Per Carmelo Bene

Piergiorgio Giacchè, Perdere un amico

Luigi A. Santoro, Ricordo

 

 

Piergiorgio Giacchè

Perdere un amico

 

Perdere un amico

 

L’amicizia non è amore. L’amicizia è una linea, mentre l’amore come si sa è una freccia.

In amore ci si trova di fronte, nell’amicizia ci si situa di fianco. Due linee che si accostano per un tratto di vita e devono trovare la distanza perfetta. Più lontano o troppo vicino si sbanda e si perde quella dirittura che si chiama lealtà e che dà fiducia agli amici… La misura perfetta è quella della confidenza e insieme del rispetto, ma soprattutto è quella dell’induzione che permette un passaggio e un sostegno magnetico, che dà forza agli amici…

In amore non ci si deve mai voltare indietro, dicono i miti. In amicizia non conviene mai guardarsi in faccia: si scoprirebbe che appunto non è amore, e il con-fronto rischia di diventare competizione, invidia, conflitto. Lo dice anche Shakesperare e lo sottolinea René Girard1, ma quella non è più amicizia  È «una storia di amici», che si perdono e di regola non si perdonano.

Ma l’amicizia non è una storia, è una linea. Quando la si può raccontare come una storia, l’amicizia è finita. Forse non aveva nemmeno fatto in tempo a nascere, cioè a stabilizzarsi nelle due parallele che corrono accanto e non si incontrano mai. Se non all’infinito.

Per questo perdere un amico non è come perdere un amore. Un amore si perde anche mentre dura, vive dentro di noi come una ferita che talvolta si ha bisogno di rimuovere e perfino di sanare. Perdere «per sempre» un amore può persino dare un doloroso sollievo. Perdere un amore fa comunque sempre parte della vita. Anche quando l’amante muore.

Al contrario non si perde mai un amico quando muore. Anzi, in quel caso, si scopre che la sua linea tende a proseguire come un arto fantasma. Si scopre la necessità e la verità della «compresenza dei morti e dei viventi», di cui parla Capitini2, non come uno scambio di amorosi sensi, ma come un’effettiva perenne apertura fra due diversi modi o  altri mondi dell’esistenza. Si scopre allora che l’amico è stato sempre compresente e sacro: è stato per così dire un morto anche da vivo, per quel suo modo di starci vicino e di tenersi a debita distanza, per quel suo accompagnarci e accompagnarsi in funebre allegria, per quel suo insediarsi nel cielo delle virtù e mai nel terreno del vizio (tranne quando è virtuosamente praticato), per quella leggera trascendenza dell’affinità elettiva che elegge l’uno a spirito dell’altro.

Non può morire, se non all’infinito, la linea retta di una vera amicizia: sorretta ed eletta da entrambi gli amici, quella linea estranea alla storia e tangente alla vita non si spezza con la morte, ma appena sbiadisce e sfinisce accanto agli altri fili di amicizia che si tendono e ci sostengono. E che noi continuiamo ostinati a sostenere per tutto il nostro «sempre».

L’amicizia è una rete fatta di molti amici, anche quando non si ha che un amico… E in ogni caso si ha soltanto un amico per volta e una volta per ciascun amico. Il gruppo di amici non esiste, in amicizia. Mima volgarmente piuttosto la sua assenza, mentre realizza goffamente la sua propaganda.

Eppur si muore e – come si dice e si sa – muore sempre il migliore, l’amico.

La sua fine è un fulmine gelato, ma il suo lutto plana lentamente e calorosamente. Il lutto dell’amicizia è ancora amicizia. Non si può sostituire un amico ma nemmeno si deve. La sua definitiva mancanza si misura ancora in distanza: una siderale distanza che però ci si affretta a inseguire per quanto ci è impossibile, in modo da mantenere attiva quell’induzione magnetica che è la vita e il senso dell’amicizia. In modo da tenere in vita la morte di un amico.

