Giuliana Bertola Maero "Eco
di voci murate" Edizioni dell’Arco
Recensione
di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
“Quando sono uscita con lui al primo
permesso, per accompagnarlo al corso, si è bloccato davanti a una
vetrina, nella strada centrale della città; non capivo cosa stava
succedendo, finché, con le lacrime agli occhi, non mi ha detto che
era la prima volta, dopo 13 anni, che si rivedeva allo specchio, tutto
intero”: lo stupore di Giuliana Bertola Maero è normale per chi
in carcere, come detenuto, non ci è mai stato ma ci arriva come
volontario e le cose comincia a conoscerle e a capirle ogni volta che se
le trova davanti, con tutto lo stupore che soltanto un mondo così
diverso, così assurdo, può provocare. Un mondo in cui “si
è espropriati anche della consapevolezza del proprio aspetto fisico!”
Dopo aver svolto per molti anni
l’attività di assistente sociale ma senza mai essere entrata, neppure
come visitatrice, in un carcere, ha chiesto al ministero l’autorizzazione
a svolgere servizio volontario presso il carcere di Ivrea. E oggi, in Eco
di voci murate racconta un’esperienza così coinvolgente e sconvolgente.
Persone conosciute, che non sono
quei “mostri di disumanità e di cattiveria” che molti si immaginano
per il semplice fatto di non averli mai visti e conosciuti. Attorno al
carcere “c’è soprattutto una gran quantità di luoghi comuni,
di pregiudizi, di ignoranze che non vogliono aprirsi alla conoscenza”.
Se i detenuti non possono uscire
nel nostro mondo e se il mondo esterno resiste a entrare in carcere, Giuliana
lancia un ponte per unirli, per portare fuori quelle idee, quei caratteri,
quei problemi, quelle figure che ha saputo descrivere con lucidità
e affetto, senza sentimentalismi e senza pregiudizi. Italiani e stranieri,
analfabeti e laureati, persone che fuori hanno una famiglia e amici e chi
non ha nessuno che si prenda cura di loro, persone accusate e condannate
per reati gravi e altri con pochi mesi da scontare, tutti uniti da quella
gabbia che li trattiene, che li divide dal mondo che li ha condannati e
che spera, con la loro reclusione, di poter vivere in pace, nella legalità.
Ma,soprattutto, persone povere, che non hanno un avvocato abbastanza ben
pagato che gli permetta di evitare la detenzione.
L’autrice ha conosciuto i mille
disagi, problemi, incongruenze del sistema penitenziario, la mancanza di
lavoro interno che condanna all’ozio forzato la maggior parte dei detenuti,
i corsi di alfabetizzazione e professionali, che non riescono a rispondere
a tutte le richieste di partecipazione, la paura e l’insicurezza degli
stranieri di fronte al razzismo, gli ostacoli burocratici, la violenza,
la mancanza di cure adatte per i detenuti ammalati, soprattutto quelli
con gravi patologie, e li ha raccolti in queste pagine assieme a temi,
racconti e poesie scritte da detenuti, tracciando un quadro pieno di colori
e di sfumature. “Non è uno studio sulla realtà carceraria”,
ci avverte all’inizio del libro ma penso che queste pagine, assieme agli
interventi che volontari e detenuti in permesso fanno nelle scuole, siano
un modo intelligente e nuovo per portare sempre più persone a scoprire
un mondo che è molto più isolato e sconosciuto di quanto
si pensi. Non sono soltanto cancellate, muri, sbarre alle finestre a dividere
ma l’indifferenza, la paura, la fretta di chi passa davanti a quella cancellata
blu e non si chiede nulla.
Il rapporto umano che l’autrice
ha saputo instaurare con i detenuti, l’affetto, la stima, la fiducia che
ha dato e ricevuto, senza dimenticare il personale e le vittime dei reati,
il lavoro che riempie le sue giornate e i suoi pensieri, sono un modo per
avvicinarsi a quel mondo così complesso, così pieno di dolore
e di speranza, di tristezza e di solidarietà, di un passato che
tortura e di un futuro che spesso non si riesca a immaginare, per incominciare
a conoscerlo.
gabriella bona
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