Raccontare. In una
sola parola è possibile vedere mille cose diverse: dai grandi narratori
alle serate che i contadini passavano nel caldo delle stalle, i ricordi
d’infanzia e le più drammatiche testimonianze.
Ma a chi si racconta?
E come, perché, quando, usando quali mezzi e quali parole? La narrazione
è soprattutto un’attività orale, non soltanto perché
l’arte di raccontare è nata tra persone che portavano le loro storie
da un luogo all’altro e da una generazione all’altra oralmente ma, anche,
perché è la nostra vita di ogni giorno che è un intreccio
di storie e di racconti, uno scambio di parole attraverso le quali la realtà
prende una forma precisa, viene conosciuta, rende riconoscibili fatti e
persone.
“Storie comuni –
la narrazione nella vita quotidiana” del sociologo Paolo Jedlowski, edito
da Bruno Mondadori, analizza proprio i “racconti che facciamo oralmente,
nelle conversazioni ordinarie e in quelle meno ordinarie che punteggiano
la nostra vita di ogni giorno”.
Raccontare è
instaurare relazioni sociali e in ogni racconto sono fondamentali i fatti
avvenuti, la forma del racconto e la relazione che si instaura tra chi
racconta e chi ascolta, gli stimoli reciproci che intervengono tra il narratore
e il suo pubblico.
“Narrare – scrive
l’autore – è un’azione transitiva. Lo è in senso duplice:
si narra qualcosa e si narra a qualcuno”. Si narrano favole ai bambini,
si chiacchiera, si racconta, ci si confessa, il piacere e il bisogno di
narrare e di ascoltare sono profondi in tutti noi.
Una delle più
importanti funzioni del raccontare “è quella di rovesciare
il tempo con la memoria, opporre la memoria alla morte”. Raccontare
è evitare il pericolo che parti della nostra o di quella altrui
vita possano essere dimenticate, momenti e personaggi che riteniamo, nel
bene o nel male, importanti.
Sono, sottolinea l’autore
nel libro, soprattutto le donne a raccontare, ad essere “custodi della
memoria del gruppo” e la loro narrazione è stata soprattutto
orale, dove le storie creano un legame tra le persone e le generazioni,
sviluppano il senso della comunità, creano un linguaggio che rimane
legato al gruppo e alle sue tradizioni, crea un’empatia, un sentire in
comune.
Sembra che oggi “la
cultura moderna tenda a riservare alle narrazioni un posto subordinato
[privilegiando] l’informazione o il discorso scientifico”. In
realtà, nella vita di ogni giorno, benché siano talvolta
cambiati i modi e gli strumenti della comunicazione, rimangono la voglia
di raccontare e di ascoltare storie. E se “le vicende umane non sono
‘storie’ in se stesse [ma] la storia è un ordine artificiale
creato da colui che le narra”, raccontare non è un’attività
destinata ad estinguersi.
Come sottolinea l’autore,
“tutti hanno la loro storia e le loro storie. Credo che se vogliamo
capirci l’un l’altro, non possiamo prescindere né dalla prima né
dalle seconde”.
Raccontare ed ascoltare,
mettere in comune storie, momenti, culture anche perché, come scrive
Peter Bichsel, in una frase citata nel libro, “il mondo avrebbe un aspetto
migliore se permettessimo al nostro amico, alla nostra amica, a nostra
moglie, a nostro marito, ai nostri figli e anche al nostro amico ammalato,
le loro storie”.