giornale di poesia

n. 60

 

In questo numero:

 

Poesie di Carmelo Bene

Per Carmelo Bene di Walter Vergallo

Perdere un amico di Piergiorgio Giacchè,

Ricordo di Luigi A. Santoro

 

Poesie di Arrigo Colombo, Walter Vergallo

Le foto di A.M. Contenti

 

 

 

 

OMAGGIO A CARMELO BENE

l’incantiere ritorna dopo una pausa. Ritorna il giornale di poesia che i poeti salentini

hanno creato nel 1987 per sé e per tutti i poeti che vorranno esservi ospitati. Ritorna

col suo amore per la poesia, con la sua volontà di portarla alla gente, che da tutti possa

essere compresa e amata; quello che noi chiamammo principio di popolarità. E col

principio di oralità e spettacolarità, considerando la poesia scritta come solo un momento

incoativo che deve espandersi nel momento vocale e musicale, l’espressione, il canto.

Questo numero vuol essere un omaggio a Carmelo Bene, salentino, la cui

voce inimitabile ha risuonato e risuona tuttora tra noi.

 

 

Carmelo Bene - Tre poesie giovanili

 

Profezia triste

 

E una pioggia di fiori

coprirà le mie ossa;

ma la rosa che graffiò

il mio cuore non bacerà

il mio tumulo.

Le mie mani frugheranno

nelle orbite vuote a cercar

lacrime che non verserò.

E verrà un brutto giorno

in cui i venti spazzeranno

lontano quei fiori

che peso mi furono,

esponendo alle frustate del sole

le ossa, lugubri avanzi

d’una cena

che non fu mai consumata!

 

 

 

Tormento di mezza stagione


Nel letto del fiume dorme l’Estate

- come un pensiero fresco alla tua bocca -

che scende calda, scende,

e beve il mare. E il tempo sta cercando

la canzone caduta nel pozzo,

che carezza il suo sonno di muschio:

Meridionale Agosto. Logge

incandescenti. Girasoli ubriachi.

E il gatto sembra morto.

Vecchiaia e Giovinezza intrecciano

sogni con le canne dei bambù.

 

Così, tra due stagioni,

discende il sogno, senza scale,

e getta al ramo spoglio

la corda della sua malinconia

che non ha voce. E scorda.

 

La luna che inventava capanne

non si riscalda più sulla campagna:

il suo cammino spento.

 

Andiamo. Non si torna. Non si torna

al convento che non si sveglierà mai,

al paese che - a notte

scintillava di lucciole - bianchissimo,

sotto il sole indeciso, gabbiano

ferito al cuore,

tende le ali al sonno.

 

 

 

 

 

 

 

 

Settembre: fuochi e salvia.

Nevicava sulla sera cotone.

Scendeva il silenzio coi passi

fasciati nei fianchi.

 

Anche i secoli lasciano cene

che un tuo gesto, un tuo passo consuma.

Serberemo per noi solo questo:

ogni morte si vive così.

E le stelle non gettano reti sui vent’anni che sfoglia la terra.

 

E’ il motivo che insiste, si accerta

nel soffio dello Scirocco,

urta gli anni e resiste fin qui,

fino a questo settembre - vino e baci -

vola sino al tuo scoglio lontano,

al tuo sogno, e ti spegne negli occhi

tutto il mare. E’ una musica d’ali

ti trova e ti danna. E ti lascia così.                                             che ti trova e ti danna. E ti lascia così.

 

tutto il mare. E’ una musica d’alic                                             Sarà festa. Il vino già dolce

che spegne canzoni.

Le ragazze che cercano il vino.

Ti svaga la luce.

Il vento è sull’aia che arruffa i covoni.

 

E l’autunno disteso sul porto

va sognando così.

Domani il suono di quest’ora

si spiumerà sul mare tra la cera

d’una mattina ardente.

 

 

 

 

Walter Vergallo

Per Carmelo Bene: l’ego, il tu, l’oggetto(-natura); il tempo; il manque    

        

         La produzione di Carmelo Bene è, non integralmente, raccolta in Opere, Bompiani, Milano 1995, comprendente, dopo  l’Autografia d’un ritratto (pp. V-XXXVII), i testi Lorenzaccio «racconto», Nostra Signora dei Turchi, Credito italiano V. E. R. D. I., L’orecchio mancante, S. A. D. E., Ritratto di signora, Giuseppe Desa da Copertino, Pinocchio, Arden of Feversham, Il rosa e il nero, Riccardo III, Otello, Manfred, Egmont, La voce di Narciso, Sono apparso alla Madonna, Macbeth, L’Adelchi, Lorenzaccio «versione italiana e riduzione da A. de Musset», La ricerca teatrale nella rappresentazione di stato, Pentesilea, Hamlet Suite; una Antologia critica (pp. 1379-1549); le schede Cinema (p. 1551), Discografia (p. 1552), Televisione (p. 1553), Bibliografia (p. 1554), Radiofonia (p. 1555), Spettacoli (pp. 1556-1560).

         Segnalo, per la preziosità della fattura, l’opera, di difficilissima reperibilità, Vulnerabile invulnerabilità Necrofilia in Achille, in Poesia orale su scritto incidentato. Versioni da Stazio Omero Kleist, Nostra Signora Editrice, Roma 1993.

   La scrittura poetica della maturità consiste nel poema ‘l mal de’ fiori, con una Presentazione (pp. V-XXX) di Sergio Fava, Bompiani, Milano 2000 (Premio Montale della Fondazione Schlesinger).

