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    Italo Fontana: "Non sulle mie scale" - editrice Donzelli 
    Recensione di Gabriella Bona
      
      Da anni le città dei paesi europei, piccole e grandi, si sono ritrovate a dover fare i conti con l’immigrazione straniera proveniente dai paesi poveri. 
    Tra tavole rotonde e convegni sulla tolleranza e contro il razzismo, tra camicie verdi e ronde notturne armate, tra feste interetneiche e un numero sempre più alto di cittadini delle zone “a rischio” che richiedono il porto d’armi, c’è chi si ritrova a vivere personalmente e quotidianamente con i rischi che i fenomeni migratori creano e cerca di affrontare la situazione mantenendosi lontano da sterili ragionamenti e prese di posizioni o da atteggiamenti violenti. 
    Italo Fontana, autore di “Non sulle mie scale”, edito da Donzelli, è un uomo di settantacinque anni, medico psichiatra, sposato con una collega, senza figli, che vive a Torino nel quartiere San Salvario, in un antico palazzo e nello stesso alloggio in cui abitò Quintino Sella. Nel libro narra la sua storia, iniziata nel 1995, quando, di fronte ad un numero di persone , sempre più alto, che a qualsiasi ora del giorno e della notte occupa i marciapiedi della via, le scale e i pianerottoli del palazzo e le soffitte affittate ad un numero impressionante di persone dedite a vari rami di attività illegali, decide di “armarsi” di carta e penna per denunciare la situazione di degrado in cui si trova a vivere quotidianamente. Scrive a tutte le istituzioni, dal sindaco alle forze dell’ordine, dall’ufficio d’igiene ai giornali. Ma non riceve risposte, non trova spazi per far ascoltare la sua storia, tutti sono troppo occupati a dividere i buoni dai cattivi, i razzisti dai tolleranti o a confondere le carte assimilando delinquenza e immigrazione o a cavalcare, a fini elettorali, il disagio e la paura dei cittadini oppure, come ha fatto il sindaco di Torino, ad “emanare una disposizione grazie alla quale non si sarebbe più dovuto usare la parola ‘extracomunitario’: si sarebbe dovuto sostituire con un termine che identificasse il luogo esatto di origine” come se fosse facile capire dalla faccia di una persona da quale paese provenga. 
    Di fronte alla “risposta zero”, nonostante la tentazione all’omertà, non vedere e non sentire per continuare a vivere tranquilli, Fontana prosegue la sua lotta solitaria: con il padrone dell’albergo confinante riesce a comprare le soffitte del palazzo e a debellare, almeno nel suo stabile, “la delinquenza dei bianchi proprietari delle soffitte che da un locale di meno di quattordici metri quadrati, senza servizi, […] riuscivano a lucrare fino a mezzo milione al mese”. Allontanati gli scomodi inquilini, elimina dal palazzo il continuo viavai, il traffico di droga, i morti per overdose sulle scale, la sporcizia e i continui guasti ad ascensore, porte, luci e cassette delle lettere; con la collaborazione con pochi ma solleciti rappresentanti delle forze dell’ordine riesce ad allontanare gli spacciatori e ad interrompere i facili guadagni dei padroni delle soffitte. 
    Il libro è il racconto di questi anni, di questi tentativi, a volte maldestri, a volte pericolosi per l’incolumità propria e della moglie, che possono in alcuni passi far torcere il naso a chi legge ma che sono anche un aiuto a capire, a ragionare, a non lasciarsi trascinare da facili percorsi mentali o dalla pigrizia che porta ad inutili o pericolosi stereotipi. 
    “Dopo anni d’inferno, oggi finalmente posso dire di essere tornato un uomo sereno”, scrive l’autore e la serenità non gli deriva tanto dalla tranquillità a cui è tornato il palazzo quanto al sentire di aver fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità e di aver finalmente trovato, grazie alla sua eccezionale costanza, personaggi autorevoli che lo hanno ascoltato, come Furio Colombo che ha scritto la prefazione al libro, il sostituto procuratore di Torino Paolo Borgna e Marzio Bargagli, autore del volume “Immigrazione e criminalità in Italia” (recensito sul Risveglio popolare n.38/98). 
      
    gabriella bona

 
 
 
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