Pio XII home la rivoluzione culturale cinese
Storia
della bistecca alla fiorentina
Gli attuali
problemi con il consumo di carne ci consentono di fare luce sugli annosi
problemi dell’alimentazione nel passato del nostro continente.
Addio, bistecca alla
fiorentina, anzi, arrivederci! In quarantena dal primo aprile, amarissimo
“pesce” sulla carne, fino al 31 dicembre. In attesa che crescano le bestie di
cui i nuovi controlli, da poco disposti, renderanno a prova di Bse quel manico
di osso che della fiorentina è parte irrinunciabile. Sì: siamo in Quaresima.
Ma, secolarizzazione a parte, questa penitenza prolungata fino al prossimo
Capodanno rischia di far ricordare veramente il 2001 come l’Odissea nello
strazio, per i buongustai. Tanto è vero che dalla Versilia c’è già chi annuncia
una clamorosa rivolta, a base di bistecche di contrabbando. La solita perfida
Albione? Piano. E’ vero, che è ora per colpa degli inglesi e dei pasticci da
loro combinati, se la fiorentina sparisce ora per un po’ dalle tavole. Eppure,
senza di loro questa bistecca così spesso ritenuta un simbolo dell’identità
italiana non esisterebbe neanche.
E
sì. Si incomincia dal nome: bistecca, e non costata o lombata, come proprio la
purezza linguistica delle “risciacquate in Arno” avrebbe dovuto imporre
all’italiano moderno. Per non parlare della braciola, che invece dell’anatomia
fa riferimento al combustibile di cottura, e che pure affonda ben addietro le
sue radici nella tradizione linguistica toscana. Oggi, però, confinata nell’uso
terminologico soprattutto alla preparazione del maiale. Il riferimento è a
Pellegrino Artusi da Forlimpopoli, che sta all’unificazione gastronomica
d’Italia come il conte di Cavour a quella politica e Alessandro Manzoni a
quella linguistica. E lui, nel suo “La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, è inequivocabile: “Bistecca alla
fiorentina. Da beef-steak, parola inglese che vale costola di bue, è derivato
il nome della nostra bistecca, la quale non è altro che una braciuola col suo
osso, grossa un dito o un dito e mezzo, tagliata dalla lombata di vitella”. Per
la precisione, i macellai definiscono oggi lombata la parte in corrispondenza
alle vertebre lombari, la metà della schiena dalla parte della coda. Mentre
l’adiacente taglio rivolto verso la testa è invece quello delle “costate”. Ma
la nomenclatura è poi complicata a seconda dell’età della bestia, e soprattutto
della città. Così la lombata di manzo fiorentina, ad esempio, diventa “lombo” a
Roma, “sottofiletto” a Torino, e roast beef a Milano.
Sia il “bue arrosto” del
roast-beef che la “stecca di bue” della beef-steak ci tramandano un curioso
squarcio sulla società medievale, quando scopriamo che in inglese il
gastronomico “beef” è, quando vivo, un “ox”. “Ox” è pure nel toponimo di
Oxford, aristocratica università sorta però in un luogo che in origine non era
che un ruralissimo “guado di buoi”. Come d’altronde anche il greco “Bos-foro”.
E “ox” rimanda poi chiaramente al tedesco “Ochse”. “Beef” è invece dal francese
“beuf”, secondo una prassi che si ritrova anche per altri tipi di carne:
“pork”, dal francese “porc”, in contrapposizione a “pig”; e “venison”, che
indica la carne del “deer”, il cervo, ma che è chiaramente dal francese
“venasion”, cacciagione. Cioè, “la cacciagione”, per antonomasia.
E’
intrigante questa immagine dei servi della gleba anglo-sassoni costretti a
nutrirsi di soli vegetali, che spiano quatti quatti dalla finestra i ricchi signori
franco-normanni a rimpinzarsi di arrosti a loro talmente estranei, da non
saper riconoscere nemmeno qual è l’animale presentato in tavola. Se non ci si
ricordasse che i normanni erano in realtà vichinghi francesizzati, e quindi
latini solo per modo di dire, sarebbe
addirittura paradossale, questa traccia linguistica della convivenza tra una
casta di aristocratici carnivori latinofoni ed una di contadini vegetariani
germanofoni. Le abbuffate di carne, infatti, erano nell’antichità una stigmata
culturale dei popoli germanici e celtici. Era nelle cupe mitologie nordiche che
gli eroi morti in battaglia si riunivano a banchetto nel mondo ultraterreno,
rimpinzandosi con le carni inesauribili del Grande Maiale. E’ per la “porzione
dell’eroe” di un arrosto che si accende un’interminabile tenzone tra i campioni
Cu Chulainn, Conall e Leogaire, nella nota saga gaelica. Di Massimino il Trace,
primo imperatore di sangue barbaro, gli storici romani ricordano scandalizzati
che “non ha mai assaggiato ortaggi”. Mentre una cronaca medioevale ci narra del
franco Carlo Magno che scopre sotto la tavola il mucchio di ossa
spolpate e spezzate accumulate da un misterioso cavaliere, e subito indovina la
sfida che gli è stata lanciata da Adelchi, figlio del re longobardo Desiderio,
da lui sconfitto.