Ricchissima, internazionale, la bibliografia critica. Tantissimi i siti.

   

   I tre inediti qui pubblicati, gentilmente affidatici da Maria Luisa, sorella e collaboratrice di Carmelo, che molto ringraziamo, fanno parte della produzione poetica giovanile dell’artista salentino (nato l’1 settembre 1937 a Campi, a pochi chilometri da Lecce), da lei gelosamente custodita, consistente in parecchi testi risalenti agli anni cinquanta, quando Carmelo, «sudati» gli studi nel paese natio, al Calasanzio, e terminatili al Liceo Classico Palmieri di Lecce, nel capoluogo salentino, non potendo realizzare la formazione musicale e teatrale a cui era vocato, approdò a Roma, attratto, più che dagli studi accademici della Facoltà di Legge (sistematicamente disertati), dal teatro; ma anche la frequenza all’Accademia Sharoff  e, subito dopo, alla Silvio D’Amico, sarebbe stata deludente. Una geniale indisciplinata indocilità induceva il Salentino all’autoformazione: ancora ragazzo egli frequentava l’«educatore permanente» Arthur Schopenhauer, autore de Il mondo come volontà e rappresentazione. Da adulto egli sarebbe stato sempre fedele al «volere» (will, la radice di William Shakespeare; «Will = Volere; Shakespeare = shakerare = avere in pugno = squassar lance = potere»: così Bene nel dissacratorio Volere e potere, in Opere, cit., p. 267). La «volontà» era una spinta genetico-dinamica alla radicale permanente rivoluzione della scrittura (poetica, teatrale, cinematografica), realizzata da un Carmelo visceralmente ostile  alla «rappresentazione» teatrale, alla quale egli preferiva la ri-scrittura del mondo-testo centrata non più sul «soggetto»-personaggi-autore, bensì sull’attore (che, come nel teatro greco, usa i coturni e amplia – non amplifica –, anche con strumentazione elettronica, la voce, la quale così produce un oceano di echi e vibrazioni, un vortice d’invenzione analogo allo Sprechgesang schönberghiano) inteso come corpo-physis-gesto-voce-phonê-sguardo-udito: un polimorfismo sinestesico (sempre confliggente tensivo estremo) pronto a tutto ricontaminare e rovesciare, per corrosione e svuotamento; un’orchestra di voci emergenti dal «di dentro»: è l’«Alles ist innig» di Hölderlin, l’«intimo» (citato nell’esergo de La voce di Narciso, Ivi, p. 995).

L’autodidatta Carmelo, che già alle medie traduceva con competenza e intelligenza testi greci e latini, puer di 15-16 anni, legge il Chisciotte di Cervantes, la Commedia dantesca, Walter Scott, Dumas e, successivamente, a Lecce, nella casa della zia Raffaella, Shakespeare (prima lettura il Timone d’Atene), Marlowe e Rusconi.

Gli inediti giovanili Maria Luisa dice di essere istintivamente ritrosa a pubblicarli per gelosa affezione fraterna. Alcuni sono stati letti l’estate scorsa, l’1 settembre 2005, giorno genetliaco di Carmelo, a tre anni dalla sua morte, nella «grotta della Poesia» di Roca (Melendugno), in una pubblica memorabile lettura-concerto, «Poesia nella Poesia», voluta da Maria Luisa, Gino Santoro e Mimmo Pagliara, e patrocinata dal suddetto Comune, su di un palcoscenico-piattaforma marino da cui si effondevano nella notte, rischiarata da luci-enel  e da una luna borbonico-bodiniana, le complesse polifonie testuali «orchestrate» dalla  voce di Maria Luisa, sapientemente modulata come strumento multifonico, e «controcantate» dalle composizioni musicali originali del maestro Francesco Libetta eseguite dall’Ensemble quartet di clarinetto, contrabbasso, flauto e oboe. Evocazioni evasioni emozioni «notturne» condivise da tanta gente.

  

 Cerco di entrare (con discrezione, in punta di piedi) nell’officina poetante dei giovanissimi testi, consapevole dell’«affettuoso invito» di Sergio Fava «ad ogni solerte esegeta  a non occuparsene in quanto si esporrebbe al suo fallimento conclusivo» e «nei rari casi di alto profilo, si ritroverebbe poi occupato, lui sì, dal Poema» (nella Presentazione al poema ‘l mal de’ fiori, cit., p. VIII). Me ne «occupo», non con arroganza o presunzione, perché l’intento mio (e nostro: de «l’incantiere», dico) non è (non è stato, nei tanti anni trascorsi) di filologizzare spiegare storicizzare contestualizzare correntizzare (compiti della critica accademica, di più o meno «alto profilo») i testi poetici analizzati, ma di interrogarli, metterli in dialogo, aprirli a percorsi di senso probabili (meglio se inprobabili): un umile pormi (porci) sulla soglia d’ascolto. L’«invito» di Fava è però comprensibile condivisibile, in quanto si riferisce alla materia molto più complessa e ribollente (l’«Opera di altissima macelleria», Ivi, p. VII, qual è il Poema) rispetto alla «semplicità» dei testi giovanili qui pubblicati. Sì, caro Fava, mi sento alquanto «occupato» dai testi, in fondo anche da questi, ben più «semplici», nel senso che una lettura libera dialogante interrogante (non «giudiziante» né pregiudizievole) è sempre un po’ un «travaso» (operazione cara alla nostra Claudia Ruggeri), mescidiazione d’anime. Credo.