 

 

Perdere un attore

 

Si può essere amico di un attore? Si possono tessere percorsi idealmente paralleli con chi ci si propone sempre frontalmente, e per di più ci invita a guardarlo come se fosse un nostro specchio? E infine ci inganna, perché in quello specchio si affaccia e si riflette lui soltanto: lui, anche per nostro conto ma non in nostra rappresentanza, e ancor meno in nostra rappresentazione.

L’attore non è un uomo come gli altri, ma al contrario è l’altro degli uomini. E non si tratta di una banale deformazione dovuta al mestiere di fingere d’essere altro da sé. Si è trattato invece di una misteriosa iniziazione all’alterità, che si è compiuta una volta per tutte e senza ritorno. Si è trattato di una rinuncia all’identità, per la quale si chiama troppo spesso in causa la vanità di Narciso, ma ci si scorda sempre l’effetto della vacuità e della sua illuminazione.

Non si vuol dire che l’attore sia sovrumano ma che è piuttosto inumano, o almeno dovrebbe esserlo a detta di Artaud: «Il teatro – vado a memoria – non è il doppio di una realtà quotidiana e diretta ma di una realtà pericolosa…, che non è umana ma inumana, e l’uomo con i suoi costumi e il suo carattere c’entra poco o nulla»3.

L’attore – certo se è grande attore, se cioè è per davvero l’artefice dell’atto poetico e critico in cui consiste il teatro – si consacra a questa in-umanità semplicemente scoprendo l’in-esistenza dell’io4.

Che l’io non esiste è chiaro a tutti, visti gli sforzi infiniti e inutili che facciamo ogni giorno per certificarlo a noi stessi; visto che i filosofi lo cercano da sempre con il lumicino e che gli psicanalisti lo vedono addirittura uno e trino, rendendolo più oscuro e più incerto di Dio. Ma tutto ciò prova che è umano almeno il bisogno dell’io, e il suo indefesso inseguimento.

L’attore è allora inumano se non altro per questo: chi vuole esistere e insistere credibile e abile sulla superficie dello specchio scenico, non può avere esitazioni a far fuori il suo io, a meno di non baloccarsi nella rappresentazione insulsa della realtà quotidiana, o peggio nella rappresentanza indefinita di un io, o addirittura di un noi, che non c’è.

Il vero paradosso dell’attore – di cui non parla Diderot – è che alla fine c’è solo lui, e cioè l’altro. L’attore ti ruba la scena, ti sottrae l’azione, ti distrae alla lettera il pensiero spostandolo dall’io al tu, anzi dall’uno all’altro. Un altro privo di identità che ci priva di ogni identificazione, mentre attiva e attira continuamente la nostra proiezione come fosse l’ultima cosa che resta da fare. Come fosse l’ultima persona al mondo, ovvero la prima persona sia nel senso logico di chi compie l’azione, che in quello etimologico di maschera funebre, di sipario calato sul volto dell’io ed aperto verso il ventre oscuro della sua mancanza.

Ma non buttiamola in psicologia, ché la Persona è più antica e più sacra dell’Individuo. Quel «ventre» non è l’inconscio inteso come scaturigine, ma l’inumano inteso come vortice che ci precede e ci seguita, prima della vita e oltre la morte.

Su quel limite l’attore si spoglia dell’io non per diventare un eroe tragico, ma piuttosto per esporsi al ridicolo: i suoi gesti non dimostrano che la vanità dell’azione, e le sue parole niente altro che la vacuità del senso. Su quel limite l’attore sosta non per dovere ma per gioco, e in più per quel suo maldestro narcisismo che non si è dato la pace della morte, ma nemmeno è entrato nella guerra della vita. Su quel limite l’attore si sporge per fare il verso al nulla, o per produrre un suono che si approfitti dell’eco che viene da tutto quel vuoto.

 

A volte, quel verso o quel suono ci raggiunge e ci trafigge come un incantesimo.

Di quell’attore saremo allora sempre innamorati, ma in un modo che non ha a che fare con l’amor ma con lo humour. Di quell’attore non saremo mai amici, perché il senso e il sentimento dell’umorismo non avvicina due identità ma al contrario le rivela entrambe assurde, spingendoci verso un’alterità che è già occupata, già tutta «impersonata» dall’attore.

