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    Drauzio Varella: "Estação Carandiru" - Companhia das Letras 
    Recensione di Gabriella Bona
      
    Anche se non è facile trovarlo e, comunque, esiste soltanto in lingua originale, mi sembra importante segnalare il libro “Estação Carandiru”, pubblicato dalla Companhia das Letras e scritto dal medico brasiliano Drauzio Varella. 
    Alla fine di febbraio i giornali hanno riportato la notizia della ribellione delle carceri brasiliane: ventiquattro prigioni si sono sollevate contemporaneamente, collegate con telefoni cellulari al più grande carcere dell’America latina, il Carandiru di São Paulo: i morti sono stati 15, cinquemila gli ostaggi tra i famigliari in visita. 
    Anche per chi conosce il sistema carcerario italiano, è difficile capire come possano verificarsi situazioni simili. 
    Ma Carandiru, progettato negli anni ’20. ospita 7200 persone, circa tre volte la capienza prevista, il personale di sorveglianza è pochissimo e non armato, le armi che girano in carcere sono molte ma non legali, le violenze e le vendette sono all’ordine del giorno, tra detenuti e con le guardie penitenziarie, la posizione sociale dei detenuti e di molte guardie è molto bassa come dimostra la targa posta da un vecchio direttore che trascorse molti anni dirigendo questo carcere: “E’ più facile per un cammello entrare nella cruna di un ago, che per un ricco entrare in una casa di detenzione”. 
    Povertà, malattia, vecchi e nuovi rancori, droga, debiti contratti dentro o fuori dal carcere, sono gli elementi scatenanti di una continua violenza. 
    Le visite sono concesse nelle giornate di sabato e domenica e nei giorni festivi (in Italia ciò non avviene, le visite dei parenti sono concesse dal lunedì al sabato e soltanto se non sono giorni festivi) e la grande massa di persone che si riversa nel carcere, nelle mense, nelle sezioni, nelle celle non può essere interamente controllata e così, assieme ad abiti, alimenti ed altri oggetti concessi, entrano armi, droga, telefoni cellulari. I pochi addetti al controllo, inoltre temono le mafie interne e molti, visti anche i bassi stipendi che percepiscono, sono corrotti. 
    Drauzio Varella lavora a Carandiru dal 1989: ha iniziato come volontario in un programma di prevenzione dell’AIDS, ha continuato a lavorare negli anni successivi come medico carcerario, in strutture assolutamente inadatte al lavoro che deve svolgere, di fronte, molte volte, a malattie che è lo stesso sistema carcerario a provocare: ferite, infezioni, dermatiti, obesità. Ha conosciuto i vari padiglioni, le celle di isolamento, ha seguito l’evoluzione in questi anni, ha visto quanto sia lontana la realtà da quello che ci fanno vedere nei film in cui si parla di carcere. 
    Ha conosciuto persone di ogni genere, dai più ricchi (di solito grandi spacciatori) che comprano le celle ed affittano posti letto, ai più poveri che sono costretti a dormire sul pavimento di enormi stanze comuni. Ha toccato con mano la diffidenza dell’istituzione carceraria nei confronti dei volontari: “All’inizio ebbi l’impressione che i funzionari non si fidassero di me. Dopo ne ebbi la certezza. […] Di fatto alle guardie di presidio non piacciono le persone estranee all’ambiente di lavoro. […] I militanti delle associazioni di difesa dei diritti umani e la Pastorale carceraria della Chiesa cattolica sono generalmente malvisti”. Ha incontrato persone detenute con cui sono nati rapporti di fiducia, di rispetto reciproco, di fiducia e di amicizia, soprattutto tra i suoi pazienti e tra i detenuti che hanno lavorato con lui (posti di lavoro, in carcere, sono pochi e molto ambiti: ogni tre giorni di lavoro si ha diritto ad un giorno di sconto sulla pena). 
    Varella racconta i lunghi anni trascorsi a Carandiru attraverso le parole dei detenuti, il gergo, i meccanismi interni ed esterni della società, che lentamente riesce a decifrare. 
    La voglia di vivere e la paura di morire, la solidarietà e il codice comportamentale, il lavoro e lo sport, le spietate vendette e la sottile ironia nel battezzare FIFA (Federação Interna de Futebol Amador) il gruppo che dirige tutta l’attività calcistica interna, sono descritte nel libro con l’appassionato atteggiamento che spesso nasce in chi lavora come volontario in carcere. 
    Sono ancora i detenuti, attraverso le pagine del libro di Varella, a raccontare il massacro del 2 ottobre del 1992: 111 morti secondo la versione ufficiale, più di 250 secondo i detenuti (e neppure una guardia o un militare): un momento di assurda ferocia giustificato dal bisogno di porre fine ai disordini interni. 
    Da Carandiru, i detenuti che riescono ad uscire per fine pena o per evasione (sono molto frequenti), sono più feriti, più amareggiati, più sfiduciati di quando sono entrati. Portano con sé un carico di dolore, di rabbia, di malattie, di debiti e di crediti fisici e morali contratti tra le sbarre, che gli garantiranno una vita sicuramente più difficile di quella precedente alla detenzione. La stessa cosa succede in tutti i carceri del mondo ma è proporzionale alle condizioni in cui si sono trascorsi quegli anni. E Carandiru è un vero inferno 
      
    gabriella bona
 
 
 
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