   I tre componimenti divergono notevolmente, per impostazione struttura e linguaggio. La qual cosa è dovuta alla distanza cronologica della loro fattura, il primo essendo la prova, tra le primissime, di un ragazzo di 13 anni, gli altri riferendosi, invece, alla più matura età di un diciassettenne. Certo, essi, nell’insieme, differiscono moltissimo dal poema ‘l mal de’ fiori risalente agli anni 1993-98. Sembrerebbe evidente che esistano testi, da me non letti, che registrano le tappe scritturali evolutive tra gli uni e gli altri. Della detta divergenza cronologica (tra il primo testo e gli altri due) l’indagine terrà considerazione. Tuttavia essi mostrano germi semi spunti genetici, soprattutto relativamente all’ambito stilematico, che poi saranno sviluppati da Carmelo con una (sempre più) radicale forza di sperimentazione stilistica e linguistica, qual è quella realizzata, e leggibile, ne ‘l mal de’ fiori.

   

  La discrasia più manifesta tra il primo, Profezia triste, e gli altri due testi, è la centralità dell’io, attenzialità narcisa diffusa sia direttamente («verserò», v. 8) che indirettamente (nelle sue proiettive funzioni aggettivali: «mie ossa», v. 2; «mio cuore», v. 4; «mio tumulo», v. 5; «mie mani», v. 6; e pronominali: «mi», v. 12). È una condizione tipica dell’età puberale. L’io dionisiaco, per superare (accettare ri-conoscere) la propria identità, si somatizza nel dolore-morte, si riduce a «ossa» (vv. 2, 14), a «tumulo» (v. 5),  a «lugubri avanzi» (v. 14); così in realtà si espande, fino alla sua eroicizzazione mitopoietica, e suo drammatico rovescio, contraddizione (latente genetica originaria) dissociativa dilemmatica apparente, che è di ascendenza classica: l’io-origine s’infinita nella «sospensione» freezerante della morte, una consistenza (pure «precaria») del tragico, che rimarrà nelle opere successive di Carmelo, nella duplice matrice originaria di Nietzsche e di Hölderlin. «Ogni sospensione del tragico è narcisismo: è Narciso», dirà Carmelo (in La voce di Narciso, a c. di S. Colomba, Il Saggiatore, Milano 1982 , p. 147). L’io-Narciso non si dissocia, si metamorfizza nell’autocancellazione, direi «genetica» aurorale, del corpo-ossa, in che consiste la sua identità-immortalità. Confluenza metamorfica (superfluo esemplificare) di classicità, di neopitagorismo e di orfismo. Unità polimorfica «tramortente» e genesi. In quella consistenza  (e metamorfica desistenza) l’ego, foscolianamente e wildianamente, non ha nostalgia, perché manca del nostos, non essendo possibile alcun balsamico risarcimento. Infatti i potenziali ripari-risarcimenti edulcoranti falliranno nel loro compito consolatorio: la «pioggia di fiori» (v. 1), che «coprirà le mie ossa» (v. 2), sarà spazzata via (vv. 9-11) impietosamente dai «venti» (v. 11); la «rosa» (v. 3), elemento di ri-naturante vitalità positiva, qui «cardiaca», così in molta poesia futura, «non bacerà» (v. 4), bellissimo macrosema di fattura foscoliana, «il mio tumulo» (v. 5); le «orbite vuote» (v. 7) di lacrime («illacrimata» la «sepoltura» in Foscolo) sanciranno l’inutilità dell’inchiesta («a cercar», v. 7); la «cena» (v. 15), principio alimentativo, vitale, «non fu mai consumata» (v. 16).

   Nel testo «vive» una ricca poetica del non, del senza (tre i «non», l’ultimo dei quali esaltato dalla perentorietà defintiva del «mai», Ibidem) di un io wildiano, senza eroicità. Un sostrato di romanticismo rimbalzerà qua e là nell’opera successiva, teatrale e cinematografica, pure «strozzato» demistificato deidealizzato; tra i tanti l’esempio del «romantico eroismo» rinvenuto nel Manfred da Jean-Paul Manganaro (l’articolo è in Opere, cit., p. 1484).

    E «vive» fitta una trama, più o meno latente (e quindi da portare a luce, cioè a ombra  – direbbe Carmelo –, da «allertare») di ossimorica coincidentia oppositorum (vero e proprio principio genetico di quasi tutta la sua scrittura), sempre di matrice «classica». Se ne danno qui i prelievi testualmente più significanti.

