Andrea Bacci "Cuore di Pollicino"
Limina Editore
Recensione
di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
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Quando è entrato in palestra
aveva 12 anni, la scoliosi e pesava 27 chili. A diciotto anni era alle
Olimpiadi, quattro anni dopo, nel 1984 a Los Angeles, ha vinto la medaglia
d’oro e sul gradino più alto del podio, a Seul ’88, c’era di nuovo
lui. A Barcellona, nel 1992, ha vinto “soltanto” l’argento. Categoria 48
Kg perché un colosso Vincenzo Maenza non lo è diventato,
ma un grande sì, in uno sport povero, uno sport da poveri, che lascia
poveri anche dopo le medaglie, come la lotta greco-romana.
Nato nel 1962, vive a Faenza con
il padre barbiere e la nonna Provvidenza: la madre sedicenne lo ha abbandonato
alla nascita; poi arriveranno una moglie per il padre e tre fratellini
per Vincenzo e Antonio Randi che lo porterà in quella palestra dove
sparirà la scoliosi e nascerà un campione. Ma che vita quella
di “Pollicino”, come è stato ribattezzato per le sue dimensioni
che lo collocano nella categoria dei minimosca! Dieta, sauna, allenamento,
viaggi, gare: dieci mesi lontano da casa, dai tortellini della nonna, da
Roberta e dai suoi bambini Yuri e Danny. Una vita dura e un coraggio che
nasce da un rifiuto, quello della madre (che si farà viva dopo l’oro
di Los Angeles ma senza che riesca a nascere un affetto tra loro) e che
verrà fuori ogni volta che Maenza salirà sulla materassina,
ogni volta che quel tarlo tornerà a torturarlo, dandogli quella
potente motivazione che è necessaria per resistere in uno sport
così duro, “perché tutti gli altri sport, come il calcio,
si fanno per piacere. La lotta no. La lotta o la si odia o la si ama. La
lotta necessita di una convinzione sovrumana per fare bene e per riuscire.
Di motivazioni che stanno dentro di te […] è la tua sfida contro
il tuo malessere, contro i tuoi incubi, contro il nemico interno”.
Sono arrivate così le vittorie
ai campionati italiani, agli Europei, ai Giochi del Mediterraneo, e quelle
splendide megaglie olimpiche, grazie anche alla cura quotidiana di un direttore
tecnico come Vittoriano Romanacci e all’allenatore bulgaro Guro Gurov.
Le vittorie sono lì, eppure
la vita continua a essere difficile: pochissimi soldi per gli sport poveri,
nessuna garanzia per il futuro, quando arriverà l’ora di lasciare
l’attività sportiva, la difficoltà di trovare un impiego
quando allo sport si dedica tutto il proprio tempo, quando non si è
andati a scuola e neppure le forze armate ti vogliono se non sei alto almeno
un metro e sessantacinque. Pollicino è più piccolo e per
anni crede alle promesse di una banca che gli ha promesso un posto, che
non arriverà mai, a fine carriera.
Si arrabbia Maenza, ripensando ai
dirigenti sportivi presenti e commossi alle sue gare vittoriose, alla loro
assenza nei quattro anni tra un’Olimpiade e l’altra. Mai una notizia di
lotta greco-romana sui giornali, mai che si parli di questi sport che poi,
al momento buono, riescono a risollevare il risultato di un’Olimpiade.
O pensando a quanti guadagni e quante sicurezze abbiano sportivi che non
hanno mai dovuto soffrire e lavorare come lui.
Andrea Bacci ha saputo raccogliere
gli aspetti più diversi della storia di Vincenzo Maenza: con interviste,
articoli di giornale, attenzione e affetto ci ha raccontato la vita di
uno sportivo speciale, di un campione che al momento della gara “è
tirato al punto da sembrare un trattato di anatomia” ma che sa sfoderare
uno stile e una forza che battono chiunque gli si presenti davanti. I russi,
i bulgari, i più forti del mondo hanno dovuto chinarsi di fronte
al Pollicino di Faenza che oggi gira l’Italia seguendo ragazzini che lottano
nelle stesse palestre che lo hanno visto crescere, cercando di allevare
nuovi talenti, anche se è difficile convincere un giovane a sottostare
a tanta fatica, a tanti sacrifici. Ma lui ci spera e continua a lavorare
per questo, perché tra qualche anno ci sia un nuovo Maenza e la
bandiera e l’inno di Mameli possano festeggiare un nuovo talento olimpico.
gabriella bona
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