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Insicurezza
globale Sessantacinque anni, docente di filosofia e sociologia del diritto all'Università di Firenze, Danilo Zolo riflette e scrive da anni sull'evoluzione del diritto e delle istituzioni internazionali alla luce delle vicende geo-politiche degli ultimi decenni. Le tesi sostenute nei suoi ultimi libri (Cosmopolis del 1995 e Chi dice umanità, pubblicato da Einaudi l'anno scorso) potrebbero essere iscritte al girone del realismo pessimistico e risultare in contrasto con lo stesso cammino che faticosamente il popolo della pace percorre, come testimoniato sulle pagine di questo giornale. Tuttavia esse non mancano di rigore scientifico e assumono per tutti il carattere di provocazione. Una settimana prima dell'entrata in guerra dell'Italia, gli abbiamo rivolto alcune domande. Nel suo libro di qualche anno fa Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, lei scrisse che "le Nazioni Unite non sono riformabili". Conferma questo giudizio? L'esperienza dell'ultimo decennio lo conferma, perché le Nazioni Unite sono state di fatto emarginate dalla superpotenza statunitense, sostituite nelle loro funzioni principali dalla Nato e addirittura, per quanto riguarda il caso del Kossovo, gli Stati Uniti si sono comportati violando apertamente la Carta delle Nazioni Unite. Essi ritengono che il potere di veto accordato anche a potenze come la Russia e la Cina faccia del Consiglio di Sicurezza un organo eccessivamente democratico, e non è concepibile che gli Stati Uniti si subordinino al potere di veto. E ogni proposta di riforma è clamorosamente fallita, quindi devo purtroppo confermare la mia valutazione di qualche anno fa. Ma la stessa cosa l'ha detta recentemente Rutelli su "Repubblica" quando ha accusato i pacifisti di volersi inutilmente appellare alle Nazioni Unite… Rutelli dice quello che vuole e può anche sbagliarsi... Il punto è che rispetto alla Nato, in condizioni di emergenza argomentativa, io stesso faccio riferimento alla Carta delle Nazioni Unite come a qualcosa di normativamente preferibile rispetto alla guerra aperta, perché non c'è dubbio che essa contiene alcuni elementi di pacifismo istituzionale sicuramente preferibili all'arbitrio bellico. Purtroppo però le parti più rilevanti di quel documento sono di fatto ormai desuete: tutto il capitolo VII, che riguarda la direzione degli interventi di polizia internazionale sotto il controllo del Consiglio di Sicurezza, non sono mai state applicate. I pacifisti, e in parte anche gli anti-global, credono che il ricorso a un'autorità internazionale sia la strada per impedire agli stati di farsi giustizia da sé. Lei, invece, sempre nel suo libro Cosmopolis, auspicava il diffondersi di strutture "regionali" con compiti di arbitrato piuttosto che di governo. Ne è ancora convinto? L'arbitrato è importantissimo, però ricordo di aver sottolineato l'importanza di interventi di diplomazia preventiva, specificando quali potevano essere gli strumenti e le modalità d'intervento di un "pacifismo debole". Comunque io non sostengo che le istituzioni internazionali debbano limitarsi semplicemente a funzioni diplomatiche o di arbitrato, anche se queste sono importantissime. Parlavo appunto di diplomazia preventiva per interventi in tutti i punti del pianeta in cui emerga la conflittualità legata a varie ragioni e, dal mio punto di vista, la guerra scoppia non all'improvviso e senza ragioni, ma perché si sono accumulate energie conflittuali, in molti casi anche da secoli. Quindi parlavo di monitoraggio preventivo dei punti di potenziale conflitto. E comunque, sostengo chiaramente il "no" alla guerra da parte delle istituzioni internazionali, perché queste istituzioni non possono mai autorizzare la guerra, il che vale anche per le recenti vicende: la guerra, infatti, nega il diritto. Come vede il progetto di un Tribunale Internazionale che non sia una fotocopia dell'esperienza avuta con il Rwanda e la ex-Jugoslavia che nel suo libro ha fortemente criticato? Credo che l'esperienza dei "tribunali speciali" ad hoc sia stata pessima, come ho argomentato ampiamente nel mio libro. C'è un capitolo che dimostra come il Tribunale dell'Aja non sia neppure propriamente un organismo giudiziario, ma un prolungamento dell'amministrazione statunitense. La Corte Penale Internazionale sarebbe sicuramente un passo avanti, e tuttavia il suo progetto nasce con due limiti gravissimi: il primo è che può essere finanziato da qualsiasi soggetto internazionale pubblico e privato; il secondo è che il Consiglio di Sicurezza può in qualsiasi momento bloccare l'iniziativa della Procura di questo Tribunale. Nasce dunque con contaminazioni