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AWMR Italia - Associazione Donne della Regione Mediterranea

AWMR - 6a Conferenza Internazionale
Educazione per la pace
Malta 25-29 giugno 1997

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Si è tenuta a Malta, dal 25 al 29 giugno 1997, la sesta conferenza annuale delle Donne della Regione Mediterranea, che aveva per tema "Educazione per la pace":
la conferenza si è articolata in sessioni plenarie in cui la discussione fra le partecipanti - donne provenienti dai diversi paesi mediterranei che hanno scelto come campo d'interesse e d'azione politica la pacifica risoluzione dei conflitti - è stata incentrata sui diversi aspetti del tema ( "Definizioni di pace nel contesto di diritti umani, giustizia, uguaglianza e democrazia"; "Situazione nel Mediterraneo e passi fatti e da fare in direzione della pace e dell'educazione alla pace" ) e in workshops in cui si è parlato di educazione per la pace in rapporto alla scuola, ai media, alla scienza, alla salute, alla discriminazione di genere, al sessismo e al razzismo; di fondamentalismo islamico ed emancipazione delle donne; delle politiche di pace delle donne.

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Tessere la pace nel mediterraneo
di Ada Donno

  • Benvenute nel cuore di Malta e del Mediterraneo - dice Yana Mintoff aprendo i lavori della sesta conferenza annuale dell'Awmr su "Educazione per la pace" - per affrontare il cuore della questione:
    come costruire la pace nella nostra regione e nel mondo. E per discutere, tra l'altro, di come l'ingiustizia, l'ineguaglianza e lo sfruttamento siano radicati nella violenza. E per capire come la violenza si perpetui, e come possiamo noi spezzare il ciclo della violenza tra le nazioni e dentro le nostre società, con lo sguardo sia alla violenza domestica che a quella istituzionalizzata.

    Per questa sesta conferenza delle Donne della Regione Mediterranea ci siamo date appuntamento a Balzan, Malta, dal 25 al 29 giugno 1997. Circa 70 donne da quindici paesi, per discutere di "educazione per la pace", esaminare il rapporto fra genere e guerra, cercare di disegnare il possibile ruolo delle donne nei processi di costruzione della pace, nella situazione concreta della regione mediterranea.

    Sono state approfondite questioni come "Definizioni di pace nel contesto dei diritti umani, giustizia, uguaglianza e democrazia"; nei workshops si è parlato di politiche di pace delle donne e ruolo delle donne nella risoluzione pacifica dei conflitti, discriminazione di genere e sessismo, integralismo e matrimoni misti, rischi per la salute, educazione per la pace nelle scuole, nei media e nella scienza.

    Si è cercato di fare il punto su "ciò che è stato fatto, si sta facendo e si può fare per creare le condizioni di un reale cambiamento" mettendo in agenda la "situazione del Mediterraneo e passi fatti e da fare in direzione della pace e dell'educazione per la pace", con aggiornamenti sulle attuali situazioni "calde": Palestina ed Israele, Cipro, Albania, ex-Jugoslavia, Algeria.

    Di nuovo Malta.
    E' significativa la scelta del luogo, la piccola isola bianca nel cuore del Mediterraneo che ha una sua storia d'impegno per la pace, non solo perché nella sua costituzione è scritto che "Malta è uno stato neutrale, che attivamente persegue la pace, la sicurezza ed il progresso sociale tra tutte le nazioni aderendo ad una politica di non allineamento a rifiutando di partecipare al alcuna alleanza militare...", ma soprattutto perché nella sua condizione di neutralità contribuisce effettivamente ai processi di pace nella regione mediterranea. Come ricorda Anna Spiteri Debono, da pochi mesi presidente del Parlamento, nel suo saluto alla Conferenza, in questo momento Malta sta giocando l'importante ruolo di promotrice del dialogo nell'area e della cooperazione Euro-Med.

