E quando il principe la vide,
e vide nei suoi occhi la profondità della sua
nostalgia, e riconobbe nella presenza di lei
l'inesplicabile disagio che accende la vita, le prese
le mani perchè l'attimo si fermasse, e non volle
provarle la scarpetta, per paura che non riuscisse a
calzarla.
OBLIQUE PROSPETTIVE
Basterebbe, per farmi capire
che è un sogno, il fatto che il ladro indossa la
calzamaglia nera, il passamontagna e la mascherina,
come in un film di Hitchcock. Così apro e chiudo gli
occhi, sicura di svegliarmi.
La stanza è tutta
sossopra, i cassetti aperti, un turbinio di calze,
foulard, fiori finti. Sparsi dappertutto, le mie
collane, gli orecchini, i vestiti.
E non riesco a
svegliarmi. Stravolta, rimango sulla soglia, senza
muovermi, nè parlare. Mi viene incontro, lentamente,
si toglie la mascherina nera, il passamontagna,
liberando una massa di riccioli castani. E sorride,
guardandomi. Lei, mia figlia.
NOTTURNO
“Rip the lark/and you’ll
find the music…”
Divina Dickinson. Non c’è altro,
dopo Leopardi. Mi ricordo di prima, quando nessuno
sapeva niente di me. Leggevo tutti quei saggi su
Leopardi. Aveva scritto poesie, e così esisteva. Per
secoli lettori e studiosi avrebbero risposto alla sua
ricerca di comunicazione, di contatto.
Leopardi
amava la luna e il gelato. Leopardi era un uomo
comune, un uomo normale. Era un uomo incapace di avere
una donna. E’ sgradevole a vedersi, e si lava poco. E’
un ragazzo che non tollera di toccare un coltello. E’
un bambino che traduce dal greco. La biblioteca è
scura, la casa è scura, e per assuefarsi al buio
bisogna acquistare occhi da uccello notturno, e
l’orientamento sghembo del pipistrello. L’amicizia con
Ranieri, forse omosessuale. Il conte Monaldo non ha
tempo, Adelaide non lo abbraccia mai. E la mancanza di
fisicità, l’assenza di rapporto col corpo,
contraddistingue ogni sua esperienza, risolve in
frustrante astrazione ogni evento, anche il più
passionale e concreto. Ma ora forse sto parlando di
me.
“Or poserai per sempre/stanco mio
cor…Disprezza/te, la natura il brutto/poter che ascoso
a comun danno impera…” Ho provato disprezzo, sì, di me
stesso per aver avuto speranza, fiducia. Per aver
offerto alla loro insensibilità onnivora i miei
ricordi, le mie confessioni. Il mio slancio, il mio
stupore. Ho provato vergogna come di essermi denudato
di fronte a una donna indifferente –peggio, pronta a
ridere di me.
Le sue labbra, piene e volgari, rosse
lucide di scherno. Il lenzuolo spiegazzato e una
macchia bruna sulla tappezzeria. Io non sono, io non
voglio essere qui. Io odio, come odiano le rose
vermiglie nel vaso di cristallo, a splendere e
soffocare, nei loro petali carnosi l’urlo rosso di un
insulto, il velluto il contatto la carezza il brivido
il velluto, il palco del teatro, fuori, io sono fuori,
sono la fioraia con lo scialle grigio, le rose nel suo
cesto prima del cristallo, la fioraia che vende le
spine, i miei occhi sono i suoi occhi e io so che mi
odia, perché lei è il fiore prigioniero, ti odia, con
sprezzo guarda le tue scarpe lucide, poche monete per
un mazzo di spine. Che cosa poteva importarti del
trapezista vestito d’oro nel vecchio circo
sghangherato, delle sue braccia aperte di contro al
soffitto grigio, il volo dell’angelo nel cielo chiuso
soffocante, i suoi occhi bistrati spalancati a
guardare in faccia il sogno. Io, però, l’ho seguito al
ritmo di una musica ambigua, perché non ho incontrato
nessuno capace come lui di disperdere con un solo
ampio gesto il puzzo di letame e di segatura che emana
dalla gabbia della viota comune.
E’ una casa, una
casa piccola nella gola di monti come un quadretto
naif. La vita comune è una casa con un cortile piccolo
e io scivolo giù in caduta libera, in picchiata,
libero, sono libero io, sono il falco io adesso, in
verticale dentro la gola stretta di montagne, vedo con
gli occhi del falco, in soggettiva, giù, giù, e ho gli
artigli invece delle dita, non posso scrivere più,
sono libero ora, voglio anch’io la casa, il cortile
piccolo. Io sono un uomo normale, compro il pane,
faccio il caffè, scambio due parole col macellaio, col
farmacista. Non ho più bisogno di piacerti, ho diritto
a non dover piacere, nessuno conosce nessuno, nessuno
ama nessuno. Io non ho più bisogno di piacere, di
amore. Chiamate amore la squallida trappola della
natura, il costruito istinto senza passione, la
grottesca bestialità che profana la tenerezza implume
della notte.