pesantissime. Ma ancora una volta il vero problema è l'autonomia di questo tribunale, perché esso deve sì essere finanziato ma soprattutto deve disporre di una polizia giudiziaria che operi alle sue dipendenze in modo autonomo: questo è un problema immenso, perché si tratta di far valere le sue sentenze e pronunce anche contro le grandi potenze, mentre finora l'ipotesi è stata che siano le superpotenze ad essere lo strumento esecutivo del tribunale. Nella situazione in cui viviamo di squilibrio crescente fra il potere di alcune potenze occidentali e l'impotenza di gran parte degli stati del mondo, una Corte internazionale fatalmente è poco autonoma. Da ultimo, si dovrebbe ammettere che la Corte operi sulla base di un codice penale universale e questo lo ritengo pericolosissimo, perché negherebbe le differenze delle tradizioni normative delle varie civiltà. Nel Rapporto del Segretario Generale dell'Onu in occasione del Summit del Millennio dell'anno scorso, si legge: "Dobbiamo affrontare un vero dilemma. Pochi tra voi non saranno d'accordo sul fatto che tanto la difesa dell'umanità, quanto la difesa della sovranità nazionale rappresentino dei principi che debbono essere difesi. Purtroppo, questa constatazione non ci dice quale principio debba avere la meglio quando essi sono in conflitto." Come uscire dal dilemma? Il titolo del mio libro l'ho tratto da una massima di Prodhon "chi dice umanità cerca d'ingannarti". Quando una grande potenza dichiara, come hanno fatto gli Stati Uniti, che muove guerra in nome dell'umanità, è sempre un inganno, perché nessuna potenza fa una guerra senza mirare a particolaristiche aspettative, anche legittime, e interessi ritenuti vitali. Il riferimento all'umanità è solo un riferimento ideologico per offrire un'apparenza universalistica a interessi particolari. Ritengo tuttavia interessante interrogarsi sulla capacità di un organismo come le Nazioni Unite di difendere in modo universalistico valori quali i diritti fondamentali degli uomini: io sostengo che le Nazioni Unite, e la sua Carta, siano fondate sul principio della sovranità degli Stati: sono infatti gli Stati, e non i popoli, ad essere rappresentati, non i cittadini, ma i governi. Se si aggiunge il diritto di veto delle grandi potenze, quell'organismo manca assolutamente delle premesse universalistiche perché si possa occupare in modo imparziale della tutela dei diritti dell'uomo. Secondo il ragionamento contenuto nel suo libro, il recente intervento della Nato in Macedonia, con la conseguente raccolta organizzata di armi, può essere considerato la continuazione, sotto altre forme, della "guerra umanitaria" del marzo '99? In realtà quello della Nato in Macedonia è un episodio banale e ridicolizzato perfino da Rugova, ma è un tentativo di espandere ulteriormente l'egemonia politico-militare che gli Stati Uniti e la Nato si sono assicurati in quell'area. È chiaramente un'espansione, seppur modesta, di tipo coloniale: non dimentichiamo Camp Bondsteel, l'immenso campo militare che gli Stati Uniti hanno costruito in Kossovo, e neppure l'egemonia economica della Germania. Come in Kossovo, anche in Macedonia prevale la logica di soffocare il conflitto senza risolverlo. Come giudica il comportamento della "sinistra" italiana in questo momento, combattuta tra la voglia d'interventismo a tutti i costi del Governo e il richiamo ai valori della pace e del rifiuto dell'intervento armato? Quanto pesa, in questo comportamento, l'esperienza della guerra nel Kossovo, cui ha partecipato anche l'Italia di D'Alema? Nel mio libro ho descritto in maniera negativa la posizione della sinistra di fronte alla guerra in Kossovo, mettendo in evidenza il cinismo provinciale di D'Alema e la sua smania di presentarsi come l'amico degli Stati Uniti, il suo eterno alleato, di esibire l'amicizia del presidente Clinton: basta leggere certe pagine del libro-intervista di D'Alema. E ciò ha pesato moltissimo sull'atteggiamento della sinistra: si pensi alla recente votazione bipartisan sulla guerra in Afghanistan. A suo avviso, D'Alema poteva smarcarsi in questa occasione oppure era inevitabile che facesse il bis rispetto al Kossovo? Era inevitabile: quando interviene su questi argomenti rivendica sempre l'esemplarità del suo comportamento durante il suo governo. Il suo cinismo, poi, lo spinge ad esempio ad andare ad Assisi, sia quest'anno sia nel 1999. Ricordo che andò ad Assisi e dopo 3 giorni ci fu la presentazione del suo libro con la presenza del generale Clark in persona. E la sua presenza ad Assisi è una stata una deformazione, una violazione di un senso minimo di quella marcia, che poi è risultata per i politici una specie di scampagnata