Manuela Ronchi - Gianfranco
Josti "Un uomo in fuga" Rizzoli Editore
La vera storia di Marco Pantani
Recensione
di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
Se questa sia la “vera” storia di
Pantani, probabilmente non lo sapremo mai. Sicuramente è una storia,
quella scritta da Manuela Ronchi che è stata manager, amica e confidente
del Pirata negli ultimi cinque anni della sua vita e dal giornalista sportivo
del Corriere della sera Gianfranco Josti. Una storia che si dipana
tra la pianura romagnola e le più importanti vette d’Europa, una
storia di sport e di dolore, di vittorie conquistate con rabbia, di una
vita difficile, di una gloria pagata troppo cara.
È il 1993 quando un timido
ragazzo entra nel ciclismo dei professionisti, delle grandi gare, è
minuto, corre come un matto appena la strada comincia a salire e nel 1998
centra un obiettivo che, fino ad allora, soltanto pochissimi atleti avevano
raggiunto. Un solo italiano, prima di lui, aveva vinto il Giro d’Italia
e il Tour de France nello stesso anno: Fausto Coppi e l’ultima vittoria
italiana al Tour risaliva ormai al 1965, con Felice Gimondi.
In Italia scoppia la Pantani-mania,
dopo anni in cui il ciclismo aveva perso pian piano terreno e tifosi, la
bicicletta e la bandana, i club Pantani, i cicloturisti sulle cime dolomitiche,
sono stati un omaggio a uno degli sportivi più amati degli ultimi
anni.
Amato, applaudito, atteso per ore
sulle strade delle corse, cercato dagli sponsor, intervistato, fotografato:
Pantani era diventato l’immagine del ciclismo. E lo è rimasto fino
a quel 5 giugno 1999, quando, alla vigilia della vittoria del secondo Giro
d’Italia consecutivo, gli esami del sangue denunciarono un tasso di ematocrito
troppo alto, il suo allontanamento dalla corsa rosa e l’inizio di un declino
che si sarebbe concluso il 14 febbraio di quest’anno.
Quasi cinque anni di ritiri e ritorni,
di tanti processi e qualche successo, di un amore che non voleva vedere
e di tante, troppe critiche e condanne.
Manuela Ronchi punta il dito accusatore
soprattutto sui giornalisti che hanno coltivato il mito di Pantani finché
ha vinto, per poi abbandonarlo e condannarlo senza pietà.
Ronchi ha iniziato a lavorare con
Pantani alla fine della stagione 1998 e ha dovuto seguirlo proprio nei
momenti più difficili, tentando di dare una logica a quella forte
voglia di riscatto che si incrociava con una dipendenza sempre più
forte dalla droga.
La depressione che da sempre lo
aveva accompagnato, il bisogno di trovare una persona che gli stesse accanto
e le continue liti con la fidanzata Christina, le incomprensioni con i
colleghi, gli sponsor che lo abbandonavano, la paura di essere diventato
il capro espiatorio di un ciclismo malato, le persone poco affidabili di
cui si era circondato, erano un peso troppo grave, di fronte al quale Manuela,
i genitori, i pochi amici veri, i medici che hanno tentato di seguirlo,
poco hanno potuto.
L’impegno e l’affetto di Manuela
Ronchi forse non ci danno la possibilità di leggere una storia vera
ma ci offrono sicuramente una serie di informazioni, considerazioni, notizie,
immagini che permettono di conoscere un uomo che ha rappresentato l’Italia
del ciclismo in modo forte anche se contraddittorio e del quale finora
avevamo sentito raccontare soltanto alcune parti, nei momenti più
alti e più bassi della sua carriera. Il suo è un omaggio
affettuoso, un ritratto appassionato e doloroso e un tentativo di offrirci
una versione equilibrata di un personaggio che per quasi tutta la sua carriera
ci è stato presentato soltanto in tinte estreme.
gabriella bona
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