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    Paolo Jedlowski  "Storie comuni - la narrazione quotidiana" - edizione Bruno Mondadori
    Recensione di Gabriella Bona
        
    Raccontare. In una sola parola è possibile vedere mille cose diverse: dai grandi narratori alle serate che i contadini passavano nel caldo delle stalle, i ricordi d’infanzia e le più drammatiche testimonianze. 
    Ma a chi si racconta? E come, perché, quando, usando quali mezzi e quali parole? La narrazione è soprattutto un’attività orale, non soltanto perché l’arte di raccontare è nata tra persone che portavano le loro storie da un luogo all’altro e da una generazione all’altra oralmente ma, anche, perché è la nostra vita di ogni giorno che è un intreccio di storie e di racconti, uno scambio di parole attraverso le quali la realtà prende una forma precisa, viene conosciuta, rende riconoscibili fatti e persone. 
    “Storie comuni – la narrazione nella vita quotidiana” del sociologo Paolo Jedlowski, edito da Bruno Mondadori, analizza proprio i “racconti che facciamo oralmente, nelle conversazioni ordinarie e in quelle meno ordinarie che punteggiano la nostra vita di ogni giorno”. 
    Raccontare è instaurare relazioni sociali e in ogni racconto sono fondamentali i fatti avvenuti, la forma del racconto e la relazione che si instaura tra chi racconta e chi ascolta, gli stimoli reciproci che intervengono tra il narratore e il suo pubblico. 

    Narrare – scrive l’autore – è un’azione transitiva. Lo è in senso duplice: si narra qualcosa e si narra a qualcuno”. Si narrano favole ai bambini, si chiacchiera, si racconta, ci si confessa, il piacere e il bisogno di narrare e di ascoltare sono profondi in tutti noi. 

    Una delle più importanti funzioni del raccontare è quella di rovesciare il tempo con la memoria, opporre la memoria alla morte”. Raccontare è evitare il pericolo che parti della nostra o di quella altrui vita possano essere dimenticate, momenti e personaggi che riteniamo, nel bene o nel male, importanti. 

    Sono, sottolinea l’autore nel libro, soprattutto le donne a raccontare, ad essere “custodi della memoria del gruppo” e la loro narrazione è stata soprattutto orale, dove le storie creano un legame tra le persone e le generazioni, sviluppano il senso della comunità, creano un linguaggio che rimane legato al gruppo e alle sue tradizioni, crea un’empatia, un sentire in comune. 

    Sembra che oggi “la cultura moderna tenda a riservare alle narrazioni un posto subordinato [privilegiando] l’informazione o il discorso scientifico”. In realtà, nella vita di ogni giorno, benché siano talvolta cambiati i modi e gli strumenti della comunicazione, rimangono la voglia di raccontare e di ascoltare storie. E se “le vicende umane non sono ‘storie’ in se stesse [ma] la storia è un ordine artificiale creato da colui che le narra”, raccontare non è un’attività destinata ad estinguersi. 

    Come sottolinea l’autore, “tutti hanno la loro storia e le loro storie. Credo che se vogliamo capirci l’un l’altro, non possiamo prescindere né dalla prima né dalle seconde”.  

    Raccontare ed ascoltare, mettere in comune storie, momenti, culture anche perché, come scrive Peter Bichsel, in una frase citata nel libro, “il mondo avrebbe un aspetto migliore se permettessimo al nostro amico, alla nostra amica, a nostra moglie, a nostro marito, ai nostri figli e anche al nostro amico ammalato, le loro storie”.

        
    gabriella bona

 
 
 
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