bipartisan. Anche Rutelli, però, si fregia della sua obiezione di coscienza di qualche anno fa e del suo antimilitarismo, pur votando a favore della guerra in Afghanistan. Rutelli non è meno colpevole di D'Alema, nel rincorrere il centro-destra su questi argomenti relativi alle questioni internazionali. Nel suo libro Chi dice umanità ha definito inconsistente, a proposito del Kossovo, il pacifismo dei cattolici. Vuole spiegare meglio questa sua critica? Io non ho nulla contro i cattolici e ho una grande simpatia per i cristiani, tuttavia il papa stesso sembra pacifista ma poi benedice ex post gli interventi militari. Ricordo il "giubileo dei militari" e la legittimazione della guerra umanitaria. Quando poi, come hanno fatto le gerarchie episcopali, si dichiara apertamente che la pulizia etnica è un peccato molto più grave dell'uccisione di innocenti come effetto secondario di atti militari… Tuttavia, ci sono nel mondo cattolico-cristiano forze molto vive e le vocazioni autentiche al pacifismo nascono in humus cristiano, anche se in questo momento mancano personalità cattoliche o cristiane di rilievo. Di contro, la presenza di cristiani e cattolici nel "popolo di Seattle" che è una componente sicuramente importante e apprezzabile. Nel suo libro scrive che la Nato ha subìto nell'ultimo decennio un'evoluzione che l'ha trasformata in un "regime egemonico sovranazionale". È uno scenario irreversibile? La Nato è orientata ormai in modo irreversibile nelle sue funzioni non difensive ma proiettive: questo è secondo me del tutto irreversibile. In che misura poi verrà utilizzata dagli Stati Uniti, questo dipenderà dalle circostanze. Dopo la tragedia mostruosa dell'11 settembre era sembrato che l'amministrazione Bush fosse orientata a una sorta di federalismo egemonico associando l'intera Nato alla guerra contro il terrorismo. E al tempo stesso si è visto che improvvisamente Bush decide di versare alle Nazioni Unite una porzione dell'immenso debito che hanno nei loro confronti: questa è un'altra operazione strategica, perché s'intende e si è ottenuto utilizzare l'ombrello giustificativo della Nato e si è capito subito che Russia e Cina non potevano non schierarsi contro il terrorismo per ragioni geo-politiche ben precise. Ma poi è riemersa la vocazione unilateralistica degli Stati Uniti, con la guerra fatta solo dagli Stati Uniti con un'appendice inglese. In molti dicono "non sarà più come una volta, il mondo è cambiato l'11 settembre". Secondo lei è vero? Per qualche verso è cambiato: penso che siamo tutti meno sicuri. Parlo ovviamente del mondo occidentale, perché l'Africa o molti paesi latino-americani e asiatici vivono tutto questo con intensità ridottissima. Insicurezza, paura, pessimismo, ecc. certamente sono cresciuti e non sono destinati a estinguersi. Quindi le tendenze già presenti e denunciate della "solitudine del cittadino globale" e le conseguenze su una politica a garanzia della sicurezza sono destinate a crescere. Non è cambiata invece la strategia degli Stati Uniti. Ho letto alcuni documenti recenti del Dipartimento della Difesa, in cui gli Stati Uniti si mostravano perfettamente consapevoli dei pericoli del global terrorism : non c'è nulla di nuovo. Quello che ha sorpreso è stato il grande successo mediatico che ha avuto l'attentato, studiato con genialità diabolica per avere successo sui media. Il fenomeno del kamikaze di massa non era previsto, così come la possibilità di vincere con strumenti tecnici molto deboli, ma che ci fosse un grandissimo pericolo era previsto e infatti si pensava di rimediarvi con lo scudo spaziale che invece è stato perforato... con un temperino. Tutta l'operazione Afghanistan è un'operazione chiaramente coloniale (il trasferimento di grandi quantità di potenziale bellico nell'isola Diego Garcìa nell'Oceano Indiano era avvenuta dieci giorni prima dell'11 settembre!) che porterà sicuramente gli Stati Uniti e l'Inghilterra a occupare militarmente l'area centro-asiatica e quindi a un'espansione della strategia egemonica statunitense, però in un contesto di crescente insicurezza, ma è lì che si giocano i destini dell'ordine mondiale nei prossimi dieci anni. Forse l'unico risvolto positivo di tutta questa vicenda è l'impegno degli Stati Uniti nel riconoscimento del diritto del popolo palestinese ad avere un proprio stato, ma gli Stati Uniti dovranno comunque fare i conti con la potente comunità ebraica statunitense e col fanatismo della destra israeliana. E comunque questo resta lo scandalo del nostro tempo. Si ringrazia per la disponibilità la redazione di MOSAICO DI PACE, Rivista mensile promossa da PAX CHRISTI. |
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