Fabrizio Macchi - Pietro
Cabras "Io non mi fermo" Libreria dello Sport
Recensione
di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
Ha vinto tre volte la maratona di
New York, è stato campione italiano per tre anni nel salto in alto
e in lungo, ha partecipato a due Olimpiadi vincendo un bronzo ad Atene,
ha battuto tre volte il record dell’ora su pista, ha collezionato medaglie
ai Mondiali, agli Europei, ai campionati italiani, nello sci, nell’atletica,
nel canottaggio, nel ciclismo e lo chiamano disabile.
Fabrizio Macchi ha fatto cose che
alla maggior parte di noi non sono mai neppure passate per la testa e,
nel caso ci avessimo pensato, quasi sicuramente non saremmo riusciti a
fare. Noi, quelli che definiscono “normali” o, con un infelice neologismo,
“normodotati”.
Fabrizio, a tredici anni, ha scoperto
di avere un osteosarcoma al ginocchio sinistro. Tre anni di ospedali, operazioni,
esami, speranze e delusioni, quella gamba che ormai non sentiva più
sua, che era diventata un peso tale che la sua vita futura sembrava ormai
soltanto una lunga lista di rinunce.
“E giorno dopo giorno la lista si
era allungata fino a diventare infinita, dipingendo uno scenario deprimente,
una vita di totale dipendenza dagli altri: dai miei genitori, fino a quando
ci sarebbero stati, e poi chissà, magari in un istituto per l’assistenza
ai disabili”: una vita che non era adatta a Fabrizio Macchi, il bambino
vivace che non si ricorda di aver camminato ma soltanto corso, di corsa
sempre, per gioco, per fare tante cose nel più breve tempo possibile.
L’amputazione, scrive in “Io non mi fermo”, la sua autobiografia scritta
con il giornalista Pietro Cabras, “non fu una condanna ma una liberazione”.
Lo sport è diventato uno
dei punti forti su cui Macchi è riuscito a portare avanti una vita
che, per una serie di barriere fisiche ma soprattutto mentali, era diventata
difficile. Chi ha creduto in lui, i suoi genitori, allenatori e tecnici,
le ditte che gli hanno fornito l’attrezzatura e il supporto, la moglie
Noemi, anche lei ciclista, e l’entusiasmo di Fabrizio hanno prodotto una
miscela di energia e di vita che entusiasma a ogni pagina del libro.
“Diversamente abili” è l’ultimo
modo con cui il politicamente corretto ha decretato che si definiscano
le persone che non rientrano in un canone di normalità malamente
definito. La diversità, tema caro e attentamente approfondito dal
movimento delle donne, ci vede tutti diversi, ognuno diverso dagli altri,
fisicamente, mentalmente, negli interessi e nei risultati: la storia di
Fabrizio dimostra come è partendo dalla diversità, dal considerarci
tutti, ma proprio tutti, diversamente abili si può pensare di costruire
un mondo in cui l’uguaglianza dei diritti e dei doveri, delle opportunità
e degli obiettivi può essere di tutti. Certo è che sciare
con Alberto Tomba o pedalare con Lance Armstrong a molti non capiterà
mai, semplicemente perché non siamo bravi come Fabrizio!
Finite le Olimpiadi di Torino, ci
si rende conto di come le Paralimpiadi siano qualche cosa di diverso: un
altro periodo, un altro medagliere, un altro mondo e, soprattutto, un entusiasmo
sfumato. Il sindaco di Vancouver, la città che ospiterà le
Olimpiadi invernali del 2010 è tetraplegico e il 26 febbraio ha
entusiasmato una platea di due miliardi di persone piroettando (molto meglio
di Fusar Poli e Margaglio: lui non è caduto!) sul palco con la bandiera
olimpica. Fabrizio Macchi e Sam Sullivan, due campioni e due persone che
sanno sfidare il mondo. Complimenti e auguri a loro e a noi il compito
di pensare a quanto banale e stupido sia il modo “normale” di definire
le persone.
gabriella bona
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