Paola Pastacaldi "Khadija"Edizioni
PeQuod
Recensione
di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
Livorno, fine Ottocento, una fuga
precipitosa dopo il duello in cui Giuseppe Pastacaldi ha ucciso l’amico
più caro. Quella macchia di sangue sul bianco della camicia, gli
amici lontani, l’amore per la donna che ha dovuto lasciare, la città
in cui ha vissuto: dolore, rimpianto ed emozioni profonde sono i compagni
di viaggio sulla nave che lo conduce in Africa, in un continente che tenta
di difendersi dall’invasione coloniale dei paesi europei, dalla fame, dalle
guerre interne e Aden, la città dove vive la sorella che lo aspetta
i “una terra che vibra di una musica che non hai mai sentito”. Aggregato
ad una spedizione geografica, per raggiungere la costa arabica e il continente
africano, le grandi distese di sabbia e il rigoglio della natura, fino
alla città sacra di Harar e all’incontro con Khadija, la nonna etiopica
orono dell’autrice.
È un’Africa bellissima e
atroce: “questo paese è ai confini del mondo e vive una sua bellezza
evangelica, sommersa a momenti da una disperazione apocalittica. Di questo
gli europei non capiscono granché. Qui assistono allo svolgersi
di una storia antica, eterna”, una storia in cui le carestie creano situazioni
che un europeo vive con angoscia e incredulità, quando ”ogni mattina
ammucchiano cadaveri sotto le mura. A quei corpi sono già state
rubate le vesti. Iene e avvoltoi strapperanno loro l’ultimo filo della
vita […] Compito che la città considerava con timore misto a gratitudine
ché di tutti i cadaveri che la carestia portava con sé non
avrebbe saputo che farne”, ma anche pieno di profumi, di suoni, di spazi
aperti, di città fantastiche, di donne bellissime.
E il protagonista si ritrova in
una posizione in cui non si riconosce: “Mi chiedevo cosa sarebbe stato
per me più bruciante, la vergogna di aver abbandonato la terra mia
per non finire in prigione o diventare un conquistatore?”
L’autrice ricostruisce con affetto
ed eleganza una storia lontana, nel tempo e nello spazio, anni difficili,
un amore non convenzionale per quei tempi: “ho iniziato questo viaggio
dentro l’Africa sulla spinta di un esotismo familiare. Un nonno che si
perdeva nell’Africa di fine secolo, la cui storia si intreccia con l’inizio
delle colonie e i primi viaggi di esplorazione in un paese antico. L’Etiopia,
regno di Aksum e della regina di Saba, e una nonna di una tribù
oromo, di nome Khadija Ahmed Youssouf” nella città di Harar “coagulo
di etnie” che l’Unesco ha dichiarato patrimonio dell’umanità. E
ci racconta l’amore di Giuseppe che “è un incontro con l’Africa,
cioè con quella parte di sé che sempre racchiude il sentire
fisico dell’essere primitivo. Quel sentire di cui ora sembra deprivato
l’uomo del nuovo secolo”.
gabriella bona
|