Franco Cuomo "I Dieci" Baldini
Castoldi Delai Editore
Valentina Pisanty "La difesa
della razza" Edizioni Bompiani
Recensione
di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
Sono “Lino Businco, Lidio Cipriani,
Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci,
Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari […] medici, biologi,
naturalisti, docenti universitari che sottoscrissero il ‘Manifesto della
razza’, noto anche come ‘Manifesto degli scienziati razzisti’, preambolo
e fondamento delle leggi razziali del 1938”. Sono dieci ma a loro – scrive
Cuomo nel suo saggio “Dieci” – “si accodarono immediatamente turbe di intellettuali,
filosofi, scienziati e personalità di spicco culturale, religioso,
politico”.
“Ne scaturì un elenco di
330 personaggi” tra i quali stupisce trovare Amintore Fanfani, Giovanni
Papini, Mario Missiroli, padre Agostino Gemelli.
Il lavoro di Cuomo si propone come
analisi del testo che provocò quarantatremila perseguitati e ottomila
deportati e uccisi in base a “corbellerie scientifiche” che riuscirono,
con ragionamenti contorti e contraddittori, a definire un’umanità
non soltanto suddivisa in razze ma nella quale esisteva una gerarchia razziale
che vedeva nel punto più alto la razza ariana. Africani, zingari,
ebrei, malati di mente, omosessuali rappresentavano un pericolo per la
purezza della razza ariana e pertanto dovevano essere isolati e resi inoffensivi.
La deportazione e le camere a gas sono state la logica conseguenza di una
campagna e di un progetto atroci.
Cuomo si chiede anche che cosa possa
aver indotto Vittorio Emanuele III a “firmare leggi così inique
nei confronti di leali cittadini del suo regno”. La risposta: “In pochi
anni Mussolini l’aveva trasformato da piccolo re d’Italia in re d’Italia
e d’Albania e imperatore d’Etiopia” inquadra quell’esaltazione nazionale
che fu probabilmente la causa di una diffusa mancanza di reazione e di
indignazione da parte della maggior parte degli italiani.
Ma il libro di Cuomo è anche
un atto di denuncia per quello che successe in Italia negli anni successivi
alla caduta del fascismo e alla fine della seconda guerra mondiale: “Ha
pagato il re detronizzato, hanno pagato Mussolini e i suoi gerarchi fucilati,
hanno pagato criminali di guerra come Kappler e Reder […] hanno pagato
in tanti o hanno dovuto comunque nascondersi, sparire, rinunciare alla
propria stessa identità. Non hanno pagato – né hanno dovuto
nascondersi – i dieci scienziati nazisti” che, anzi, negli anni hanno potuto
proseguire brillantemente le loro carriere, che sono ricordati nella toponomastica
delle loro città, in memoria dei quali sono banditi concorsi.
Il lavoro di Valentina Pisanty,
“La difesa della razza”, è un’analisi attenta e precisa della rivista
che dal 1938 al 1943 propose, analizzò e impose le teorie razziste.
Leggere oggi frasi come: “Negli animali domestici, tutti sanno, la riproduzione
con una razza inferiore dà sempre un prodotto scadente […] se l’incrocio
tra l’uomo bianco e la donna nera è per molti motivi deprecabile
[…] il viceversa è un obbrobrio – direi anzi una mostruosità”
provoca incredulità e orrore, pensare che per cinque anni il giornale
“La difesa della razza” abbia potuto pubblicare, abbia, anzi, dovuto pubblicare
simili teorie funzionali a un disegno politico, sembra quasi impossibile:
è successo nel nostro paese, poco più di mezzo secolo fa.
Le teorie eugenetiche - tra l’altro in voga non soltanto in Italia e in
Germania, ma anche negli Stati Uniti, in Norvegia, in Svezia, In Danimarca
e in Svizzera -, il razzismo, l’antisemitismo provocarono non soltanto
persecuzioni, deportazioni e morti ma lasciarono tracce nella mentalità
comune, continuano a essere vive e lo dimostrano molti siti internet che
continuano a proporle e a sostenerle e atti di intolleranza quotidiana.
La fatica per trovare similitudini
“razziali” tra italiani e giapponesi e profonde differenze tra puri ariani
e francesi o inglesi, fu affrontata con entusiasmo da scienziati, pensatori
e intellettuali. Il razzismo, usato come difesa di un nazionalismo precario;
la confusione, nella definizione di razze, tra elementi fisici, storici
e culturali; la scelta di immagini che dessero delle altre “razze” un’immagine
negativa e pericolosa; il pericolo di quelle che venivano definite “malattie
sociali” come pazzia, suicidio, criminalità, prostituzione, accattonaggio,
vagabondaggio: tutto veniva usato per creare una mentalità comune,
un razziasmo diffuso che desse consistenza a un progetto vago e precario
e una giustificazione ai crimini fascisti. Ma Pisanty mette anche in guardia
dalla “tendenza, da parte di chi oggi rigetta le tesi razziste, di limitarsi
a buttare nella spazzatura lo stereotipo definendolo ‘un sacco di sciocchezze’,
senza tuttavia interrogarsi sull’origine storica e contingente di ciascuna
di queste sciocchezze”: Conoscere e capire il nostro recente passato, ricordare
gli errori, è l’unico modo per tentare di costruire un mondo diverso.
gabriella bona
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