Daniela De Robert "Sembrano
proprio come noi" Bollati Boringhieri
AA. VV. "SOS fiabe" Elena
Morea Editore
Recensione
di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
Quante volte abbiamo sentito dire
che una persona “ha la faccia da delinquente”? Quante volte abbiamo sentito
parlare del carcere come di un albergo di lusso in cui i condannati alloggiano
gratuitamente a spese della collettività? Quante volte abbiamo sentito
chiedere più carcere e carcere più duro? Sono frasi che sentiamo
spesso e che denotano, prima di tutto, una scarsa o nulla conoscenza del
carcere, dei detenuti, dei meccanismi e delle leggi che regolano il mondo
carcerario.
Daniela de Robert, giornalista della
redazione esteri del TG2 e da vent’anni volontaria del carcere di Rebibbia,
ha conosciuto quegli esseri umani che, come dice il titolo del suo libro,
“Sembrano proprio come noi”. Ha visto molti stupirsi di ciò, al
loro primo ingresso in carcere. Ci assomigliano, vestono come noi, sono
pieni di curiosità e di interessi, anche se la loro vita spesso
non permette di trovare risposte alle curiosità e spazio per gli
interessi.
Sono sessantamila, in Italia, sparsi
nei vari istituti, in balia di leggi che condannano soprattutto i poveri,
gli stranieri , i tossicodipendenti e di regolamenti assurdi, diversi da
carcere e carcere, slegati dal regolamento nazionale per mille motivi,
dall’impossibilità di applicarne le norme (il regolamento nazionale
parla di celle singole, il sovraffollamento ha portato a raggiungere gli
otto o nove detenuti per cella), alle regole frutto della fantasia e delle
decisioni, spesso arbitrarie, dei direttori che si sono succeduti.
Il carcere è il regno dell’attesa:
di una risposta, di un colloquio, di una cura, di un intervento medico
che spesso non arriva in tempo per salvare la vita a un detenuto.
L’autrice racconta con attenzione,
affetto e amara ironia la vita dietro alle sbarre, quel percorso “di rieducazione
del condannato” previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione e disatteso
nei fatti: i detenuti vivono in un regime in cui è esclusa ogni
forma di autonomia e di scelta, in una società in cui la carcerazione
rimarrà un marchio incancellabile anche a pena scontata, hanno poche
opportunità di studio, di lavoro, di contatti con l’esterno e con
la famiglia. Per anni isolati in un mondo in cui tutto è diverso,
anche camminare o respirare, cucinare o fare la spesa, per molti il mondo
esterno rimane sospeso tra il sogno e l’incubo, mentre lo sguardo perde
il senso dell’orizzonte sbattendo quotidianamente contro un muro di cemento
armato.
Non si riesce a fare il volontario
senza sentire sulla propria pelle la carcerazione. Non soltanto perché
i detenuti raccontano, chiedono aiuto, coinvolgono nelle loro attività
ma anche perché sui volontari si allarga la macchia che lascia il
carcere. “Perché pensare a loro, quando c’è tanta ‘gente
per bene’ che soffre?” è una domanda che nessuno è riuscito
a evitare, che si subisce con rabbia e che fa crescere la voglia di lavorare
e di coinvolgere nel proprio lavoro, di far crescere nel mondo “libero”
la consapevolezza e la conoscenza del mondo “ristretto”.
“S.O.S. Fiabe” è nato da
un annuncio di Monica, “mamma detenuta”, pubblicato su “Famiglia cristiana”.
Monica chiedeva che le venissero mandate fiabe per suo figlio. Un appello
nato “dal desiderio di sentirmi ancora vicino a Igor e non interrompere
il mio ruolo di mamma nemmeno da lontano (io gli inventavo fiabe quotidianamente)”.
Le fiabe, le filastrocche e le poesie sono arrivate, molte e raccontano
il mondo animale, il mondo fantastico, l’amore, le tradizioni popolari:
un gesto di affetto e un ponte di solidarietà verso una mamma e
il suo bambino.
gabriella bona
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