L’attore non dà spazio né ruolo alla relazione che suscita e resuscita in continuazione. Come un seduttore che non conquista mai (se non nell’immediato o all’infinito, che è lo stesso), la linea del suo-nostro rapporto, non individua o conferma nessun piano dell’esistenza ma uno spazio semmai dell’apparenza. E l’apparenza si distende come un velo impietoso su tutti gli uomini e gli affetti che fino ad allora consideravamo reali e veri, trascolorandoli nell’ironia e trapassandoli nella mondanità.

Si è di scena, quando ci si innamora o ci si innamica di un attore: dimentichi della nostra identità e proiettati nell’altrui alterità, si è nel fuori-luogo e nel senza-tempo di una relazione teatrale. Ci si sente una seconda persona, tanto necessaria quanto accessoria alla vita, anzi alla vista dell’attore. Ci si scopre attenti e affettuosi, incantati e infine devoti. Ci si sforza in una relazione sempre unilaterale anche quando è corrisposta. Non c’è nulla di esagerato nello slancio, non c’è fanatismo nell’affetto: anzi c’è spazio sufficiente per la critica, ed è in definitiva quello stesso spazio di cui ha bisogno l’ammirazione.

L’ammirazione nostra e la seduzione sua funzionano solo nella distanza, ma la dispongono su un piano di confronto orizzontale, rovesciando il tetto dell’amicizia sul pavimento di un amore senza contatto, senza movimento, senza compimento.

Ancora una volta si tratta di governare bene una distanza ma stando bene attenti – questa volta – non ad avvicinare i fili ma a non confondere i piani, che a teatro si dividono proprio nel punto in cui si incontrano. Quel punto è l’arcoscenico o, appena più in basso, è il golfo mistico. Fin lì si può approdare, ma non bisogna superare quella soglia oltre la quale si può magari trovare un amico ma si rischia di perdere l’attore.

 

L’attore non è un artista come un altro ma è addirittura altro dall’artista, nel senso che è insieme autore e opera, strumento e fine della sua stessa arte. Il teatro si nutre di testi e di spettacoli ma alla fine serve a fabbricare attori: quando va bene, grandi attori di cui pubblicamente ci s’innamora o talvolta privatamente ci s’innamica, con la scusa del loro Amleto, Otello, Macbeth… 

Dice Carmelo Bene: «Non si dà capolavoro d’arte. Fuor dell’opera si è capolavoro»5. A guardar Bene, ma anche Eduardo o Totò, l’attore è davvero quanto resta di una serie di opere che appena lo attraversano. E intanto lo fabbricano.

L’attore è l’unico reperto vivente, e intanto ha incorporato un repertorio. In pubblico talvolta si nasconde dietro l’opera, ma conoscerlo e frequentarlo in privato dice la ricchezza del suo repertorio e dà la misura del suo essere reperto.

Quando la ricchezza è tanta e la misura è colma (e sono rari gli attori che riempiono di sé la propria scena e l’altrui vita), è davvero sconveniente ridurre un attore ad amico. Semmai ci si accorge e si subisce la sua corrente amicale, anch’essa unilaterale e senza dubbio corrisposta, ma mai contraccambiata.

Non c’è scambio, ma solo un via vai di movimenti ascensionali o discendenti, ammirati o benevolenti, tra la moltitudine dei devoti e la solitudine dei divi.

L’attore, quando è fuor di misura, è divo senza esagerazione, ma con la precisione con cui questo aggettivo inumano si applica a tutti i campioni dell’arte e della fede. E dello sport.

L’attore è un «atleta del cuore» – diceva ancora Artaud – e come tutti i grandi performer merita appellativi che, prima e più di innalzarlo, gli riconoscano una collocazione in un altro piano. Non per quello che ha fatto ma per come è nato o diventato. Sempre che attori si nasca. Sempre che attori si divenga. Sempre cioè che lo stupore non ci faccia esclamare che è nato o è diventato di una «seconda natura».

