Enrico Calamai "Niente asilo
politico" Editori Riuniti
Recensione
di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
“Almeno cento persone sanno che
gli devono la vita, circa trecento sono le pratiche che testimoniano dei
‘casi’ di cui si è interessato”: Enrico Calamai aveva 27 anni quando
partì per l’Argentina, nel 1972, per lavorare al Consolato italiano
di Buenos Aires. Arrivò via mare, con l’ultimo viaggio transatlantico
della motonave Giulio Cesare e trovò un paese sull’orlo del collasso,
rimasto sotto l’ombra del peronismo nonostante Perón fosse in esilio,
che risentiva del clima teso e instabile del continente latino americano
che avrebbe portato, nel 1973 al golpe di Pinochet in Cile.
Giovane, in uno stato profondamente
italiano eppure così lontano, in senso fisico, politico e morale
da quell’Italia che in Argentina era presente con milioni di emigrati e
con i grandi gruppi economici come Fiat, Pirelli, Magneti Marelli, Ferruzzi,
Rizzoli a sfruttare tutte le risorse possibili.
!972-1977: Enrico Calamai vive quegli
anni (a parte una breve parentesi di due mesi, nel 1974, in Cile in sostituzione
di un collega) in un tentativo tanto coraggioso quanto vano di far sentire
la presenza dell’Italia a chi ne aveva bisogno, tra l’indifferenza e il
fastidio di chi lo vedeva ogni giorno lavorare lottando contro i mulini
a vento.
Leggendo il resoconto delle sue
giornate di lavoro, delle sue coraggiose iniziative, dei rischi corsi personalmente,
suona incredibile che Calamai sostenga: ”Mi sono comportato come qualsiasi
altro uomo avrebbe fatto in un caso così eccezionale”, soprattutto
sapendo quanti hanno fatto finta di non vedere o si sono messi dalla parte
di chi permesso prima e gestito poi gli anni della dittatura.
Calamai è un poeta e uno
scrittore, capitato per caso nel mondo della diplomazia internazionale,
un sognatore e un idealista ma anche un uomo concreto che ha saputo sfidare
le alte gerarchie e grandi pericoli per aiutare chi era in pericolo, chi
doveva fuggire, chi aveva bisogno di un appoggio.
Il ritorno di Perón, la presidenza
di Isabelita, la Triplice A, l’Alianza Anticomunista Argentina di Lopez
Rega, l’inflazione, il degrado morale, i giovani desaparecidos, le madri
di Plaza de Mayo, sono lo scenario della permanenza argentina di Calamai.
Pochi amici fidati, come Giangiacomo
Foà del Corriere della Sera e il sindacalista Filippo Di Benedetto,
per proseguire in un lavoro enorme. Inviato dallo stato italiano e abbandonato
a se stesso, Calamai può rendersi conto delle assurdità delle
leggi italiane, del comportamento scorretto del Ministero per gli affari
esteri, dell’uso strumentale degli emigrati e delle loro associazioni da
parte dei governi e dei politici italiani, delle assurde e perverse alleanze
che possono crearsi tra stati e blocchi diversi per spartirsi un paese
ricco come l’Argentina. Ma, benché disgustato da ciò che
vede ogni giorno, stanco per gli ostacoli che vengono messi al suo lavoro,
Calamai proseguirà fino al 1977 quando, richiamato in Italia, tenterà
di cambiare la politica italiana verso gli italiani in Argentina.
Una testimonianza profonda e preziosa,
non un documento politico ma un atto di affetto e condivisione, “un’opera
di reale promozione e tutela di quello che si suole chiamare i diritti
umani e, più in generale, della pace. Tentando di diffondere la
conoscenza delle loro violazioni”.
gabriella bona
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