IVREA - INCONTRO CON ELENA BARTOLINI
E CESARE RAGAZZI
LA DINAMICA
DELLA TESHUVA’
CONVERSIONE NELL’EBRAISMO
E NEL CRISTIANESIMO
Già nella forma l’incontro era
inconsueto: due relazioni nella stessa serata, dalle 18 alle 23 con intervallo
per uno spuntino, nei locali della Scuola Teologica, nella casa Warmondo,
venerdì 7. Ma più inconsueto il taglio con cui è stato
affrontato il tema della conversione, oggetto di tante riflessioni in questo
anno giubilare.
Due profondi conoscitori
dell’ebraismo, Elena Bartolini e Cesare Ragazzi, hanno parlato su “Dinamica
della Teshuvà (conversione) nella rivelazione ebraico-cristiana’’.
Numeroso e attentissimo il gruppo che si è impegnato nella non facile
serata.
Elena Bartolini, più
volte ascoltata a Ivrea, particolarmente attiva nel dialogo ebraico-cristiano,
ha illustrato il concetto della conversione nell’Antico Testamento e nella
tradizione rabbinica, con ricchezza di citazioni e analisi dei riti e dei
vocaboli. Dobbiamo riconoscere che, generalmente, noi cristiani conosciamo
assai poco dell’ebraismo o addirittura lo conosciamo male. La Bartolini
ce ne ha mostrato alcuni aspetti di grande significato spirituale.
La Teshuvà, cioè
la conversione, si svolge con una logica di reciprocità tra l’uomo
e Dio, che è la logica dell’alleanza. Dio invita l’uomo a ritornare
a Lui, lo invita a discutere, gli va incontro, gli promette il Suo aiuto
se l’uomo ritornerà. Ma per ottenere la misericordia di Dio è
indispensabile il pentimento; non servono i sacrifici espiatori senza di
esso e il pentimento porta con sé la riparazione del male fatto.
Due feste, Capodanno e
Kippur, sono segnate particolarmente da questo cammino di conversione.
Rash haShanà, il Capodanno ebraico, in autunno, è una festività
essenzialmente religiosa, che celebra l’origine del mondo; le preghiere
rituali invocano la misericordia di Dio, chiedendo perdono, e chiamandolo
“Padre’’. Si legge anche la storia di Abramo, della sua chiamata e delle
sue prove, dove l’imperativo con cui Dio chiama Abramo va inteso non tanto
in senso letterale, quanto come esortazione a scoprire il progetto di Dio
sul suo popolo.
Dopo 10 giorni è
il giorno di Kippur, cioè del perdono e questi 10 giorni sono dedicati
a un esame di coscienza sistematico e alla riparazione concreta del male
fatto. Il Kippur è giorno di lungo digiuno (25 ore), ma questo digiuno
è efficace per il perdono solo se chi lo fa si è prima rappacificato
col prossimo. E’ una festività molto sentita anche da chi comunemente
non pratica; la sinagoga si riempie (un po’ come succede per noi a Natale)
e questo è già un segno del valore della festa, perché
in genere le feste ebraiche sono celebrate in famiglia. Una nota personale
raccontata dalla Bartolini può darci un’idea di quanto sia sentita
questa necessità di perdono: in quei giorni lei riceve molte telefonate
da persone che vogliono assicurarsi che non esista fra di loro nessun motivo
di risentimento. Il rito è molto lungo e complesso e si compie anche
in ginocchio (gesto piuttosto raro per l’ebreo); si chiede a Dio di essere
sciolti dai “voti’’ fatti a Lui, cioè gli impegni presi con Lui,
perché la misericordia di Dio è gratuita e il vero impegno
deve essere quello verso il prossimo: si va a Dio solo attraverso i rapporti
umani. Si compie una confessione comunitaria, con 44 confessioni di peccato,
sempre al plurale, battendosi il petto. Nella liturgia della parola asi
leggono i passi relativi al capro espiatorio, le vicende del progeta Giona,
che mostrano l’amore di Dio per tutti gli uomini che si pentono, le forti
parole di Isaia, che comanda di non digiunare più (ed è quello
che gli ebrei stanno facendo!) ma piuttosto di praticare la giustizia.
Alla fine della cerimonia si apre l’arca che contiene i rotoli della Legge,
quale segno del perdono divino. Nell’antica Israele si concludeva con l’uscita
delle giovani vergini nelle vigne e con la loro danza.
Cesare Ragazzi ha studiato
filosofia e teologia a Milano e a Gerusalemme e insegna lingua e cultura
ebraica a Milano. La sua relazione ha preso in esame la conversione in
alcuni passi del Nuovo Testamento, osservando anche i termini precisi del
testo greco. Nei sinottici si usa la parola “matanoia’’, per il battesimo
del Battista, che si può tradurre conversione o pentimento, inizio
di ritorno a Dio: è il cambiamento di mentalità, la consapevolezza
di essersi allontanati da Dio, l’apertura ad una esistenza nuova. Dio solo
può rimettere i peccati, se l’uomo si pente: Dio rispetta la libertà
dell’uomo. La parabola del “ritorno’’ (come è meglio chiamare quella
detta di solito del figliol prodigo) racconda in modo chiarissimo la misericordia
del padre, che lascia andare via il figlio (per rispetto alla sua libertà),
ma lo aspetta sempre, lo vede arrivare, non dimostra risentimento, ma davanti
al pentimento del figlio lo riveste (atto di misericordia) gli dà
l’anello, segno di autorità, fa festa con lui. Il peccatore è
sempre caro a Dio. Fuor di metafora, il figlio minore può significare
le genti arrivate in un secondo tempo alla fede, il figlio maggiore è
Israele, fedele da sempre. E oggi possiamo vedere in queste figure i vecchi
fedeli e gli ultimi arrivati.
Nella discussione seguita
a queste dense relazioni (ben più ricche di queste brevi note) è
stato messo in risalto come occorra leggere il Nuovo Testamento tenendo
presente la teologia dell’Antico e anche che la logica ebraica non è
quella occidentale. Tra Antico e Nuovo c’è relazione, non contrapposizione
e il Cristianesimo oggi non è più inteso, come un tempo,
quale sostituzione dell’Ebraismo, bensì in dialogo con esso.
liliana curzio
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