Gian Antonio Stella "Odissee"
Rizzoli Editore
Recensione
di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
Si parla molto di emigrazione, di
italiani nel mondo, di coloro che hanno trovato il coraggio - o raggiunta
una tale disperazione – per imbarcarsi e andare lontano, di coloro che
nei nuovi paesi d’oltremare hanno fatto fortuna e di coloro che, una volta
giunti in un paese tanto sognato, hanno trovato le stesse difficoltà
e gli stessi dolori che speravano abbandonati per sempre.
Ma mancava un attento racconto di
quei viaggi, di quelle navi che portavano “gli italiani sulle rotte del
sogno e del dolore”.
Gian Antonio Stella, giornalista
del Corriere della Sera ci propone, con “Odissee”, storie di mare, di malattia,
di dolore, di morte, di speranze e di delusioni. E storie di faccendieri
che sapevano spacciare luoghi selvaggi e inospitali come paradisi e bagnarole
appena in grado di fare qualche viaggio tranquillo come transatlantici
lussuosi pronti ad affrontare il mare e tutti i suoi pericoli per raggiungere
queste terre promesse. Lavoro facile, in quegli anni di fine Ottocento,
in cui il 67% della popolazione era analfabeta, in cui la povertà,
in certe regioni, era estrema, in cui le malattie e le catastrofi naturali
provocavano disagi, malattie e spesso uccidevano.
Famiglie intere vendevano tutto
quello che avevano, partivano a piedi per raggiungere i porti di Genova
e di Napoli e lì salivano su quei barconi che avrebbero continuato
a provocare malattie, disagi e morte. “Schiavi erano. Venduti come schiavi,
comprati come schiavi, trattati come schiavi”, in una tratta che univa
i faccendieri italiani con i fazendeiros brasiliani che ricevevano le “tonnellate
umane” o quello che rimaneva dopo viaggi in cui, a causa delle malattie,
delle avarie, della mancanza di cibo o dei naufragi, centinaia morivano
prima di arrivare.
Spesso senza documenti, sicuramente
sempre senza le minime garanzie igieniche e sanitarie, senza spazio per
muoversi, nessuna garanzia per il viaggio e spesso neppure per la destinazione:
navi che si trasformavano in lazzaretti, anche perché non era prevista
una visita medica per chi si imbarcava, il personale sanitario era scarsissimo
e non aveva nessun potere, mancavano medicinali e generi alimentari di
prima necessità e in buone condizioni, navi che giunte nei porti
di arrivo con il loro carico di malati e la scia di morti abbandonati nell’oceano,
venivano respinte e dovevano tornare a casa: “sono stati inghiottiti a
migliaia, i nostri emigranti, dai mari di tutto il mondo” e queste “stragi
[sono state] dimenticate, cancellate, rimosse. Come qualcosa di cui ci
si vergogna”. Ma qualcuno a bordo scriveva, medici o passeggeri, per mantenere
un ricordo, per denunciare all’arrivo, e dalle pagine dei loro scritti
possiamo recuperare anche questo pezzo nascosto e doloroso della storia
dell’emigrazione.
Chiudono il libro alcuni canti,
pieni di attesa alcuni e di dolore altri, tutti struggenti e bellissimi,
pieni di speranze ancora fresche o già distrutte.
Brasile, Argentina, Stati Uniti,
Australia: mete che soltanto alcuni hanno potuto raggiungere ma quanto
sono costate: discendenti di quei nonni coraggiosi e disperati ancora ricordano
i loro racconti di mille vicissitudini, di famiglie distrutte. Storie che
è giusto ricordare anche perché possono aiutarci a capire
quelle barche che arrivano dall’Albania o dai paesi asiatici, piene di
speranze e di disperazione, anche lì storie di naufragi, di rimpatri,
di faccendieri senza scrupoli.
gabriella bona
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