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    Madeleine Ferrière "Storia delle paure alimentari" Editori Riuniti
    Recensione di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
      
      
    “!Il melone si mangerà come antipasto, servito con sale e con prosciutto crudo che ne attenuerà la natura acquosa e corruttibile”: quella che ci appare come una normale ricetta estiva è in realtà nata da un’antica paura rivolta alla “frutta cruda che sarebbe responsabile della maggior parte dei disturbi intestinali”. 
    Studiando le paure alimentari “dal Medioevo all’alba del XX secolo” Madeleine Ferrière scopre come i cibi abbiano rappresentato enormi problemi e determinato grandi paure. 
    Soltanto la carenza di cibo permette di sottovalutare i pericoli che si possono correre nutrendosi di prodotti avariati, sofisticati, di bestiame malato: nelle zone più povere, dove tutti i cereali dovevano essere venduti, quelli che rimanevano, scarsi di sostanze nutritive e mal conservati, provocavano gravi malattie, così come le parti più pericolose – le interiora – di animali malati. Era ciò che mangiavano le classi più basse della società. La mancanza di conoscenze tecniche e scientifiche, l’impossibilità di distinguere tra le conseguenze di un cibo dannoso e la mancanza di cibi necessari a mantenere la salute, ha determinato teorie errate e conseguenti cure che non guarivano o addirittura peggioravano lo stato di salute. E tante paure, preconcetti e superstizioni. 
    Un altro dato importante per la nascita delle paure alimentari è “il misoneismo […] un riflesso biologico insito nel patrimonio genetico occidentale”. Champier, nel 1560, sostiene che “la vivanda che si è consueti mangiare, quantunque in sé cattiva o nociva, nondimeno è migliore e più conveniente al corpo che la buona vivanda inconsueta”. 
    Ne sa qualche cosa la povera patata che, per il solo fatto di crescere sotto terra, al suo arrivo in Europa è stata osteggiata per anni ed è diventata cibo accettabile soltanto in momenti di carestia. 
    Lévi-Strauss, sostenendo che “perché un cibo sia buono da mangiare, occorre che sia buono da pensare” sintetizza la lunga strada che molti cibi arrivati dal Nuovo Mondo hanno dovuto percorrere per arrivare sulle nostre tavole, così come lungo è stato il lavoro di medici e scienziati per estirpare vecchie abitudini tanto radicate quanto nocive. 
    Mancanza di leggi e di regolamenti, nocività dei metalli in cui i cibi erano cotti, conservati e consumati, alchimie domestiche che portavano a mischiare i più strani ingredienti per rendere commestibili cibi avariati, sofisticazioni alimentari messe in atto per aumentare la quantità, per migliorare l’aspetto, per andare incontro ai gusti dei consumatori, pericoli sottovalutati, strani metodi di cottura: Ferrière ci offre un panorama ampio e dettagliato di un percorso durato centinaia di anni. Alcune pagine sono raccapriccianti, raccontano un rapporto con il cibo talmente farraginoso e talvolta insensato che c’è quasi da chiedersi come si sia riusciti a sopravvivere fino a oggi. 
    Certamente le malattie e la morte dovute all’alimentazione e alla mancanza di adeguate misure igieniche in quegli anni erano diffusissime (e lo sono ancora in tante parti del mondo anche in questo nuovo millenio). E forse tante paure che ancora oggi trovano terreno fertile per dilagare sono figlie di quelle paure antiche, di quella paura delle novità, di quel guardare a tutto ciò a cui non siamo abituati come a un possibile veleno. 
       
    gabriella bona 
   
 
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