    Donne come costruttrici di pace

    "Educazione per la pace" come ? Come filosofia, metodo, contenuto, prodotto? O piuttosto come il "giusto investimento" per la crescita economica e lo sviluppo?
    Educazione per la pace da raggiungere attraveso l'istituzionalizzazione della pace stessa a tutti i livelli educativi, come suggerisce il prof.James Calleja, "esperto" ospite della conferenza, con una visione così tipicamente pragmatica del problema?

    Ci piace di più, forse, "educazione per la pace" come scelta di andare alla radice dei problemi - dopo esserci misurate anno dopo anno con l'ineguale distribuzione dei diritti, con le ingiustizie, la malasanità, il militarismo e le terribili sofferenze - e innestare la nostra rabbia e la voglia di solidarietà in una "positiva visione di pace nel Mediterraneo".

    E' ormai qualche decennio che in consessi internazionali si riconosce il "contributo speciale" che le donne possono dare alla costruzione della pace. Sembrano così lontani i tempi in cui - ci ricorda Evgenia Kiranova - alla Conferenza mondiale di Nairobi convocata sulle parole d'ordine dell'uguaglianza, dello sviluppo e della pace, la delegazione ufficiale degli Stati Uniti guidata dalla figlia di Reagan invitava le donne a "concentrarsi sui problmei specifici delle donne" e la Fondazione americana "Heritage" proclamava che parlare di pace era una "politicizzazione pericolosa del discorso".
    Mentre centinaia di donne venute dagli Stati Uniti per partecipare al Forum mondiale rigettavano questa pretesa e sottoscrivevano una petizione che invece chiedeva proprio la fine della corsa agli armamenti e delle ricerche sulle "guerre stellari".

    Dieci anni dopo, a Pechino nel '95, il Forum mondiale delle donne ha sottolineato il ruolo che le donne possono svolgere nella trasformazione della cultura di guerra oggi dominante in cultura di pace.
    Poiché una cultura di pace non può essere imposta, ma deve emanare dalla società stessa, chi meglio delle donne, il cui ruolo è da sempre quello di trasmettere i valori della società, può assumere questa evoluzione?

    A Pechino si è insistito molto sull'educazione alla prevenzione ed alla pacifica risoluzione dei conflitti e sull'empowerment delle donne in questo campo. Le donne, che coltivano da millenni la virtù della negoziazione, possono avere un ruolo privilegiato nella risoluzione dei conflitti - si è detto - e si deve incoraggiarle a giocare la parte più piena possibile in tutti le fasi della realizzazione dei processi di pace.

    E' senso comune infatti la speciale propensione femminile a gestire il conflitto e a risolverlo produttivamente. Il conflitto in sé non è negativo e non è necessariamente distruttivo, ma spesso è una giustificazione della violenza e noi possiamo intervenire come mediatrici fra le parti in conflitto.

    Ma che cosa significa questo? Che ci si chiede di diventare delle operatrici di pace specializzate e di personificare l'istituzionalizzazione della pace, anche a prescindere dalla natura ed i contenuti dei conflitti? Non possiamo accontentarci di questo.

    Sono certamente fondamentali le metodologie "differenti" ma dobbiamo saper analizzare la natura ed i contenuti dei conflitti. Per esempio, le cause economiche dei conflitti sono le più profondamente radicate. Sono un'importante dimensione in tutte le guerre odierne, aperte o sotterranee. Questo non è sempre ammesso poiché è più comodo per i potenti enfatizzare altre cause, etniche o religiose che siano.

    Non possiamo non vedere che i conflitti sociali stanno diventando sempre più acuti in conseguenza delle politiche di esclusione e sfruttamento in Europa e che aumenta il gap tra paesi ricchi e poveri.

