimando indietro.

Ma il Duca D’Alba non sapendosi ridurre a sottoscriverle, se alcune altre cose favorevoli al re non si accordavano dal cardinale Caraffa: questi accondiscese segretamente ad un’altra scrittura, che poi gli fu imputata tra i delitti di morte, come fatta all’invasore dello zio Papa.

Essa conteneva questi capitoli:

  1. Che Paliano si mettesse un confidente d’ambedue le parti, o si smantellasse.

  2. Che stimandosi smantellarle non si potesse rifortificare da chi venisse ad averlo, finche Filippo II non desse una ricompensa di piena soddisfazione al presente Duca di Paliano.

  3. Che se intorno a tale ricompensa nascessero difficoltà, si dovessero rimettere alla Repubblica di Venezia, al cui giudizio le parti si rimettevano.

  4. Che accettata la ricompensa, Paliano cedesse quella piazza alla persona eletta dal re, purché non fosse nemica del Papa, né alla Santa Sede, né fosse ribelle.

  5. Che il re fosse obbligato dare questa ricompensa nel termine di sei mesi, il che non osservando, il confidente custode di Paliano dovesse smantellarne le fortificazioni e darlo all’odierno Duca.

  6. Che per maggiore conferma di queste cose, e per assicurare interamente al re di sua devozione, dovesse il cardinale Caraffa, entro quaranta giorni, andare a Brusselles a trovarlo.

Essendo necessario il consenso di Giovanni Caraffa Duca di Paliano, questi lo diede per accelerare la pace, secondo il convenuto dal fratello, e il cardinale Vitelli lo mandò e ottenne al 12 settembre. Tornato il quale a Cave, subito si sottoscrissero ambedue le capitolazioni dal cardinale Caraffa e dal Duca D’Alba al 14 settembre 1557: alla 1ª apponendovi le firme come testimoni i cardinali Sforza e Vitelli.

Se Cave sempre partigiana, dice il Presutti, e fedele dei suoi signori Colonna, prese una parte attiva in questa guerra disastrosa allo stato romano, la medesima cittadina, dopo un corso di centoventisette anni, divenne segnacolo di pace alle genti latine e poté cingerete la fronte del sacro olivo che riveste i suoi colli.

Il Petrini nelle Memorie Prenestine a pag. 236, scrisse che gli accordi seguirono nella Casa di Maniero Leoncelli, famiglia principale del luogo, perché allora apparteneva a lei, e dalla quale passò ai detti Mattei proprietari presentemente.

Il Castellano in memoria di questa pace riporta che fu fatta su di una parete della sala del convegno un’epigrafe così preparata, due mani stringenti in atto d’amicizia contornate di festoni di fiori dipinti e l’iscrizione seguente:

Anno domini 1557 die 7 septembris

Hie fuit contracta pax inter Philippum II

Hispaniarum regem

Cum. Paulo IV Pontefice Massimo

Per ducem Alvae et Calorum Carafa

Cardinalem

Ejusdem Pauli IV nepotem

Pro bello campaniae.  

Cave quindi il suo posto d’onore nella storia del Medioevo, appunto per questa pace che diede fine ad un conflitto tanto disastroso tra Filippo II re di Spagna e delle due Sicilie e Paolo IV.

Cave di questo vanto fu arricchita; ma fu privata di tale memoria, quando mano ignorante e moderna volle imbiancare le pareti coprendo la menzionata iscrizione.

A voi, giovani studiosi, che amate i ricordi di nostra gente, fatevi promotori per ripristinare, su quelle stesse pareti lo storico ricordo che dica ai posteri la qui firmata. Pax pro Bello Campaniae.

A Paolo IV, nello stesso giorno 14 settembre, appena le due parti ebbero sottoscritto le due capitolazioni fu data la lieta nuova dallo stesso cardinale Caraffa. L’allegrezza dei romani fu indicibile ed il Papa la pubblicò al 20 settembre in concistoro.