   Di essa una spia è il tempo. Essendo un ego narcisante, metamorfizzato nella sua ossificante assenza, è abolita  la temporalità del presente, cioè lo statuto «riconoscente» l’identità attuale, la sua fattualità «agente». Sicché l’esperire testuale sviluppa una coincidentia (fortemente confligente, contraddicentesi) tra passato e futuro. Vediamo. Il tempo passato si configura come agente «floscio»; i tre perfetti («graffiò», v. 3; «furono», v. 12; «fu […] consumata», v. 16) connotano azioni inerti, per permanente negatività: la rosa che graffiò il cuore non bacerà il tumulo, il peso-riparo dei fiori sarà dai venti spazzato lontano, la cena-vita non fu mai consumata. Il tempo futuro, invece, diffuso sei volte («coprirà», v. 2; «bacerà», v. 4; «frugheranno», v. 6; «verserò», v. 8; «verrà», v. 9; «spazzeranno», v. 10), e però implicito anche nella proposizione finale di verso 7 («a cercare») e nel gerundio del verso 13 («esponendo»), propone un’attanzialità dilemmatica (positivo vs negativo) che si «scarica» si decostruisce si svilisce, fino all’ossificazione, perché ha come sostrato esistenziale profondo una negatività e un pessimismo, i quali, trame testuali ricorrenti (un futuro che fa e disfa, e che nel fare organizza il suo disfacimento; che dice e nega, e che nella negazione – di sé, del mondo; di sé in quanto mondo – afferma la sola consistenza possibile; un futuro «onnivoro» in quanto assorbe, in sé nutrendolo, il perfetto), si concentrano nel titolo: Profezia triste. Profezia doppia: dell’ego «mortificato» (fatto ossa-tumulo-avanzo) e (forza preveggente della Poesia!?) delle ceneri del corpo cremato, le quali, mi dice la tenace tristemente arrabbiata Maria Luisa, trafugate dal cimitero «Prima Porta» a Roma, ora si espongono, «impropriamente» e «provvisoriamente», a Otranto a uso turistico.

La «profezia» dell’io «mortificato» implica un’altra spia della coincidentia oppositorum: la presenza come assenza (e viceversa). Risolta la dissociazione, tipica dell’età puberale, tra io e mondo(cosmos-caos) attraverso l’identità narcisa come sola ipotesi d’assoluto (l’io si atemporalizza nella morte, e anche, foscolianamente, nella mitopoietica), il soggetto maschera la propria identità disseminandosi in oggetti sostitutivi (positivi: fiori, rosa, cuore; una positività «floscia», s’è detto; e negativi: ossa, tumulo, orbite vuote, lacrime non versate, venti, avanzi). In quel mascheramento egli-soggetto consiste e nel contempo si nega, dilemma proiettivo di una presenza che, per essere, non può che «assentarsi»; il manque-à-être è l’unica presenza possibile per il soggetto in molta poesia romantica e novecentesca (impossibile esemplificare sistematicamente); un esempio emblematico arcinoto è il Montale (da Bene deriso come «strozzino», «sparagnino», in Opere, cit., p. 1154) degli Ossi: «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Inessenza e noluntas come bina (e univoca) condizione dell’essere. Viviamo l’inessenza e la noluntas. Quella condizione evolverà, ribaltandosi, all’altezza cronologica de La voce di Narciso:  Sergio Colomba propone di modificarla «così: non siamo quello che vogliamo»; e afferma che noi «siamo quello di cui manchiamo» (La voce di Narciso, cit., pp. 114, 115). Lì il soggetto fattosi Narciso rimuoverà l’Altro-mondo e si produrrà, docet Freud, pur nell’impossibile ri-produzione accertata da alcuni critici nella scrittura poetica che seguirà, come autoamore autoerotismo, permanendo la musiliana scissione (dissociazione) io-mondo come l’unica associazione «vivente». Qui la sola autorappresentazione-affermazione possibile al puer è il disinserimento, il dissituarsi, che è ricerca di (non dell’) Altro, configurato nella profezia «triste» del mortuario. Sullo «smarrimento» del riconoscimento dell’io, e della sua immagine-identià, e sull’accertamento dell’io a sé attraverso la sua alienazione o la sua proiezione in idola speculari-speculativi è di utile lettura il saggio di G. Genette Il complesso di Narciso (pp. 19-26), in Figure. Retorica e strutturalismo (Einaudi, Torino 1969). Quel «dis-» non è solo una proiezione un risarcimento una corazza; è la nuova consistenza dell’io «mortificato». La quale si riverbera nella semantica dell’inanimato-inorganico (l’io reificato in ossa-tumulo-orbite-lugubri avanzi; si noti anche la variatio del registro) e nella complessa phonê che dissemina fonemi cupi (si veda la diffusione della / u / – agente 17 volte – come fonosimbolismo del lugubre; i più significativi campioni sono in «tumulo», v. 5, e in «lugubri», v. 14) e bifonemi stridenti (/ pr /, / tr /, / gr /, / ur /, / tu /, / mu /, / fr /, / rs /, / or /, / cr /, ( br /, / zz /, / fu /, / sp /, / ss /, / gu /, / un /, / su /); e che, infine, simbolizza  il nesso / or / e la sua specularizzazione / ro / (14 le diffusioni; un esempio di intensificazione fonica prodotta dalla ubicazione in tonica tronca situata in explicit: «verse», v. 8) come proiezioni macrotematiche della morte. Il conflitto presenza-assenza dell’io s’innerva nel «dilemma» tonico-ritmico lacerante tra versi piani (10) e tronchi  (ben 6).

 

   Gli altri due componimenti (Tormento di mezza stagione e Settembre: fuochi e salvia, i quali d’ora in avanti indicherò, per brevità di citazione, con i titoli Tormento e Settembre)  possono essere letti trasversalmente per prossimità anagrafica, affinità di linguaggio e omologia retorica.

   Già a una prima lettura balza il notevole lavoro compiuto da Carmelo durante i quattro anni che allontanano il primo dagli altri due testi. Dalla cartella propostami gentilmente da Maria Luisa avevo trascelto questi tre inediti così diversi, senza una attenta lettura, a impressione, coinvolto proprio dallo loro distanza. È verosimile che ci siano testi di sutura, che documentino le tappe progressive di quella sensibile evoluzione scritturale. Questo lavoro, di natura filologica, competerà a chi ordinerà i materiali per la pubblicazione; solo allora si potranno ripercorrere i passi del poiéin giovanile di Carmelo.

