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LA COMUNITA’ “GENOVESE” DI GIBILTERRA
un’attiva e inconsueta presenza in
un territorio lontano di una comunità
che ha saputo mantenere le sue
caratteristiche originali
Nel corso dei secoli passati,
come si sa, un grande numero di cittadini liguri e genovesi ha abbandonato la
propria terra per cercare fortuna altrove, anche in terre o paesi molto
lontani. A causa dell’oggettiva povertà e ristrettezza del territorio di
appartenenza e in virtù della loro innata e spontanea attitudine al commercio,
alla navigazione e all’avventura, i liguri hanno spesso preso la via del mare
per andare a fondare colonie e “stabilimenti” più o meno grandi in tutto il
bacino del Mediterraneo e lungo le coste del Mar Nero, contribuendo ad
espandere il potere della Repubblica di San Giorgio sia sotto il profilo
economico che politico-militare. Abbastanza note sono le vicissitudini degli
insediamenti genovesi che, a partire dall’anno Mille, iniziarono a fiorire a
Costantinopoli (dove sorse il grande quartiere di Pera), a Caffa e a Tana
(nella penisola di Crimea), a Trebisonda (lungo le sponde del Mar Nero), a
Smirne e a Giaffa, ma assai meno nota è la storia del piccolo, cronologicamente
posteriore, e per certi versi anomalo, insediamento genovese di Gibilterra,
fondato nel XVI secolo e di cui ancora oggi - incredibilmente - rimangono
evidenti tracce e testimonianze.
Andando a curiosare lungo le
strette vie della “città vecchia” di Gibilterra, cioè del primo nucleo
abitativo della città ancora oggi contesa tra Gran Bretagna e Spagna, non è
difficile sentire pronunciare, tra una frase in castigliano ed una in inglese
(le due lingue più diffuse tra la popolazione di questo estremo avamposto
europeo meridionale), una mezza parola o un modo di dire genovese (1). Di primo
acchito si rimane a dir poco stupiti, ma poi, iniziando a conversare con i
vecchi del posto e con i pescatori delle vicine frazioni di La Caletta e
Catalan Bay - due grumi di casette bianche, simili a zuccherini, non molto
distanti da centro della città portuale - si viene man mano a conoscenza degli
antichi e curiosi legami che, a dispetto dello scorrere del tempo e
dell’oggettiva distanza che separa la Liguria da questo sito di origini
probabilmente fenice, legano ancora Gibilterra a Genova. Attualmente, sono più
di 900 (su una popolazione totale di circa 32.000 abitanti) i gibilterrini che
possono vantare una seppur remota discendenza ligure.
Tutta gente piuttosto silenziosa ma molto attiva, i cui avi,
in gran parte uomini di mare più che di terra, si erano spinti fino qui per
cercare fortuna, amalgamandosi ben presto nel composito tessuto di razze e
culture che fa, forse, della storica Rocca il più piccolo ma vivace centro
cosmopolita del Mediterraneo, ma mantenendo vivi il dialetto e le tradizioni
più radicate. Steve Parodi, John Calcagno, Garcia Burlando, Lopez Ivaldi.
Sfogliando lo striminzito elenco telefonico di Gibilterra non si fa certo
fatica a scovare cognomi ed origini a noi familiari. Pescatori, artigiani,
operai specializzati, ma anche professionisti, amministratori pubblici e
privati, e addirittura ministri. Non c’è che dire: i discendenti degli antichi
colonizzatori liguri mantengono alto il nome dell’antica Repubblica, superando
forse in quanto a spirito di iniziativa e determinazione i liguri della Liguria
d’oggi.
Rispettati e stimati dagli altri
gibilterrini d’origine ispanica, anglosassone, ebraica ed araba, sono i
bisnipoti di quel pugno di pescatori di Pegli che tre secoli fa si lasciarono
alle spalle una Superba ormai in crisi per dirigere le prue dei loro
pescherecci verso le Colonne d’Ercole, verso un ignoto che evidentemente li
spaventava assai meno della grama vita che facevano in patria. Nelle vene di
Giobatta Stagnetto, ex-ministro dell’Industria e del Commercio di Gibilterra,
scorre “puro sangue genovese”. “I miei avi erano, infatti, pescatori di Pegli e
raggiunsero le spiagge dello Stretto tre secoli fa, come d’altra parte la maggior parte degli altri coloni liguri,
quasi tutti uomini di mare, commercianti e, in misura minore, piccoli
imprenditori e armatori”. In effetti, la storia, o meglio la saga degli
Stagnetto ha moti punti in comune con l’avventura vissuta da altri esuli liguri
della partita di Gibilterra. L’amore per il mare, il desiderio di migliorare la
propria condizione sociale ed economica e la cromosomica attitudine al rischio
e all’impresa (che a fatica traspare dagli animi di molti genovesi d’oggi)
animavano infatti quel centinaio di esuli.