    Mentre il mondo entra nell'era della realtà virtuale, dell'economia di carta e della comunicazione telematica - ci chiede Myassar AL-Hasan che da lunghi anni lavora con strenua dedizione in un campo di profughi nel Libano meridionale - vale la pena di ricordare che si sta approfondendo l'abisso tra la parte sviluppata ed una quota crescente di popolazione del pianeta? Se non stiamo attenti, questa disparità mostruosa diventerà causa delle guerre di domani.

    "Globalizzazione" non è solo uno slogan che ha acquistato larga diffusione nell' accademia e nel mondo degli affari.
    Noi abbiamo bisogno di capire che cos'è e qual è il suo impatto sulle nostre vite.
    Chi ne trae profitto? Certamente non le donne che lavorano, colpite massicciamente dai licenziamenti e dalle "flessibilità".
    E neppure le economie dei paesi in via di sviluppo, costretti ad aprire agli investimenti altrui lo sfruttamento delle loro risorse naturali.

    Come stare dentro i processi globali senza esserne fagocitate? come evitare di essere usate da coloro che "controllano" la globalità come ammortizzatori dei conflitti che nascono da interessi contrapposti, a vantaggio della parte più forte?
    Sento tutte queste come domande stringenti per noi.

    Consideriamo che la prevenzione e la risoluzione pacifica dei conflitti sono ormai puntualmente messe a tema in tutti i consessi internazionali, non solo di ONG e di movimenti per la pace e la cooperazione, ma anche in quelli intergovernativi e perfino - in tempi di "nuovo ordine mondiale - delle alleanze militari.
    Peace making e peace keeping sono ormai le parole chiave delle operazioni militari, sotto egida Onu o no.

    Ma quanti inganni sono stati perpetrati in nome della pace!
    Il cosiddetto "processo di pace" in Israele e Palestina - dice l'israeliana Roni Ben Efrat - si è rivelato un insulto per milioni di Palestinesi.
    Gli accordi di Oslo sono diventati una trappola mortale per i palestinesi privati della possibilità di esercitare una effettiva sovranità e la nuova "entità palestinese" si sta paurosamennte trasformando in uno stato di polizia.

    L'operazione Restore Hope della cosiddetta forza di pace delle Nazioni Unite in Somalia non ha portato pace ma torture e ferite insanabili.
    Il piano di pace nell'ex Jugoslavia è stato il pretesto per provocare altra guerra.
    Quanto alla missione multinazionale "Alba" guidata dall'Italia, dietro la foglia di fico dell'"aiuto umanitario" nasconde l'obiettivo di rinforzare il fronte sud-est della fortezza Europa e di allenare le truppe alla "proiezione di potenza" in aree sempre più estese a supporto di interessi neo-coloniali.

    Sulla divisione di Cipro si espande la potenza militare turca sostenuta da milioni di dollari e coronata da un cosiddetto "accordo di cooperazione difensiva" turco-israeliano che comprende l'area occupata di Cipro settentrionale, una diretta minaccia alla pace nel Mediterraneo ed apertura di un altro fronte contro il mondo arabo.

    E così via.

    Che fare? Far da mediatrici sia pure efficienti nei conflitti già esplosi non ci basta e non aiuta a far valere un altro concetto di sicurezza basato sull'autodeterminazione e l'indipendenza dello sviluppo e la smilitarizzazione delle economie.

    Cambiare la situazione attuale è una sfida incalzante che non lascia respiro, ma noi abbiamo solo frammenti di risposte.

    Disarmare il patriarcato

    Educazione per la pace, allora, per allargare i nostri campi di competenza, per imparare a rispondere alle questioni pressanti dello sviluppo di economie alternative al mercato globale che domina e distrugge; per essere "pronte a fronteggiare la situazione con argomenti forti - come dice la nostra Maroulla Vassiliou - e per stare nella contrattazione con una corretta valutazione dei compromessi ultimi che possiamo concedere e delle questioni di principio sulle quali assolutamente non possiamo cedere".