Un laborare officinale che subito si presenta nelle sue connotazioni più evidenti: la struttura, il linguaggio, l’intensificazione di senso, l’apparato retorico (in cui spicca soprattutto il procedimento metaforico-metonimico), l’abbandono del soggetto, l’insorgenza di un tu, pur diversamente metamorfizzato, inteso come sinergia dialogante. In tale disordinante menu propongo l’essenziale.

    L’io attante, qui (rispetto al primo testo) dis(-eu)forizzato, accende un dialogo-confronto col cosmos-caos, con il tu, così trovando possibili proiezioni (autoidentificativo-biografiche) nell’estate-settembre (ricchissime di ulteriori effusioni), in un presente proposto come tempo-kronos  (non cronos, mi correggerebbe Carmelo), come nel tempo(-esistenza), nonché nella categoria «metafisica» del sogno. Il dialogo-confronto io-mondo è ora (al diciassettenne Carmelo) possibile; sulla messa in discussione dell’io a influire è sempre la lezione dell’«educatore» Schopenhauer, questa volta interpretato da Camille Dumoulié, critico tra i più intelligenti dell’opera di Bene, in riferimento alla «voce» teatrante: nell’uomo, afferma Dumoulié parafrasando Schopenhauer, «il presente è sempre diviso, scisso in “due adesso” […] quello dell’oggetto (che appartiene al tempo), quello del soggetto (che è fuori dal tempo). Nel puro presente della Volontà, nella massima prossimità a se stesso, il soggetto si diluisce, è un tutt’uno con l’Onnipotente, l’Onnipresente» (in Opere, cit., p. 1512). Era l’io-assoluto che abbiamo visto in Profezia triste. Poi, però, «nel tempo, il soggetto si perde nella rappresentazione, la serie delle immagini e del linguaggio» (Ivi, p. 1513): perdita d’assoluto, fine di Narciso; confronto dell’io col mondo-caos.

 

Un doppio processo metamorfico nella dialogazione io-mondo: la cosmologizzazione (naturizzazione) dell’io e l’antropomorfizzazione della natura. Infatti nel Tormento «Nel letto del fiume dorme l’Estate» (v. 1): l’entità temporale personificata non è un riferimento autobiografico (pure memorialmente possibile perché per molti anni sin da ragazzo – ricorda Maria Luisa – Carmelo e la famiglia hanno villeggiato, nel mese di luglio, a Levico, sulle Dolomiti, dove spesso si fermavano a pescare – in un silenzio limpido assoluto – lungo un fiumiciattolo tra Levico e Vetriolo) ma è, associata allo scorrere del fiume, una bella metafora, di ascendenza classica – ricordo, tra altri, Seneca –, del trascorrere del tempo; l’«Estate», con la sua calura incandescente (v. 8), «beve il mare» (v. 4; il mare è frequenza topica costante in tutta la poesia di Bene ed evoca Santa Cesarea – ripresa in Settembre nel «porto», v. 24 – dove è la casa dei genitori, archetipo e matrice, simbolismo acquoreo vitalistico, macriana «dimora» genetica; lì Carmelo avrebbe cominciato a scrivere Nostra Signora dei Turchi; lì – oltre che nella grotta Zinzulusa e nella cattedrale di Otranto – ne avrebbe girato, nel ’68, la versione cinematografica, il primo lungometraggio che poi, a settembre, alquanto ridotto, sarebbe stato presentato alla Mostra di Venezia. Santa Cesarea e Campi Salentina sono i due luoghi dell’anima). L’«Estate» beve il mare, brucia le «Logge» (v. 7), ubriaca i «Girasoli» (v. 8), tramortisce «il gatto» (v. 9). La cronologia dell’«Estate»-calura-(«Meridionale», v. 7, nella accezione dell’etimo) si metafisicizza nel suo trasmigrare, attraverso lo scorrere del fiume-esistenza (v. 1), nella categoria del tempo-vita, slargata, in una sinergica polisemia (l’intreccio bisemico di v. 10), nella «Vecchiaia e Giovinezza» (Ibidem), che possono essere accostate, mescidiate proprio grazie alla loro intemporalizzazione.