Senz’altro comunque il suo capolavoro pertiene a una seconda cultura: quella che non ha magazzini di filosofia e soffitte di storia, ma quella in cui ogni indigeno sa cogliere l’attimo e sa celebrare l’atto. Vivente.

Non muore mai un attore. Non sa morire.

Più esattamente, sa come morire ma non sa di morire, perché non ha fatto altro che morire per finta. E «per finta» si fa autentica espressione e ripetuta esperienza dell’atto di morire, ma non dell’attimo dopo la morte. Dell’attimo dopo il teatro.

Non c’è più quell’attimo per un attore, anche se gli toccherà in sorte di morire come fosse umano. Fuori scena, la morte dell’attore rientra nella vita e diventa interruzione e non è più sparizione – come elegantemente si dice ai funerali fingendo che la vita possa imitare il teatro. Fuori scena, non c’è corpo né anima che tenga: il capolavoro si disintegra paurosamente, pericolosamente.

Come fosse un dipinto o una statua o un’architettura – ma l’arte vivente è molto di meno, ma molto di più – l’attore se ne va in polvere e non lascia residui, se non in forma di memorie altrui. Tutte quelle memorie contro le quali l’attore si è sempre battuto ed ha sempre vinto finché era in scena. Adesso, in vita, si muore per un nulla e si entra magari nella storia, mentre l’attore vorrebbe gridare «sipario» per sparire «del tutto» e «per sempre», ma senza interrompersi mai, senza prima né dopo. «Ché non c’è niente, dopo», gridava il giovane Brecth6.

 

L’attore non è qualcuno che vive al nostro posto, ma al contrario è quella parte di noi che non vuole e non sa morire. Quella parte che abita nell’atto e non nel mondo; che coglie l’attimo e non sceglie il tempo. Una parte ormai sempre più piccola quanto più si diventa meschini, quanto più ci si siede nel mondo e si crede nel tempo.

In fondo la morte di un attore non ci fa più tanto male, e in ogni caso non è nemmeno un improvviso lutto: si può dire di averlo già visto infinite volte «sparire» e «del tutto» e «per sempre».

 

 

Perdere Carmelo Bene

 

Carmelo Bene viveva in un altrove. Un castello moresco senza fondamenta, prima descritto nel suo romanzo Nostra Signora dei Turchi 7, e infine identificato in un palazzo apparentemente situato in Otranto, ma in realtà proteso il più possibile verso il mare e dentro il cielo. L’importante è non toccare mai terra e soprattutto non vedere gente, e dalle paratie del terrazzo come dalle finestre non si scorgevano che gli infiniti blu di cui si colora tutto quel nulla che ci avvolge.

Carmelo Bene abitava anche nel fondale nero e rosso e oro di una sua casa romana, senza finestre né porte che non fossero entrate e uscite di scena. Tra Roma e Otranto aveva preso a vagare come da un suo teatro all’altro, alternando a suo dispiacere giorni e notti lunghi come stagioni, combinando tempi da circolo polare con luoghi mediterranei, ma sempre sentendosi in pieno mondo barocco: in pieno vuoto.

Carmelo Bene viveva in un fuori luogo e in un senza tempo così assoluto da rendere il luogo finto e il tempo sospeso del teatro una misera imitazione. E però lo frequentava il teatro – un po’ per necessità e un po’ per malattia – servendosene come il balcone della sua monade, «facendosi vivo» di tanto in tanto e sempre meno.

Andare in scena per Carmelo equivaleva a sospendere la sua sospensione, e concedersi il lusso di un incontro e il rischio di un contatto con il pubblico, inteso come animale collettivo, nel quale sapeva e diceva di avvertire quattro o cinque presenze al massimo. Ma non era per gli eletti che andava in scena, ma per il bisogno di fare almeno un bagno di folla all’anno, forse due, certo per il conforto dell’applauso ma anche per la verifica amara di uno sconforto infinito verso la realtà quotidiana e la vita sociale, verso la gente e infine l’umanità. Nel passaggio rapido e sempre più raro dalla sua scena monastica quotidiana al palcoscenico di un teatro pubblico, la fragile statua del suo attore avvertiva le scosse culturali e le intemperie morali che bastavano a confermarlo nella sua sfida e nella sua solitudine.