    "Disarmare il patriarcato" è una parola d'ordine ambiziosa delle donne pacifiste che forse meglio riassume il senso di una risposta.
    Il patriarcato, sotto le moderne forme del dominio del mercato globale, produce e riproduce le discriminazioni di genere e le guerre:
    per questo non si può cercare l'empowerment integrandosi nelle sue gerarchie e nei suoi eserciti, ancora prigioniere, consapevoli o no, delle sue culture.

    E' stata una bella conferenza pacifica.
    Non ci sono state tensioni tra noi e questo è un buon segno. Ma non so dire se è sempre un buon segno.
    Qualche volta son presa dal dubbio che ciò accade finché navighiamo nel vago. Qualche altra volta, quando i conflitti esplodenti hanno preso forme di crisi - Gerusalemme, la missione Alba, la Bosnia, per fare solo qualche esempio - direttamente coinvolgenti, siamo state attraversate da tensioni acute e qualcuna è stata presa dalla tentazione di cercare altre acque, altri approdi.
    Penso che dobbiamo rafforzare le nostre reti mediterranee.
    Penso che "Mediterraneo" e "Sud" siano una dimensione importante delle nostre vite.
    E mi rattrista vedere le amiche albanesi smaniose di fuggire dal loro Sud per entrare nella "grande famiglia europea occidentale". Come mi rattristano le ambiziose "cooperatrici europee" professionalizzate ed efficienti, che arrivano come emissarie del Nord nei luoghi del Sud e pensano di risolvere i problemi scavalcandoli.

    Molte domande enormi si pongono e tanti frammenti di risposte aspettano di essere saldati. Guardando verso la nostra settima conferenza come un'altra occasione preziosa di crescita.

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    Risoluzione sull'intervento della Missione militare multinazionale in Albania, proposta dalle rappresentanti italiane ed approvata dalla sesta Conferenza dell'Associazione delle donne della Regione Mediterranea su "Educazione per la pace"

    Da quando la Missione militare multinazionale guidata dall'Italia è sbarcata in Albania, circa tre mesi fa, abbiamo visto concretizzarsi i nostri timori che, contravvenendo ai dichiarati scopi "umanitari", le truppe inviate assumessero invece un ruolo di "polizia internazionale", da nessuno attribuitogli, finalizzato in realtà a bloccare l'immigrazione in Europa e ad interferire pesantemente nella situazione politica locale a sostegno del discreditato presidente Berisha, profondamente odiato dal popolo albanese che è insorto contro di lui.

    Temiamo che (come è già accaduto in Somalia nel 1993) l'"aiuto umanitario" sia una foglia di fico, ben presto caduta. Ai nostri occhi di donne che operano per la pace, l'uguaglianza e la giustizia, questa missione appare piuttosto come un ulteriore passo compiuto dall'Italia in direzione dell'addestramento e formazione di forze armate specializzate nella "proiezione di forza" in un'area di influenza sempre più estesa, a difesa di interessi espansionistici e neo-colonialistici delle potenze occidentali in Africa, Medio Oriente e nella Regione Mediterranea.

    Di questo siamo seriamente preoccupate e decisamente rifiutiamo questa prospettiva.

    Noi pensiamo che una missione autenticamente umanitaria debba avere precise caratteristiche imprescindibili:

    • essere effettivamente guidata e compiuta dalle Nazioni Unite;
    • essere finalizzata a recare alle popolazioni dei paesi interessati reale aiuto e imparziale sostegno ai processi democratici e di ripristino dei diritti umani, senza interferenze con la situazione politica locale;
    • essere a termine breve e prestabilito.

    Come donne delle diverse sponde della Regione Mediterranea noi vogliamo continuare a costruire con le donne albanesi, e con la popolazione albanese in generale, relazioni di autentica amicizia basate sui principi e la pratica dell'autodeterminazione, solidarietà, cooperazione e reciproco vantaggio, per un reale cambiamento di prospettiva nelle relazioni fra i nostri popoli e paesi.

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