Stando alle cronache di
Gibilterra, risalirebbero al 1704 le prime notizie certe e documentate sui
liguri sbarcati a Gibilterra, sulla cui Rocca sventolava ancora il drappo di
Castiglia (la flotta inglese la strappò agli spagnoli nove anni dopo, nel
1713). Secondo il locale archivio storico, nel 1725, su una popolazione
complessiva di 1.113 anime risultavano esserci 414 genovesi, 400 spagnoli, 137
ebrei della diaspora, 113 britannici e 49 tra portoghesi, olandesi e arabi. Un
crogiuolo di razze nel quale sembra che l’elemento ligure sguazzasse
agevolmente. Evidente e costante fu la fiducia che le autorità britanniche
manifestarono, fino dai primi tempi dell’occupazione, nei confronti
dell’operosa e neutrale minoranza genovese, tutta dedita al lavoro e assai poco
incline, come da tradizione, a compromettersi politicamente in beghe - come
quella anglo-spagnola - che tutto sommato non la riguardavano affatto. E questa
fiducia degli inglesi nei confronti dei sudditi di San Giorgio divenne poi
quasi proverbiale con l’istituzione della speciale “Guardia Genovese”, un corpo
di armati ai quali il governatore britannico affidò parte dei compiti di
controllo e di difesa del ristretto territorio coloniale. Ma come si è
accennato, agli emigranti genovesi più che armarsi e all’occorrenza menare le
mani, interessava lavorare e guadagnare. Tanto che nel volgere di appena mezzo
secolo, la comunità ligure iniziò a primeggiare sulle altre, piazzando molti
suoi esponenti in posti chiave e consentendo ad altri di scalare addirittura il
Palazzo del Governo. Nel 1753, su un totale di 1.793 abitanti, ben 597
appartenevano alla comunità ligure, confermando che, a parte gli ebrei (che con
572 unità avevano palesato, come i genovesi, una chiara propensione alla
moltiplicazione dei figli e dei capitali), gli ex-pescatori di Pegli
rappresentavano lo zoccolo duro del microcosmo etnico-religioso di Gibilterra.
“A quei tempi - raccontano, forse esagerando un poco, i vecchi del villaggio “zeneize”
di La Caletta - la lingua commerciale del posto non era l’inglese o lo
spagnolo, ma la nostra”. Ma con il passare del tempo e con l’aumentare della
popolazione inglese le cose iniziarono a cambiare. Dalla fine del XVIII secolo,
con l’inevitabile intensificarsi dei matrimoni misti, i vecchi nomi e
soprattutto la parlata che per quasi un secolo aveva caratterizzato quest’isola
di genovesità tra il Mediterraneo e l’Atlantico, iniziarono a spersonalizzarsi
e a lasciare spazio agli incroci etnici e dialettali. Dopo il 1815, con la
caduta della Repubblica, sembrò che le peculiarità della comunità ligure di
Gibilterra dovessero inesorabilmente sparire, inghiottite dal processo di
assimilazione. Ma così non fu, almeno in parte. Oggi, infatti, a distanza di
tanto tempo, gli eredi degli emigrati genovesi continuano in qualche modo a
fare sfoggio della loro discendenza, vantando illustri natali, continuando a
chiamare i loro figli con nomi e soprannomi liguri.
NOTE
1 Gibilterra fa ancora parte del territorio
britannico. Situata sull’estrema propaggine meridionale della penisola iberica,
la Rocca è retta da un governatore coadiuvato da un consiglio legislativo e da
uno esecutivo. Chiamata anticamente “Calpe”, il promontorio prese poi il nome
di di Gebel el Tarik (in arabo “Monte di Tarik) in ricordo della spedizione del condottiero mussulmano
Tarik che, nel 711, ne prese possesso sconfiggendo i visigoti e dando inizio
alla conquista moresca della Spagna. Dominio islamico per sei secoli,
riconquistata nel 1309 dal condottiero cristiano Pe’rez de Guzman, rioccupata
dagli arabi di Granada, e definitivamente tornata in mani cristiane nel 1462 per opera del condottiero
spagnolo Medina Sidonia, la Rocca venne infine occupata il 24 luglio 1704 da un
corpo di spedizione anglo-olandese e assegnata con il Trattato di Utrecht
(1713) all’Inghilterra. Potentemente fortificata dai britannici fino a partire
dal XVIII secolo, la Rocca fu sottoposta a lunghi ma inutili assedi (nel 1727 e
nel 1779) da parte delle armate spagnole. Trasformata, grazie anche alla sua
favorevole posizione geografica, in una strategica ed efficiente base navale,
per molti anni Gibilterra ha svolto l’importante funzione di punto di appoggio
sia per la Royal Navy che per la Royal Air Force. Tuttavia, dopo la fine della
Seconda Guerra Mondiale, questo avamposto ha perso rapidamente gran parte della
sua valenza militare, mutandosi in attivo centro aeroportuale mercantile,
crocieristico e turistico, al quale, in ogni caso, Londra non sembra, almeno
per il momento, disposta a rinunciare. Tanto è vero che il “simbolo” della
Rocca, cioè il babbuino di Gibilterra (l’unica scimmia vivente allo stato brado
in territorio europeo), presente in una ventina di esemplari, viene protetto da
uno speciale corpo misto di guardie forestali e veterinarie. Un’antica leggenda
narra, infatti, che quando l’ultima scimmia di Gibilterra andrà sotto terra,
gli inglesi saranno costretti a fare le valige e a lasciare la Rocca alla
Spagna.
Alberto Rosselli Nato A Genova nel 1955, si
è laureato in scienze politiche, è giornalista e collabora a diverse testate
nazionali, come studioso di storia contemporanea e militare ha scritto diversi
saggi fra i quali “Il Conflitto Anglo-Francese in Nord America 1756-763”
pubblicato dalla casa editrice Erga di Genova, e “I Quaderni Carlo Rosselli”
per la Fondazione Carlo Rosselli di Firenze