 

Carmelo Bene avvertiva l’umano con l’olfatto di un orco e con lo spavento di un bambino. Ricoverarsi nella sua sfida e condannarsi alla solitudine era come cercare un antidoto o almeno un placebo contro la sua stessa umanità. Trascenderla come avevano fatto i santi o i poeti era il traguardo alto eppure minimo dell’irrisione generosa e dolorosa del suo primo teatro. Nell’ultimo, aveva preso direttamente a cantare come un poeta e volare come un santo, arrampicandosi sul suono della sua voce e armandosi di macchine di elevazione, anzi di evasione dal suo stesso corpo.

Nessun tormento ma al massimo un ilare sgomento lo guidava in quel tutto suo darsi da fare. Nessun comandamento ma l’istintiva irrinunciabile necessità di dar spazio al suo genio, che è il contrario del talento, perché non fa quello che vuole ma appena «quello che può» 8. CB non era un attore di genio, ma un genio che di mestiere faceva l’attore. 

Quel mestiere o forse quella forma di vita, l’aveva scelta per la sua smania di indossare a tutti i costi un corpo e di scendere in tutti i casi in campo, entrambi – corpo e campo – da subire e insieme da superare, magari con un solo atto e in un solo attimo.

La mèta e il metodo erano identici: si trattava di tagliare e togliere, di assoggettarsi e sottrarsi, di svilire e svanire in continuazione. In questo le regole dell’arte scenica e le ansie della genialità estetica concordano da sempre. Il campo del teatro e il corpo del genio non hanno altro scopo che quello di sparire. Non c’è uno scopo più arduo per il genio e infine un esito più stupefacente per il teatro. Non c’è uno scopo più coerente con quella in-umanità a cui il teatro aspira e che il genio respira.

 

Potremmo ricordare le minuzie di centinaia di micro-movimenti straziati, di semi-toni smorzati, di quasi-espressioni cancellate… O i dettagli di decine di pagine sfogliate, bandiere strappate, abiti, sdossati… Colpi di chiusure e di cesure continue, suoni spinti a morire in altezza o gesti atterrati e ripiegati sul nascere, atti sbrigati e liquidati in fretta e parole sfatte o liquefatte ancora in gola… Insomma la costante di una sparizione, che è tutto ciò che si vede davvero apparire.

 

Il tutto o quel nulla che CB dava in scena era una straziante e insieme gioiosa parodia dell’agonia: “un parodiare alla lettera, come un cantare attorno, che poi è un canzonare o, ancora alla lettera, un prendere in giro… la morte” 9.

 

 

Carmelo Bene è morto

 

Tutti quelli che l’hanno conosciuto si distribuiscono secondo l’epoca o la vita (“una delle mie molte vite”, come amava avvertire) in cui è rimasta impigliata la loro affezione o la loro devozione, giurando che non c’è stato mai un Bene più alto e altro di quello che loro hanno incontrato.

A me è toccato di conoscerlo nell’ultima vita, nella quale Carmelo aveva preso ad obbedire davvero rigorosamente al suo nome: carme e melos  scomposti per la prima volta dall’amico Jean-Paul Manganaro10 avevano finito per ricomporre la sua esistenza geniale e la sua insistenza scenica. Aveva da poco costruito il testo e comandato le musiche per un omaggio alla mistica cristiana che è rimasto senza soldi, e dunque senza suoni e senza spettatori. Aveva appena pubblicato un primo Poema11 e ne aveva scritto un ultimo, intitolato Legenda. Aveva per l’ultima volta privato il pubblico di un canto del Paradiso nella cattedrale di Otranto, a lui interdetta dal vescovo, dopo aver cantato Purgatorio e Inferno nel fossato del castello di quella città.