La trasmigrazione esistenzialmente metafisicizzante del tempo consente sia l’inchiesta («sta cercando», v. 4; un recupero?) di una perdita, un refuso, un melos («la canzone caduta nel pozzo», v. 5), forse una memoria del canto della giovinezza tramandabile, su su negli anni, fino alla vecchiaia, oppure un affetto perdurante (la «metonimica» «carezza», v. 6), sia l’evasione nel «sogno» (v. 13), che s’incentra tra le due «stagioni» (v. 12) della vita (una verticalità non «fisica» bensì esistenziale, perciò «senza scale», v. 13); e alla metafora del «ramo» (v. 14) genealogico, perciò vitale (non botanico: non potrebbe essere, in estate, «spoglio», Ibidem; è spoglio di felicità), getta «la corda della sua malinconia» (v. 15): un cordone ombelicale che, proprio in quanto «sogno», «non ha voce» (v. 16) e non ha memoria (infatti «scorda», Ibidem): legami e felicità impossibili, la cui assenza provoca il sentimento della «malinconia» (v. 15). Nel titolo del primo testo la tristezza, nel titolo del secondo il «tormento», che la malinconia nutre e concresce. La dimenticanza, grazie alla trasposizione del tempo nel sogno, non presenta slittamenti cronologici, data (sempre) la natura metafisica dell’esperienza, inchiodata com’è a un presente monosemico «tirannico». La trascorrenza del tempo-vita in Settembre si dipana nella distesa misura dell’endecasillabo piano, il verso 2: «Nevicava sulla sera cotone», in cui,  essendo impossibile un riferimento a memorie di esperienze di neve montana, data la stagione, la semantica del verbo svuota la sua abituale vocazione attanziale indicando una valenza cromatica (il bianco del cotone, filo della vita). Ma qui c’è una vocatività nostalgica che l’imperfetto, di fattura alquanto leopardiana, slarga nell’indefinito temporale (una smisura dell’esistere) e il ritmo esalta: l’incipit anapestico con ictus di terza si rinnova sul sintagma seguente «preparando» l’ascolto all’explicit che non poteva essere che piano (4 + 4 +3); dolcezza d’evocazione, armonia di melos. La temporalità (qui di un tempo-kronos) ritorna nella seconda strofe, ai versi 9 e 10, che intessono immagini molto suggestive: «E le stelle non gettano reti / sui vent’anni che sfoglia la terra»: due decasillabi, questa volta, che presentano una analoga struttura ritmica, con ictus nelle sedi terza, sesta e nona, diversificata solo nel secondo emistichio del v. 9 dall’impennata «forte» del trisillabo «géttano». La temporalità qui non ha evocazione-memoria-dolcezza, binarizzata com’è, nella seconda strofe, nello sdoppiamento cronologico del presente-assenza (di Lei) e del futuro («serberemo», v. 7) che, sancendo la fine del sentimento (la consumazione delle cene-amore ai vv. 5-6), si universalizza in un presente gnomico definitivo, universativo (anche grazie alla forma impersonale del verbo), raggelante: «ogni morte si vive così» (v. 8). Anzi essa autorizza la tanto leopardiana lontananza-indifferenza della natura astrale sul dipanarsi del tempo giovanile: i «vent’anni» (v. 10) sono sfogliati dalla «terra» (Ibidem), una trascorrenza temporale che forse, per un giovane che pratica-vive la parola poetica, implica l’esercizio della scrittura (i fogli del vivere-scrivere).

  

   Il sogno come metafora proiettiva dell’io, che nel Tormento si nutriva, abbiamo visto, di vocazione evasiva, si specularizza anche in Settembre. Ma qui in una situazione più complessa. È un sogno-evocazione-desiderio, consistente (una fisicità di una presenza-manque, una libido vocativa amorosa) nell’allontanamento della Donna, pronominalizzata in un diffuso «tu» (di dialogicità montaliana, ma in Bene diversamente metamorfizzato) terrigeno (lo «scoglio», v. 15, con le implicazioni sia della durezza – di evocazione provenzal-stilnovistica? il trobar clus del faber Arnaut Daniel confluito nelle «petrose» dantesche? – o forse anche dell’àncora-meta); lo scoglio-sogno, che la lontananza vanisce nella doppia metafora dello spegnimento (dell’infinito-amore-«mare») e della «musica d’ali» (v. 17): la sinestesia della visione e del melos (ormai entità «eterea») «lascia» (v. 18) in una indefinibile («cos’ì», Ibidem) condizione di dolore («ti danna», Ibidem: un «tu», questa volta, oggettivizzato nell’esperienza autobiografica). Una dannazione-scoglio (per perdita dell’Amore) corrispondente alla «malinconia»-ramo spoglio del Tormento: due sentimenti vivificati dalla vita «notturna» del polisemico «sogno». Visione e melos, concretezza dell’idea e «metafisica» dell’oggetto: una polifusione eidica e logica (eidos, aspetto, figura; l’idea platoniana fusiva di immagine e pensiero; la forma in Aristotele; il conoscitivo-visivo acustico che in Husserl si fa intuizione intellettiva dell’essenza; una miscela che caratterizzerà la produzione teatrale e cinematografica di Bene). 

   In Settembre la metafisica del «sogno», temporalizzato nell’«autunno» (v. 24) in cui s’identifica l’io «disteso sul porto» (Ibidem), con allusione geografica al porticciolo di Santa Cesarea, si ripropone nell’ultima strofe. Qui il trascorrere del tempo-kronos («quest’ora», v. 26), metamorfizzato nel «suono» (Ibidem), si ornitologizza («si spiumerà», v. 27) nel quotidiano volo-vita, sostenuto dal tempo futuro. Il «mare» (Ibidem), topos costante in tutta la scrittura di Bene, metonimicamente «bevuto» dalla calura estiva in Tormento (v. 4), qui «spento» «negli occhi» (v. 16), si connota come archetipo acquoreo, vitale e mortuario insieme, secondo una antica (ellenica, magnogreca) tradizione ctonia (anche salentina: esempi significativi sono nella poesia dialettale del nostro Nicola De Donno, l’autore magliese che con Bene condivide passione e scritti sui Martiri d’Otranto), la quale rinnova la coincidentia di Vita-Eros e di Thanatos: «Domani il suono di quest’ora / si spiumerà sul mare tra la cera / d’una mattina ardente» (vv. 26-28). La perdita delle piume è prossima allo sfogliarsi degli anni giovanili (v. 10) e, in Tormento, allo spogliarsi del ramo-esistenza (v. 14).

