IN FUGA Intanto la paura di altri bombardamenti aveva convinto molte famiglie a trasferirsi nei paesi vicini, nei casali di campagna, presso parenti e amici. Chi era costretto a rimanere ad Orte Scalo per lavoro vi conduceva una vita da sopravvissuto, tra case diroccate e negozi chiusi. La spinta definitiva a lasciare lo Scalo fu il secondo bombardamento la sera del 4 novembre. Quelli che seguirono - 60 o 90 secondo le stime - furono pių che sufficienti a radere completamente al suolo la borgata. I fuggiaschi, non trovando pių posto nei paesi vicini avevano trovato rifugio in grotte, caverne, tane improvvisate e perfino in una galleria della disattivata ferrovia Orte-Civitavecchia. Con carri e binari all'aria, distrutto il ponte sul Tevere, i treni smisero di passare e sul mare di macerie adesso incombeva un silenzio di morte. Uniche voci, quelle dei tedeschi impegnati a far lavorare gli operai italiani reclutati a forza, nell'inutile tentativo di riattare la linea ferroviaria. Nella strada tutte buche e voragini le macerie erano state sgomberate per permettere il passaggio agli autocarri tedeschi e ne approfittavano i rari viandanti, tra cui profughi di passaggio che vi sostavano con le facce della fame e della paura, e specialmente una tonaca francescana, divenuta abituale. Era Padre Geremia, che dopo ogni bombardamento scendeva a piedi dal convento di S. Bernardino per vedere se l'amata chiesa era ancora in piedi. Lo era e tale rimase dopo gl'innumerevoli bombardamenti: ferita, lesionata, la scalinata in pezzi, le vetrate in frantumi e piena di calcinacci, ma viva! Smagrito e non pių giovane, P. Geremia divideva il suo tempo battendo paesi vicini e soprattutto campagne alla ricerca del suo sparso gregge: per incoraggiarlo, confortarlo, e potendo all'occorrenza aiutarlo; e per dare rassicuranti notizie della chiesa: č ancora in piedi, Dio vuole conservarcela.
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