Al
contrario, erano i greci, i romani e i mediterranei in genere a idealizzare la
dieta vegetariana. Qualcosa ne resta tutt’oggi nei tabù alimentari di ebrei,
musulmani e induisti. Ma gli archeologi hanno scoperto che i legionari di
stanza in Britannia arrivavano ad ammutinarsi, quando si vedevano servire un
rancio con troppa carne. Solo fichi, formaggio e miele mangiavano gli atleti
delle antiche Olimpiadi. “Sono le bestie d’indole cattiva e selvatica, le tigri
d’Armenia e i leoni iracondi e i lupi e gli orsi, a godere di cibi
sanguinolenti”, si lamenta il Pitagora delle Metamorfosi di Ovidio. “Ah,
che delitto enorme è cacciare visceri nei visceri, ingrassare il corpo ingordo
stipandovi dentro un altro corpo, vivere della morte di un altro essere
vivente!”. Chiaramente contrapposti a quelli di Massimino sono pure gli
stravizi dei pur più dissoluti imperatori di sangue latino o meridionale:
Eliogabalo serviva legumi conditi da metalli preziosi, Gallieno faceva
conservare l’una e i meloni per servirli fuori stagione, Clodio Albino era
capace di mangiare 500 pesche tutte insieme. Né possiamo pensare a fissazione
naturiste di una società avanzata nostalgica della campagna per troppa
urbanizzazione. Al contrario: è del primo periodo repubblicano quella Legge
delle Dodici Tavole che commina perfino la pena di morte e l’esilio a chi
uccide un bue non malato o non esaurito dal lavoro.
La
data di questa disposizione può essere stimata intorno al 450 a.C.. Dunque,
fanno oltre 23 secoli di distanza rispetto alla pubblicazione del libro
dell’Artusi: tra la prima edizione del 1891, e la versione definitiva del 1910.
Eppure, il grande gastronomo romagnolo ci testimonia quanto poco certi abiti
alimentari italiani fossero in realtà cambiati, in questo immenso intervallo.
“I macellari di Firenze chiamano vitella il sopranno non che le altre bestie
bovine di due anni all’incirca”, scrive. “Ma, se potessero parlare, molte di
esse vi direbbero non soltanto che non sono più fanciulle. Ma che hanno avuto
marito e qualche figliuolo”. E ancora più illuminanti sono le righe successive.
“L’uso di questo piatto eccellente, perché sano, gustoso e ricostituente, non
si è ancora generalizzato in Italia, forse a motivo che in molte delle sue
province si macellano quasi esclusivamente bestie vecchie e da lavoro”. La
Dodici Tavole! “In tal caso colà si servono del filetto, che è la parte più
tenera, ed impropriamente chiamano bistecca una rotella del medesimo cotto in
gratella”. E qui già si è di fronte a quella onnipresente “fettina” che
diventerà poi la vera icona alimentare dell’Italia del boom economico degli
anni ’50 e ’60. Quando non diventammo ancora un “popolo dei cinque pasti”, ma
certo sì un popolo della “carne due volte al giorno”.
