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    Vari autori: "Debito da morire" - Edizione Baldini & Castoldi
    Recensione di Gabriella Bona
      
     Si è parlato molto, nel 2000, anno del Giubileo, di debito estero dei paesi poveri. Si è parlato di riconversione e di cancellazione, di economie deboli, di paesi in via di sviluppo ma spesso, per eccesso di sintesi, per la frammentarietà delle informazioni, per carenza di conoscenze specifiche, sono sorti dubbi e si sono formate convinzioni confuse od errate. 
    UNA, la stuttura costituita dalle Ong Acra, Africa 70, Cast, Cespi, Cesvi, Coopi e Grt, ci propone il volume “Debito da morire”, pubblicato da Baldini & Castoldi, curato da D. Demichelis, A. Ferrari, R. Mastro e L. Scalettari e con la prefazione di Alex Zanotelli: “trentatré testimonianze sulla cancellazione del debito e i suoi inganni”. 
    Un libro che aiuta a capire come il debito estero stia portando alcuni paesi alla più assurda povertà ed abbia, invece, prodotto uno stato di eccezionale benessere negli Stati uniti. Mette in rilievo la profonda contraddizione dell’Italia che ha approvato una legge assolutamente all’avanguardia sul condono del debito ma che, di fronte alla direttiva ONU (vecchia ormai di vent’anni) che invitava i paesi ricchi a destinare lo 0,7% del Pil ad aiuti a paesi poveri, continua a destinare soltanto lo 0,2%. 
    Quanto ci costerà questa cancellazione? Il timore dei cittadini dei paesi ricchi, di fronte al possibile abbassamento del proprio reddito, è abbastanza normale. Ma poi si viene a sapere che, in Italia, corrisponderebbe a 4.000 lire (anche se per 30 anni) per ognuno. 
    Si è spesso tenuto conto della necessità del condono come atto di solidarietà, di assistenza o di carità verso i più deboli. In realtà, quello che è necessario è un atto di giustizia: rendersi conto (e agire di conseguenza) che molti di questi paesi sono stati resi poveri, anche se sono ricchissimi (Brasile, paesi del sud dell’Africa) da colonizzazioni selvagge, da parte delle nazioni ricche prima, delle imprese poi; capire come il debito estero di questi paesi, quasi sempre contratto in dollari, si sia improvvisamente quadruplicato quando, tra il 1978 e il 1979, il valore della moneta USA è passato da 600 a 2200 lire italiane; rendersi conto che le norme siano dettate sempre e soltanto dai paesi ricchi, che il debito dei paesi poveri è nato soprattutto da finanziamenti che Stati uniti e paesi europei hanno largamente elargito a generali e dittatori per mantenere equilibri in zone in cui volevano fossero tutelati i loro interessi. 
    I parametri per poter accedere alla riconversione o alla cancellazione del debito sono stabiliti dalla Banca mondiale e dall’FMI, gestiti dai paesi ricchi e prevedono che i paesi poveri “si impegnino a rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali, a rinunciare alla guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”: principi che i paesi ricchi violano regolarmente senza che nessuno li controlli. 
    Sono quasi tutti critici, gli interventi contenuti nel volume, verso la riconversione e la cancellazione fatte in base a questi paramentri e spicca soprattutto l’intervista a Muhammed Yunus che in Bangladesh, suo paese natale, ha fondato la “Banca del villaggio” nel 1977: un sistema di finanziamento senza garanzie ai cittadini più poveri che mai avrebbero potuto trovare nel loro misero salario la possibilità di emanciparsi dalla povertà, una banca che ha concesso crediti a 39mila villaggi in Bangladesh  ed ad altri 57 paesi tra cui Norvegia. Polonia, Bosnia, Canada, Bolivia, Argentina. Parlando della cancellazione del debito Yunus dice: “Se anche vengono cancellati i debiti di un paese, che cosa ci garantisce che i poveri ne trarranno beneficio? Niente. Come verrà utilizzato da parte dei governi questo condono? […] Cancellando i debiti, infine, si fa un favore ai dittatori che li hanno contratti”. 
    Visto che i debiti dei paesi poveri sono serviti soprattutto a finanziare i paesi ricchi (e le tristi vicende della cooperazione internazionale verso i paesi in via di sviluppo non possono essere dimenticate), è necessario abbattere, prima di tutto, quel muro che divide chi fa le regole da chi deve rispettarle, chi consuma da chi produce (oggi un quinto dell’umanità consuma l’80% delle risorse), chi devasta il territorio altrui per trarne guadagno da chi deve pagare i danni, chi può accedere a beni di base come l’istruzione e la sanità da chi deve vivere tra ignoranza e malattie, chi impone barriere doganali altissime perché i prodotti del terzo mondo non possano arrivare sui nostri mercati da chi vive tra le montagne di spazzatura nelle periferie delle metropoli del terzo mondo, chi produce armi nei paesi ricchi da chi viene sommerso dal debito estero per aver acquistato quelle stesse armi. 
    Lasciarsi trascinare da un entusiasmo solidaristico può provocare nuovi danni, conoscere e capire le ragioni degli altri, dei poveri, di chi lavora con loro, può elevare il livello di conoscenza e di coscienza di tutti, può portare a misure che siano interventi di giustizia e di vera collaborazione. 
      
    gabriella bona

 
 
 
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