   La diffusione temporale, concentrata, nelle prime due strofe del Tormento, nel tempo-kronos e nel tempo-vita in un presente che attualizza, e interamente assorbe, e brucia (ustione della calura estiva, scottatura del «tormento» umano) la vitalità dell’io ridotto alla nudità dell’elemento botanico (il «ramo spoglio», v. 14) e a un silenzio smemorante (v. 16), nel primo verso della terza strofa si carica di quella nostalgia evocativa (che abbiamo visto in Settembre): «La luna che inventava capanne» (v. 17); la magia di un’infanzia non più possibile (il riscontro geografico-autobiografico rinvia alla campagna intorno a Campi frequentata da Carmelo ragazzo); «nostalgia» e «magia» sono infatti subito cancellate, attualizzate nella concretezza «raffreddante» del presente («non si riscalda più», v. 18; «il suo camino spento», v. 19). Alla già segnalata «poetica del non», del «senza» qui corrisponde la poetica del «non più». Una presenza che si metamorfizza nel suo opposto e di esso consiste: essenza e, ancora una volta, un manque.

   Lo spegnimento, riferito in Tormento al chiarore lunare, rimbalza nella penultima strofe di Settembre, in una situazione vitalistica: la «festa» (v. 19) autunnale della vendemmia, nella vigna di campo circondata dagli ulivi, sempre nella natia Campi (il padre di Carmelo, Umberto, dirigeva una grande fabbrica di tabacco); un evento che si rinnovava ogni anno. La dolcezza del vino spegneva le «canzoni» (v. 20); un’ebbrezza dionisiaca, nella festa di Bacco, che ubriacava i sensi, accecava-spegneva la ragione («Ti svaga la luce», v. 22) nell’esaltazione del richiamo dell’eros («Le ragazze che cercano il vino», v. 21): esaltazione e spegnimento, a conferma della permanenza della coincidentia oppositorum.

   Una temporalità confliggente presenta l’ultima strofe di Tormento, che, introdotta da un’esortazione, nel primo verso reitera col tempo presente (di grande valenza gnomica) la perentorietà negativa dell’impossibile nostos, esprime con il futuro una denuncia sul Sud, evoca con l’imperfetto la nostalgica rammemorazione di un’infanzia-natura ormai tradita, e infine, ancora con un presente, chiude esprimendo la definitiva condanna, questa sì politemporale. È un moto giovanile «cardiaco» di odio-amore (che Bene condivide con il suo caro amico Bodini: «mio paese, / così sgradito da doverti amare», in Qui non vorrei morire…, ne La luna dei Borboni, Meridiana, Milano 1952)  espresso dall’autore nei confronti del suo «paese» (v. 22), Campi, ma Lecce, e in generale il Sud. Carmelo fu costretto, dopo la maturità liceale, a lasciare il «paese», dove non poteva continuare gli studi né realizzare le sue aspirazioni artistiche (letterarie, teatrali e, più tardi, cinematografiche). L’invito è perentorio: «Andiamo» (v. 20); e si ribadisce nella doppia reiterazione della forma negativa: «Non si torna» (Ibidem); è una scelta di vita, cogente e lucida, che induce alla condanna: il convento (dei Cappuccini) «non si sveglierà mai» (v. 21), il «paese» (v. 22), «ferito» (v. 25) nella metafora ornitologica (è costante la traslitterazione uomo-natura) come un «gabbiano» (v. 24), che non può volare, «tende le ali al sonno» (v. 26): nessun volo per il Sud, chiuso nel sonno e oscillante in una indecisione (v. 24) di promozione sociale politica e, soprattutto, per Carmelo, culturale. Il connotatore aggettivale «indeciso» (Ibidem; la condizione sociale è non a caso metaforizzata nel «sole», tipico elemento vitale delle nostre terre, per giunta in una situazione di calura estiva) è speculare al «pigro» attribuito al paese da Bodini nella citata poesia «borbonica». Indecisione e pigrizia negli anni non sono molto cambiate per noi. Invece, nell’«una volta…» fiabesca dell’immaginario puberale, il paese «a notte / scintillava di lucciole» (vv. 22-23), tracce di una civiltà «naturale» perduta. Un contrasto (passato vs presente) che si fonosimbolizza nella tramatura fonica del testo, nel conflitto tra i suoni aspri e cupi, e la solarità «celeste» delle aperte e delle liquide.

   Nel passaggio dal primo testo agli altri due Carmelo ha dunque realizzato con piena consapevolezza un movimento fondamentale per ogni esercitazione scritturale giovanile: il superamento dell’io, il suo mascheramento, abbiamo visto quanto polisemico, in alcune delle infinite possibili metamorfosi proiettive d’identità. Tale «maschera» come identità semiotica porterà di lì a poco l’autore all’oscuramento del senso, alla sottrazione, al togliere di scena (contro la messa in scena), allo svanire della luce-senso, alla vita-scrittura come a un permenente venir meno: è l’«amputazione»-«minorazione» di cui parla Gilles Deleuze  (Opere, cit., pp. 1431ss) come metodologia produttiva di scrittura (in ogni ambito di pertinenza: la poesia, il teatro, il cinema).

Due esempi, dunque, della produzione giovanile di Bene, che la pubblicazione degli inediti (la attendiamo, Maria Luisa) arricchirà e puntualizzerà nelle sue (sicuramente ricche) ulteriori implicazioni ermeneutiche.

  

   Dopo questi inediti giovanili, altre «scritture» dell’Autore presto premeranno. Ad esse qui posso solo accennare.

