Chahdortt Djavann "Giù
i veli" Lindau Editore
Recensione
di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
“Ho portato dieci anni il velo.
Era il velo o la morte. So di cosa parlo. […] Da tredici a ventitré
anni, sono stata repressa, condannata a essere una musulmana, una sottomessa
e imprigionata sotto il nero del velo”.
Chahdortt Djavann è nata
in Iran e la rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini l’ha vissuta,
come molte altre donne nel suo paese, con rabbia e dolore. Da undici anni
l’autrice di “Giù i veli!” vive in Francia dove ha studiato antropologia,
quella Francia in cui Khomeini viveva prima del 1979 e dalla quale è
partito “con la benedizione di molti intellettuali francesi [che oggi]
firmano, presentano petizioni […] parlano del velo sotto il quale non hanno
mai vissuto”.
Il velo islamico nasconde prima
di tutto un errore, una vergogna: la nascita di una femmina è vissuta
come un’insufficienza, un’impotenza, un’inferiorità ma anche come
“il potenziale oggetto del reato”, visto che si ritiene la donna responsabile
del peccato, dello stupro, di quell’onore che è stato macchiato
e chiede vendetta. “Il velo condanna il corpo femminile alla chiusura perché
quel corpo è l’oggetto sul quale l’onore dell’uomo musulmano si
inscrive”. La ragazza è la garante dell’onore del padre, dei fratelli,
del marito e sono proprio le madri a inculcare quella mentalità
alle figlie: donne che crescono senza istruzione, chiuse in casa, velate
anche in scuole dove allieve e insegnanti sono soltanto donne, negando
il proprio aspetto fin da bambine, che non hanno il diritto né la
forza per parlare e ribellarsi.
È per questo che Djavann
sostiene che “non è in nome della laicità che bisogna vietare
il velo alle minorenni, a scuola o altrove, ma in nome dei diritti dell’uomo
e in nome della protezione dei minori”.
Sono ancora troppo pochi gli intellettuali
islamici che hanno denunciato l’oppressione sulle donne; troppi, invece,
i governi occidentali che, per motivi prettamente economici, continuano
a sostenere i regimi teocratici dittatoriali. Così come sono troppi
coloro che in nome della tolleranza sostengono di non poter vietare a una
giovane musulmana di affermare la propria scelta religiosa portando il
velo islamico. Ma, sostiene l’autrice, il velo è simbolo di discriminazione
sessuale e non di scelta. Autorizzare l’uso del velo nei paesi occidentali
vuol dire perpetuare la dittatura sulle donne, vietare la loro emancipazione,
aumentare il livello della tensione sociale e portare a nuovi integralismi.
Importante, invece, sarebbe aiutare l’emancipazione degli immigrati, molti
dei quali e sono soprattutto donne, vivono in condizioni di disagio e di
emarginazione e non conoscono quasi la lingua del paese in cui vivono.
Soprattutto, è fondamentale
che sia finalmente possibile per le donne musulmane diventare padrone della
propria vita, ritrovando il proprio viso, il proprio corpo, la propria
voce.
gabriella bona
|