“La parola è la rete per prendere i
pensieri
O pescatore, la tempesta le tue reti ha
strappato
Più non porterò la mia barca sul
mare,
la mia rete non voglio riparare
La mia
barca nella sabbia incagliata
Più non si chiama
Sirena, si chiama Medusa”
Così ho potuto
raggiungervi. Voi no, non mi avete raggiunto; ma ora
mi cercate. Quando toccò a me nascondermi, continuaste
il vostro gioco senza accorgervi neppure della mia
assenza. Vi ho attirato, adescato con gl’indizi
umilianti della mansuetudine e del sorriso. Giocavate
bene anche senza di me. Ora sono il padrone del gioco
e mi cercherete e mi inseguirete fino a trovarmi come
io ho trovato voi. Io che ho abitato vicino alla
vostra porta. Non abbassavate la serranda e la luce
delle vostre stanze col suo bagliore feriva le mie
pupille di schiavo abituato alle tenebre della
miniera. Voi guardate dalla finestra la strada buia, e
il buio conferma la luce, il calore della
stanza.
Ma non avete mai pensato come muta la
prospettiva quando gli sguardi s’incrociano, e non
avete visto dal buio della strada la finestra
illuminata, le figure che si muovono come in un
acquario, i colori della stanza e i vestiti e la
provocazione di quel richiamo, l’esclusione dalla luce
è l’evento che spegne la luce- Bella era, era bella la
ninfa dai capelli di miele, finchè la vidi nel
pulviscolo del plenilunio, finchè la lampada non
scoprì nella prospettiva verso l’alto il segreto di
ombre aggrovigliate, finchè le labbra divennero più
piene e gli occhi più scuri, e così diversa da mia
madre col lume acceso quando le ombre su di lei, su
lei tracciavano i chiaroscuri del mistero e in atto di
sorpresa e di rimprovero accanto al mio letto “Non
dormi?” passava velando il lume con la rosea mano, un
fascio di buio è per gli angoli di dentro, la falsa
immagine il doppio, il negativo da non
sviluppare.
Nella solitudine del buio, la luce
nemica. La luce da spegnere, il dolore. Ho cercato di
condividere il mio dolore. Per esistere, perché il mio
dolore esista. Io voglio sapere se ci sei. Non quando
ti estranei a te stesso, non quando ridi e chiacchieri
e ti travesti o interpreti un’espressione più volte
provata. Io voglio il viso vero che hai, voglio la
verità e non la menzogna, voglio la tua faccia e non
la maschera, voglio sapere chi sei, se ci sei, se sei
vero. Io ci sono, guardami. Guardami!
Nella notte
che continua, un’onda buia si rifrange
all’infinito.
Qualcuno mi verrà incontro.
Inconsapevolmente cercandomi, per specchiarsi nel più
profondo dei laghi.
Vorrei che fosse stato diverso
il mio incontro con la notte.
Ha due facce la
notte.
Leopardi le conosceva entrambe. Ma lui aveva
la parola, il Verbo.
Il suo inno al dio assiro del
Male, mai finito.
Sì, il suo inno incompiuto. Io lo
conosco.
Ma non voglio più spiegare,
parlare.
Non riparerò le mie reti. Sono un
cacciatore, ora...
La luna è così bianca, così
immobile, sospesa.
Non c’è strada per me, solo il
sentiero d’argento e di ghiaccio.Dall’aria che mi
soffoca, riemergerò a respirare la profondità del
buio. Eros o Thanatos. A vacuo natura abhorret. Non
c’è nulla tra Eros e Thanatos. “Squarcia l’allodola/e
troverai la musica…”
La Figlia del Tintoretto
“Voglio che mio fio Domenico finisca l’opere mie che restaro imperfette, usando quella maniera et diligentia che ha sempre usato sopra molte opere”.
Così scriveva Jacopo Tintoretto nel suo testamento, il 30 marzo del 1594.
“Maniera et diligentia”-erano queste le parole per Domenico.
Marietta ci avrebbe messo entusiasmo, curiosità, passione.
Ma era morta, Marietta, quattro anni addietro.
Era stata richiesta a corte da Filippo II di Spagna e da Massimiliano d’Austria. Il padre non volle, e preferì combinarle un matrimonio. Nella tela di Minerva e Aracne, racconto-simbolo della sua vita, la sua mano si rivela, più delicata e accurata – perché è frettoloso il Tintoretto, “tira via”, è veloce nel consegnare, non è mica Tiziano lui, non può star lì a rifinire, lisciare, cesellare, non gli serve, è l’effetto quello che conta.