La sua agonia è durata mesi e ha funzionato beffarda come una parodia dell’esistenza, alternando passioni reali e resurrezioni ingannevoli, come sempre avviene agli umani. Ma la vendetta della morte fisica non autorizza nessuno al salto verso conclusioni banali: non si può ridurre la fine di un genio che per di più faceva l’attore al riconoscimento della sua umanità. Non si è autorizzati a scoprirsi d’un tratto tutti umani e dunque amici, o peggio simili agli attori, o infine interpreti della sua genialità.

E’ ancora una volta una questione di distanza, anzi ormai di un invalicabile dislivello: bisogna tener conto che la morte, se è diventata sua, non è una morte qualunque e comunque.

Non ci sono spoglie, dopo essersi spogliati perfino dell’io. Non c’è modo di accompagnare un canto, di sotterrare un volo, di pregare per un divo.

A dispetto della protervia con cui dichiariamo gli uni uguali agli altri – spesso con l’aria di fare agli altri un favore – un più rigoroso esame della coscienza e uno spietato ascolto del cuore, dovrebbe farci capire che, se non si può perdere un amico, se non è conveniente perdere un attore, non è davvero possibile perdere chi si è perso da prima e da solo, e ci ha indicato quell’altezza e quell’alterità che ci manca. Che ci è sempre mancata, che è di per sé mancante.

Se questo è vero, chi l’ha conosciuto non avrà molto di personale da dire circa la perdita di Carmelo Bene. Al contrario, se è onesto, dovrà ammettere di avere avuto, in vita, qualcosa che gli altri si sono persi davvero. E di aver provato, in morte, una sensazione di perdita generale, assoluta, ambientale, che gli altri non immaginano e di cui non sentiranno nemmeno la mancanza: «una volta a casa uomini e donne ammireranno i miei scrupoli sull’esistenza ma non li imiteranno nemmeno un po’»12.

Alla morte di CB – di questo sono sicuro – il livello di humour si è abbassato di un metro nell’oceano di parole vane e di gesti insulsi su cui galleggia il nostro povero mondo.

 

 

NOTE

1 R. Girard, Shakespeare: il teatro dell’invidia, tr. it., Adelphi, Milano 1998.

2 A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano 1966.

3 A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, tr. it., Einaudi, Torino 1968, pp. 165-166.

4 C. Bene, La voce di Narciso, a cura di S. Colomba, Il Saggiatore, Milano 1982, p. 11 ss.

5 C. Bene, Opere con l’Autografia di un ritratto, Bompiani, Milano 1995, p. XXXVII.

6 B. Brecth, Poesie e canzoni, tr. it., Einaudi, Torino 1961, p. 3.

7 C. Bene, Nostra Signora dei Turchi, Sugar, Milano 1966.

8 C. Bene, Opere, cit., p. 5.

9 P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 1997, p. 123.

10 J.-P. Manganaro, Il pettinatore di comete, in C. Bene, Otello o la deficienza della donna, Feltrinelli, Milano 1981, p. 65.

11 C. Bene, l mal de’ fiori. Poema, Bompiani, Milano 2000.

12 J. Laforgue, Hamlet ou les suites de la piété filiale, in Moralités légendaires, Gallimard, Paris 1977, pp. 21-64.

 

 

Luigi A. Santoro

Ricordo

 

   Del grande attore inglese David Garrick un poeta scrisse che, per la sua straordinaria capacità d’interpretare i personaggi più disparati, in particolare i personaggi shakespeariani, era un Proteo. Per Carmelo Bene si potrebbe usare la stessa immagine rovesciando però il percorso: non l’attore che dissipa il proprio Io nei personaggi, ma i personaggi che si dissipano nell’Io dell’attore. C’è qualcosa di più della comune frequentazione dell’universo shakespeariano, delle doti polemiche e del talento poetico che unisce la figura di Garrick a quella di Bene e questo qualcosa possiamo individuarlo nella totale dedizione all’Arte del Teatro. L’idea di Bene, che il suo capolavoro fosse  Carmelo Bene e non i suoi spettacoli, ci obbliga a prendere atto di una profonda differenza fra l’attore-drammaturgo- impresario inglese e l’attore-drammaturgo-regista salentino: Garrick è stato il vertice dell’attività dell’attore-esecutore, Bene è stato il vertice dell’attore- creatore. E per raggiungere questo vertice ha dovuto percorrere un sentiero racchiuso fra siepi di rovi e di spine. I cespugli irti di spine della vita privata e i cespugli forse più intricati e pungenti della vita pubblica. Questa capacità metamorfica era stata sottolineata dalla penna affilatissima di Ennio Flaiano già nel 1967: «Se la manipolazione è necessaria per arrivare in fondo ad un teatro slogato, inconsolabile, ectoplasmatico, se la cosa deve farsi preferisco questa, che si rinnova ogni sera e si salva dal tranello dell’accademia, dal compiacimento, proprio per la sua continua modificazione».

