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In quella
regione dei Balcani è in gioco non solo
il destino di molti
esseri umani, ma le basi
della civiltà stessa
Dal secolo scorso, da quando la regione balcanica si
è affrancata dal dominio turco, questa parte d’Europa ha conosciuto una
situazione di instabilità e di guerra continua. I Balcani, a differenza
dell’Europa Occidentale, non presenta linee di demarcazione fra i diversi
gruppi linguistici ben definite, e tracciare confini politici precisi è
un’impresa quasi irrealizzabile. A ciò si aggiunge il contrasto culturale fra
la parte nord della ex Jugoslavia, Croazia e Slovenia, che ha conosciuto
l’influenza asburgica, e quindi una maggiore educazione alla legalità, e la
parte meridionale più povera e più abituata alla idea di costrizione politica. La
parte dei Balcani che ha conosciuto l’autoritarismo della chiesa ortodossa e la
dominazione turca infatti, trova incomprensibile certi concetti che da noi sono
molto radicati. La convivenza civile fra popolazioni diverse, come avviene in
Belgio o in Svizzera, è molto lontana dalla loro mentalità.
La Jugoslavia sotto Tito nell’immediato dopoguerra,
portò avanti una politica estera nei confronti dei paesi vicini particolarmente
ambiziosa. Rivendicò Trieste e la Venezia Giulia, la Carinzia meridionale
austriaca, la stessa Albania, e tentò di creare una federazione con la vicina
Bulgaria che costituiva una quasi annessione. Il progetto venne presto
accantonato a seguito del contrasto nel 1948 con Stalin, che fece temere per il
futuro della nazione jugoslava, giudicata dissidente. Nei decenni successivi la
situazione sembrava reggere, ma nel 1989, nove anni dopo la morte di Tito,
proprio nel Kossovo si ebbero i primi segnali della dissoluzione del paese.
Venne proclamato lo stato d’emergenza, inviato l’esercito contro i minatori in
sciopero, e revocato lo stato d’autonomia della provincia. Da allora la
popolazione albanese ha subito discriminazioni e vessazioni di ogni tipo.
Alcuni mesi dopo questi fatti Slovenia e Croazia, attraverso un referendum, a
larga maggioranza decisero di abbandonare la federazione. Le due repubbliche
ribelli accettarono di trattare l’uscita dalla federazione, ma la Serbia
rispose impedendo che la Presidenza passasse al rappresentante croato, come
previsto dalla costituzione. Nel settembre del ’91 anche la Macedonia decise di
staccarsi dalla Jugoslavia, e nello stesso mese l’esercito, costituito in larga
parte da serbi, attaccò la Slovenia, da dove fu costretto a ritirarsi in breve
tempo, e la Croazia. In Croazia la guerra durò sei mesi e provocò 10.000 morti
e mezzo milione di rifugiati. La speranza che il conflitto fosse terminato non
durò a lungo, nel maggio dell’anno successivo si accese la guerra in Bosnia,
dove il 44% della popolazione è mussulmana, il 31% serba ortodossa, e il 17% croata.
Il conflitto durò due anni provocando 200.000 morti, e quasi due milioni di
profughi, in un paese di 4 milioni e mezzo di abitanti. La guerra in questo
paese provocò un orrore incredibile: le milizie serbe diedero l’avvio alla
cosiddetta “pulizia etnica”, massacri e stupri contro la popolazione civile che
fu costretta a fuggire sotto l’occhio impotente delle truppe dell’ONU.
Negli anni successivi la situazione
sembrò migliorare nel nord, dove si ebbe una ripresa dell’economia, ma la
situazione rimase grave nel sud dove si ebbero numerosi scontri fra i kosovari
di etnia albanese, che costituiscono il 90% della popolazione, e i serbi nella
ex provincia autonoma del Kosovo. Inoltre si è avuta una situazione di tensione
in Macedonia dove vivono forti minoranze albanesi, serbe e turche, e in
Montenegro, paese anch’esso composito, che tenta di uscire dalla federazione
con la Serbia.
La guerra
nel Kossovo ha prodotto nei nostri paesi una grande ondata di pacifismo. Tale
movimento riteneva dovessero essere posti sullo stesso piano aggressori,
vittime e chi ha agito per la difesa di questi ultimi. La pace nei Balcani non
si costruisce sulla paura e la rassegnazione, ma sulla giustizia. Per questo si
può affermare che nei Balcani non è in gioco solo la vita di alcuni gruppi etnici, ma il futuro dell’organizzazione
della comunità internazionale. Se si accetta il principio che le aggressioni
non debbano essere fermate, ogni tentativo di costruire una società diversa non
npn potrà che risultare più difficile
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