Insomma,
Artusi fotografa il momento della duplice grande transizione: dalla cucina
pre-borghese a quella del ceto medio ottocentesco, e poi alla società del
benessere di massa. “Venendo dunque al merito della vera bistecca fiorentina,
mettendola in gratella a fuoco ardente di carbone, così naturale come viene
dalla bestia o tutt’al più lavandola e asciugandola; rivoltatela più volte,
conditela con sale e pepe quanto è cotta, e mandatela in tavola con un pezzetto
di burro sopra”. Ed è proprio questo inequivocabile “pezzetto di burro”,
altrimenti impossibile a sud dell’Appennino, a confermaci l’altro indizio
anglo-sassone della “beef steak”. Cioè, a dirci su quanto in realtà questa
“vera bistecca fiorentina” sia stata una classica “invenzione di una
tradizione” alla Hobsbawm, risalente a non più di qualche decennio prima. E’
infatti all’inizio dell’800 che, dalla tradizione di quel “Gran Tour” che gli
aristocratici e gli intellettuali europei dovevano compiere per completare la
propria educazione come un vero e proprio “rito di passaggio”, si forma intorno
a Firenze una consistente colonia di artisti, letterati e imprenditori
anglo-sassoni, la cui tradizione continua ancora oggi nella moda delle ville in
“Chiantishire”. Si fermano soprattutto nell’illuminato Granducato dei Lorena,
gli inglesi, perché, bellezze artistiche e naturali a parte, è quello che
meno espone gli stranieri “eretici” al
rischio di avere i figli sequestrati con la connivenza delle autorità da
qualche domestica con manie di battesimo. O di vedersi rifiutare un cimitero in
caso di morte improvvisa. Ma sono pure gli esercenti locali che si adattano
subito ai gusti dei danarosi ospiti, aggiornando i relativi menu.
Nella
stessa Inghilterra, però, il rito della bistecca doveva essere recente.
Quella porzione di carne individualisticamente adattata a un piatto singolo, in
contrapposizione alle forme ugualmente collettivistiche dei banchetti
aristocratici e delle tavolate plebee, assomiglia troppo alla mentalità della
borghesia vittoriana uscita dall’incipiente rivoluzione industriale. Anche a
tacere delle altre sue caratteristiche “produttivistiche” di piatto energetico,
rapido e digeribile. Non a caso, Marinetti avrebbe proposto proprio di
sostituire roast-beef e bistecche agli spaghetti da lui simbolicamente uccisi.
Per fare anche degli italiani un popolo di dominatori.
Prima
dell’800, d’altra parte, anche dove i bovini non si destinavano in prevalenza
al lavoro o al latte, il loro tipo di allevamento era comunque estensivo. Si
facevano scorazzare in lungo e largo per terreni marginali, facendo così loro
sviluppare una tigliosa muscolatura che costringeva a bollirne a lungo la
carne, prima della cottura. Dopo di che si poteva completare a stufato, come
preferivano il clero, la nobiltà di toga e il Terzo Stato. Oppure si metteva la
carcassa sbollentata ad arrostire, secondo uno sbrigativo costume militare che
la nobilità di spada si sentiva in dovere di emulare, quasi a riconfermare le
proprie origini guerriere. Ma quando la rivoluzione industriale impose di
risparmiare la terra con l’allevamento intensivo, la carne delle nuove bestie
sedentarizzate si intenerì, e rese così possibile la bistecca. Un piatto nuovo,
dunque. In cui però il nuovo ceto medio cercava a sua volta di nobilitarsi
facendo proprio il rituale aristocratico-guerriero del passaggio diretto della
carne sul fuoco, come avrebbe spiegato decenni dopo Levi Strass nel suo celebre
saggio su “Il crudo e il cotto”. Altra
ironia: creata dagli inglesi e dall’allevamento intensivo, la fiorentina è ora
al bando per l’abuso che dell’allevamento intensivo gli stessi inglesi hanno
fatto.
Ma
tornando ad Artusi, il padre della “cucina nazionale” è invece tanto
filologicamente attaccato all’origine anglo-sassone della bistecca da trattare
con disprezzo l’incipiente adattamento ai gusti toscani e italici, che già ai
suoi tempi si stava evidentemente consumando. “Non deve essere troppo cotta
perché il suo bello è che, tagliandola, getti abbondante sugo nel piatto. Se la
salate prima di cuocerla, il fuoco la rinsecchisce, e se la condite avanti con
olio o altro come molti usano, saprà di moccolaia e sarà nauseante”. Invece, è
proprio questa “bistecca alla moccolaia” che è divenuta dopo di lui e per un
bel po’ l’ortodossia. Fino alla recentissime mode dietetiche, foriere dell’olio
crudo solo a cottura ultimata, e addirittura della ultra-eretica aggiunta dello
spruzzo di limone.
Maurizio Stefanini.
Romano, 39 anni, laureato in Scienze Politiche alla Luiss, giornalista
professionista. Collabora con diversi quotidiani e riviste a carattere
nazionale. Ha appena pubblicato, assieme a Giovanni Negri, I Senzapatria.
Avanti rispetto alla politica, indifferenti alla cosa pubblica, stanchi di un
Paese che non funziona. Il romanzo degli italiani fai-da-te per le Edizioni
Ponte alle Grazie. Altri suoi libri: Struttura e organizzazione del Primo
Gruppo Divisioni Alpine, Fidel Castro, Cinque secoli di storia di Timor Est.