È possibile realizzare un «profilo morale» del Proteo Carmelo Bene? Non è paradossale tentare un profilo di una personalità proteiforme come quella dell’artista che è riuscito ad attirare nella sua macchina attoriale centinaia di personaggi? Che è riuscito a domare il toro impazzito delle immagini cinematografiche? Che è riuscito ad incenerire con le sfiammate delle sue frasi il dragone televisivo?

I profili smussano la cronaca per solleticare la Storia, potano le fronde degli episodi quotidiani per evidenziare il tronco e rami del muthos o, a dirla con Stanislavski, per trovare la «linea trasversale» dell’opera. Ma non sta proprio nella frammentarietà del quotidiano la sola possibilità di sottrarsi alla tirannia della Storia, al messaggio dell’Opera? Potrei citare le «poesie d’occasione» di Goethe o la «filosofia d’occasione» di Anders per dare uno sfondo teorico alla sequenza di episodi che la mia memoria ha ordinato in una specie di costellazione disforme. Ma ritengo che l’immagine (?) più appropriata sia quella del «rizoma» dell’amico francese Gilles Deleuze: «Essere rizomorfo significa produrre steli e filamenti aventi l’apparenza di radici, o che meglio ancora ad esse si collegano penetrando nel tronco, salvo poi ad adoperarle per nuovi inconsueti usi».

 

Le prime immagini sono molto sfocate. Non perché lontane nello spazio-tempo, ma perché abbandonate sui fili arrugginiti degli stenditoi della memoria. Quando i provinciali si muovevano nell’intestino della Capitale e giocavano con gli astragali dei loro scheletri salentini «col cappello in testa» nella luce smorta delle cantine. Ma è lì che nasceva il procedere rizomorfo; la sottrazione, l’amputazione dell’Opera per far germogliare il nuovo, l’inatteso. Troncare l’inizio e la fine per faticare nel mezzo. E in un certo senso l’aneddotica ti guida nelle viscere di quel «mezzo» cui sono state troncate la testa e la coda. Il labirinto del divenire senza il filo d’Arianna per trovare l’entrata e guadagnare l’uscita.

C’era stata una memorabile serata con Un Amleto di meno all’Ariston che si era conclusa con «Leccesi vaffanc…! Mi rivedrete a Lecce solo quando al posto della fontana coi feti che pisciano metterete un monumento al Genio Carmelo Bene». E, qualche anno dopo, la patetica vicenda della Laurea ad honorem, con i coraggiosi docenti dell’Università di Lecce che per non esprimere chiaramente il loro dissenso facevano mancare sistematicamente il numero legale.