La produzione teatrale è sostenuta da un enorme lavoro volto a una ri-lettura «deformante» dei classici (e vivacizzata da una forte  corrodente polemica antiumanistica antiidealistica anticlassicistica, praticata e teorizzata spesso dall’autore), all’esaltazione della centralità dell’attore, alla rivoluzione di una scenografia più volte «adoperata come mistificazione del bello e del piacevole» (ne parla G. Bartolucci in Per una lettura di C. B. dal Sessanta al Settanta, nel fondamentale volume monografico su Bene della rivista mensile romana «Bianco e Nero», a c. di M. Grande, XXXIV, 11-12, nov.- dic. 1973, p. 17), alla tensione espressiva della voce (strumento polifonico di grande espressività) e del corporeo (con le sue potenzialità di «divertente» comunicazione), a una latente sistematica implosiva sinergia ad alta vocazione ossimorica: come un andare giù per risalire a luce, un «affondare nel “negativo” e […] proiettarsi nel “costruttivo”» (è ancora G. Bartolucci, nella premessa al citato articolo, Ivi, p. 6); un dissensamento dei materiali tràditi che porta allo «squartamento del linguaggio» (Autobiografia d’un ritratto, in Opere, cit., p. XIII), fino agli esiti del nonsense o dell’«artificio di fondo: l’afasia» (C. Augias, L’antiphysis di C. B., «Bianco e Nero», cit., p. 25).                                                                              

Di molto successiva (a partire dal 1967) è la produzione cinematografica, nella quale l’artista salentino metamorfizza il linguaggio (anti-, pre-, post-, dis-, cis- e altra prefissazione) teatrale nell’immagine; lo rivitalizza nel senso del rifiuto di una «concezione del linguaggio (verbale, teatrale o cinematografico) come “traduttore” o “fissatore” di dati contenuti pre-esistenti all’azione stessa» (così Maurizio Grande nel saggio, Materia e linguaggio – fondamentale per capire il primo lungometraggio di Bene Nostra Signora dei Turchi, del 1968 – nel citato volume monografico di «Bianco e Nero», p 62); fonda l’immagine su una simulazione (ossimoricamente e sinestesicamente) realissima (quanta realtà nel visionario simbolico mitico!) che accenda un «movimento» (contro la odiata, anche nel teatro, rappresentazione, nonché contro «una recitazione mimetica e accondiscendente», di cui parla G. Bartolucci, «Bianco e Nero», cit., p. 17) e una evoluzione che risultino contrastivi della coincidenza (bergsoniana) tra passato e presente, anche grazie a un montaggio volto ad «ascoltare» l’immagine. Infine egli rimanipola l’estetica l’arte il «meridionale» il mitico l’onirico il martirio-ossario-cattedrale l’eros il santo il barocco il moresco il kitsch l’io eroicizzato, e però dissacrato «zoppicato» biffato «bucato» eroe dell’impaccio e dell’inciampo. Una rimanipolazione intesa dallo stesso autore come «rogo etnico» (Opere, cit., p. 5). Claudio Ricciardi, nell’articolo Questo qui ha conservato addirittura gli occhi (in «Bianco e Nero», cit., p. 82) cita in esergo da Norman O. Brown (Corpo d’amore): «L’antinomia tra mente e corpo, parola e fatto, discorso e silenzio è superata. Tutto è solo una metafora; c’è solo la poesia» (con i due tondi, miei, assegno valenza deittica agli avverbi, che slargano la loro costitutiva riduttività in misura d’universo, nell’«antinomia» nella «metafora» e nella «poesia» consistendo tutta l’opera «macellante» (per parafrasare S. Fava) di Bene.

Infine, la produzione poetica del citato poema ‘l mal de’ fiori, in cui Bene realizza una radicale pervicace violenta corrosione degli apparati retorici tradizionali, impiega un pre-, post-, poli-linguismo-stilismo (una decina le lingue, anche molti dialetti, «follemente»  – «follia» hölderliniana – mescidiati contaminati «scempiati»), riporta la scrittura a un prius genetico «albale», a una terra bruciata che Sergio Fava intende ne ‘l mal de’ fiori come «un Labirinto orfano del Minotauro, ma animato da enigmi e scandali (nodi ed ostacoli) che delirano il gesto scritturale stesso» (cit., p. IX). Quel prius non è categoria cronologica né logica né ontologica, non è un luogo, non pensiero, non atto, non fatto, non ente.  «Il teatro di C. B. non è un negativo perché il negativo lascia sempre tracce» (così Pierre Klossowski , in Opere, cit., p. 1528; il corsivo è mio, a indicare l’alta non «rintracciabilità» dell’operazione corrodente compiuta da Carmelo sul – contro il – teatro). Quel prius è un non d’esistenza («nonluogo», Opere, cit., p. XV -  nontempo, nonessenza) sdove la scrittura svive. I prefissi non- ed s- (con altri, per es. mis-) non indicano, in genere, rovesciamento, non negatività; bensì assenza, un manque-à-être che si specularizza in un manque-à-dire («Io sono quanto mi manca», Ivi,  p. 1167; «Non esisto: dunque sono», Ivi, p. 995; «Nulla esiste tranne ciò che non è», Ivi, p. 1197: una condizione che l’autore proietta sul mondo: «nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento» (Ivi, p. 4).

Una «nostalgia» non classicamente (e foscolianamente-romanticamente) intesa come voluptas del nostos (possibile o impossibile che fosse) bensì come ou-topos ou-senso ou-langue. Forse la poetica dell’ou- è l’alba (genesi ovulo feto bimbo) dove (sdove) origina la scrittura dell’artista salentino.