Sono stato ancora una volta in Centro America col pellegrinaggio di una cinquantina di amici di Pax Christi (e con il Presidente italiano Mons. Bona, Vescovo di Saluzzo). L’abbiamo chiamato "pellegrinaggio giubilare’’ perché siamo andati sulle tombe dei martiri, di Mons. Gerardi a Guatemala e di Mons. Romero a San Salvador. Tutti e due sono stati uccisi per aver preso le difese dei poveri, sfruttati e perseguitati, tutte due con la chiara coscienza dell’imminente martirio, il primo dopo aver presentato la documentazione dei diritti umani calpestati dall’esercito, il secondo dopo aver proclamato pubblicamente che i soldati non dovevano sparare sulla folla, anche se comandati. Tutto il Salvador convergeva in questi giorni sulla persona di Mons. Romero: l’abbiamo ricordato al mattino in una celebrazione all’Hospitalito, il piccolo ospedale per cancerosi dove si ritirava negli ultimi tempi e dove fu assassinato mentre celebrava la Messa. Ci si è diretti a piedi (c. 5 km.) verso la Cattedrale, dove l’Arcivescovo ha presieduto la concelebrazione per così dire ufficiale; mentre alle 18 il Card. Mahony Arcivescovo di Los Angeles ha celebrato in una grande piazza. Al termine della Messa la fiumana della gente è confluita (altri 5 km., in oltre cinquantamila!) con una singolare Via Crucis, nella piazza della Cattedrale per una liturgia ecumenica durante la quale han portato la loro testimonianza rappresentanti delle varie confessioni cristiane. L’abbiamo ricordato anche fuori della città con una Messa in una delle comunità seguite dalla signorina milanese di Pax Christi che da molti anni lavora con i poveri in Salvador, e in una Messa domenicale - con un matrimonio - nel villaggio di P. Rutilio Grande, il gesuita assassinato "per sbaglio’’ dall’esercito sulla strada di Aguilares (una croce ricorda lui e i due paesani che l’accompagnavano, finiti con un colpo alla nuca perché non potessero testimoniare). Fu proprio nella veglia intorno alla sua salma che Mons. Romero si rese conto che lui, considerato un "conservatore’’ e perciò voluto dal dittatore come Arcivescovo della capitale, doveva invece dedicarsi alla solidarietà ed alla difesa dei più poveri e più oppressi. Quanto si dice e si scrive di lui e quanto si pubblica dei suoi scritti dimostra che si trattava di un buon pastore, il quale però credeva fino in fondo alla sua missione, pronto a dare per essa anche la vita. Chi gli era vicino confida che nelle ultime settimane si documentava sui martiri, anche se non si sentiva degno della grazia del martirio. Abbiamo avuto modo di accostare molti Vescovi latino-americani, a cominciare da due che hanno presieduto la celebrazione dell’Hospitalito: uno era Mons. Samuel Ruiz, Vescovo messicano del Chiapas, di cui si è parlato per le esitazioni del Vaticano a dargli un successore della sua stessa linea (ma ha istituito nella sua Diocesi quattrocento diaconi ed oltre dodicimila catechisti): "Chiunque mandino al mio posto - diceva - la Diocesi continuerà a camminare, se il Vescovo non vorrà camminare resterà solo!’’. L’altro Vescovo, molto conosciuto e molto amato in Salvador (è stato lui a lanciare lo slogan di: San Romero dell’America Latina), è Mons. Pedro Casaldaliga, spagnolo ma Vescovo in Brasile. Abbiamo sentito da lui - a conclusione di alcuni giorni di convegno di un movimento specifico dell’America Latina - una lucida conferenza sul neoliberismo. Al termine han chiesto anche a me un saluto: ho fatto notare quanto noi europei dovremmo apprendere dall’entusiasmo e dal coraggio delle giovani Chiese, e di come Mons. Romero ci insegna che l’essere dalla parte dei poveri, che in Europa viene identificato in un’ideologia, risulti invece come coerenza cristiana! Il convegno era all’Università cattolica dei Gesuiti, dove sei Padri (e due domestiche) furono assassinati, accusati di essere i teorici del rinnovamento. Due cose mi hanno colpito ancora una volta: primo come un uomo mite, perfino timido, ma attento agli appelli della sua gente ed alle sollecitazioni dello Spirito abbia lucidamente affrontato la morte e dal Signore sia stato fatto uno strumento di un difficile cammino di pace nella sua terra, e per tutto il continente simbolo e bandiera di libertà e di solidarietà al di là ed al di sopra delle ideologie, per fedeltà al Vangelo e per amore di Gesù Cristo. Anche le omelie più "moderate’’, che insistevano sulla spiritualità di Mons. Romero, in fondo finivano coll’accentuare come un’autentica spiritualità non possa astrarre dalla situazione concreta della gente, a cominciare dai più piccoli e più emarginati, proprio come Gesù viene a proclamare d’essere venuto per portare il "gioioso annuncio’’ ai poveri (Lc. 4,16). Ed è così che in America Centrale appare più che mai evidente che "partire dagli ultimi’’ (come si impegnò la Cei nel 1981) non è una scelta ideologica ma un impegno cristiano. L’altra cosa che sempre colpisce è il senso di gioia che dà a questa gente l’essere cristiani. Le Messe sono sempre una festa, che viene desiderata e vissuta con entusiasmo. Ma è tutta la vita cristiana che è vissuta così. Abbiamo visitato un monastero di suore Clarisse (di clausura!); quando abbiam chiesto di farci un loro canto tipico francescano e uno salvadoregno, li han voluti accompagnare con le danze tipiche, il secondo addirittura con simpatici travestimenti! La riflessione che ci si impone (anche
per i nostri gemellaggi) è che l’atteggiamento di superiorità
e dell’assistenza che di solito siam tentati di avere nei confronti delle
Chiese del Terzo Mondo dovrebbe invece tramutarsi in una umile accoglienza
della loro testimonianza, gioiosa e rinnovatrice per la forza della loro
fede e la generosità del loro martirio.
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