Non potevo ricordargli i rari incontri a Roma in casa di Tonino Caputo, o a teatro con Sandro D’Amico; per convincerlo a tornare gli dissi che Lecce era una cosa e il Salento tutt’altra cosa, che gli amministratori dei Comuni della Grecìa salentina, per i quali organizzavo le manifestazioni del Carnevale, non avevano niente in comune con i politicanti cinici e famelici che ingrassavano nei buchi dello Stato. Gli ricordai ancora che lui era vissuto in un piccolo paese, a Campi, e che quindi doveva sapere che la gente di paese aveva molta più sensibilità e cultura dei «cittadini». Mi ricordò che al tempo della Laurea ad honorem lo avevo chiamato prima di mezzogiorno. Lo rassicurai: dopo il tramonto. Lo richiamai dopo il tramonto. Gli dissi che ero ad Otranto. Che la luna piena si era appena affacciata dalle montagne dell’Albania e seminava riflessi sul mare. Non feci alcun cenno al suo ritorno, allo spettacolo. Avevo capito che voleva tornare per riempirsi gli occhi di luna otrantina e dei bisbigli d’Oriente che lo scirocco versava tra le sponde del Canale d’Otranto. Rispose che sarebbe venuto con i Canti orfici di Campana, avrebbe dormito ad Otranto, avrebbe recitato in qualsiasi paese ma non a Lecce; gli dovevo rifondere solamente le spese. Quando seppe però che si era messo di mezzo un assessore regionale e il Consorzio Teatro Pubblico Pugliese, pretese il triplo del compenso.

Era passata mezzanotte quando suonò il telefono. Faceva un freddo cane, il «bitter cold» della prima scena dello Hamlet. Raggiunsi Otranto con la Cinquecento piena di spifferi e col riscaldamento fuori uso. Il personale dell’albergo si era rifiutato di dotare di tende nere le finestre. Per appiccicare sui vetri dei cartoncini neri mi ci volle quasi un’ora. Nella stanza c’era un piacevole tepore. Rimanemmo a parlare fino all’alba.

 

La sera dello spettacolo il cinema Elio di Calimera era pieno come un uovo, con un bel buco al centro però. Erano i posti riservati alla madre e ai parenti. La madre voleva un termosifone elettrico con dodici elementi. Caso unico nella carriera di Carmelo Bene, lo spettacolo iniziò con mezz’ora di ritardo. Solamente dopo che riuscimmo a recuperare il dannato termosifone a dodici elementi.

Edoardo De Candia era stato amico fraterno di Carmelo. L’aveva distrutto l’alcool, ma soprattutto  le cure (?) subite nell’ospedale psichiatrico. Non ricordo a chi era venuto in mente di portarlo a Calimera per fargli incontrare Carmelo. La scena fu agghiacciante: Carmelo fece finta di non conoscerlo.

La lettura dei versi di Campana fu preceduta da una presentazione. La presentazione fu interrotta dalla madre: «Diglielo, Carmelo, che ti ho insegnato io a recitare, quando dicevi le preghiere!»

Se non ci fosse stata la scena dell’incontro con Edoardo…, avrei pensato a San Carmelo. In coda ci fu anche un brano di Dante e una cascata interminabile di applausi.

Mentre andavamo a mangiare alla trattoria «La lanterna», sulla via per Martignano, in auto scoppiò un fastidioso litigio fra marito e moglie (incinta), parenti di Carmelo, che riprese il ruolo di San Carmelo e con incredibile dolcezza riuscì a riportare la serenità. Mentre mia moglie e la coppia scendevano le scale della trattoria, Carmelo mi fermò trattenendomi per un braccio: «Non c’era niente di Edoardo in quel poveraccio che mi avete portato. Che cosa si può fare?» Volevo dirgli che non era stata una mia iniziativa, ma riuscii solamente a scrollare la testa. «Se c’è un modo per aiutarlo, fammelo sapere». Di nuovo San Carmelo?

Mangiammo cose buone, quella sera, e bevemmo alla grande. Carmelo s’impadronì di una coppa immensa di rape ‘nfucate strapiene di peperoncino, ma ebbe da ridire sul vino. Al sindaco, Enzo Fazzi, sfuggì: «Ho una ricca riserva di vini in cantina». Andò e tornò col bagagliaio dell’auto pieno. Stappammo diverse decine di bottiglie quella sera. C’era aria di festa, di gioia, di amicizia e c’erano gli odori e i sapori del Salento sano, quella sera. Ci sfidammo a «brindisi», quella sera. Quelli di Calimera ne fecero alcuni in greco, quella sera. Tutti capimmo che Carmelo sarebbe tornato nella sua terra, quella sera. Per sempre. Fino a sera.