Aveva vent’anni Marietta quando lavorò a questa tela. Aracne le somiglia.Quale concentrazione, e insieme quale tristezza, quale smarrimento nel suo sguardo dolce di sconfitta, sereno e deluso, attento e perso.
Può essere dea o Madonna; la sua acconciatura di perle tra i capelli biondi è la stessa che Marietta porta nei giorni di festa. E un principe la vide, come nell’antica canzone.
Gareggiava al telaio, chi sa perché, a seno scoperto. Sfacciata Aracne. E un principe la vide.
“Questa figura è dipinta da tua figlia!E’ più brava di te, tua figlia!”
Tra le donne che assistono alla gara, una sola, seminascosta, sorride.
La prospettiva dal basso è una trovata tipica di suo padre. Il telaio la opprime, come uno strumento di tortura. Quegli incroci di legno, quelle geometrie aguzze, gli angoli acuti. La struttura compositiva racchiude già in sé la ragnatela, la trappola mortale. E’ maestosa Minerva dall’elmo piumato; ha un viso calmo e sprezzante.
“Ma, padre, vedete? Non c’è proporzione…il braccio sinistro…”
“Non ti azzardare a parlarmi così! Ma senti! Ha appena imparato a mescolare i colori e dà lezioni a suo padre! A suo padre, maestro Jacopo, famoso in tutta Venezia quando lei non era ancora nata, che non sa come tener dietro alle commissioni! ora ti dico una cosa, e bada di non dimenticarla: a stendere il colore hai imparato bene; ma non capisci e non capirai mai niente di rilievo! Altro che scappare a nasconderti quando messer Lorenzo mi porta un cadavere…in prima fila dovresti metterti, per studiare la muscolatura! Non c’è proporzione! Il disegno, qui, tuo fratello Domenico, lui sì che ha buona mano! Tu, nemmeno tra cent’anni…”
“Eppure”, disse Marietta asciugandosi le dita nel grembiule di tela grezza, “eppure il matrimonio vien descritto come una cosa bella; se sposi un uomo piacevole naturalmente; avere uno stato…e poi poter avere dei bambini…”
“Per le altre, forse, che non hanno talento; sebbene,oh! ne ho conosciute che si son pentite in capo a una settimana: e dopo non c’è niente da fare, bella mia! Uno stato! passare da un padrone ad un altro. E che te ne fai tu dei bambini? Bambini! Lascialo dire a me che ne ho avuti nove, gioia mia; la gravidanza, il parto; lo vedi come sono ridotta? Ed ero bellina, sai, da giovane, quasi come te. E le preoccupazioni, le fatiche, le malattie…ne ho persi quattro; ah, no, gioia, non puoi immaginare…che vita faresti? Un marito piacevole! Anche se lo fosse, sarebbe ad ogni modo spiacevole. Puoi avere un altro avvenire, tu!”
“Ma non sono più tanto giovane, io, mamma Ghita; e mio padre dice che non troverò più da sposarmi se lascio passare ancora degli anni. E le mie amiche son tutte sposare, hanno dei figli. E dicono…”
“ E dicono che sono contente, come no! Ma l’hai vista la Caterina? E la Simonetta, che pareva una fata appena qualche anno fa, sempre col sorriso sulle labbra? Sono contente, come no! Che vuoi che dicano! Dicono così per farci cascar le altre. Marietta, tu hai un dono nelle mani, un dono speciale! Non sei come le altre, tu! Puoi andare a corte, pittrice di corte, ma lo sai cosa vuol dire? Le tue amiche t’hanno detto che è bello fare l’amore? Allora sarai libera… Potrai fare l’amore anche tu…con chi vuoi tu…”
“Mamma Ghita!”
“Via,via! Non è una stupida, mamma Ghita…E sarai una pittrice; dipingerai da sola i tuoi quadri. Saranno i tuoi quadri, Marietta, capisci?Ah, no, non è proprio giusto gioia mia, che tuo padre firmi come sue certe tele…”
“No, mamma Ghita, non dite così…si lavora insieme, lo sapete; mio padre ha i suoi momenti brutti ma è buono alla fine; è lui che mi ha insegnato tutto; e lui dice che a un certo momento una donna…Sssh, zitta…viene qualcuno…”
Quella luce strana, misteriosa nel quadro di Santa Maria Egiziaca. Sperduta, la santa, in una notte chiarissima, intima, mistica, lei e la notte si scambiano un segreto tenero e doloroso. Da quattro anni, quella luce la perseguita. E’ perché lei l’ha tradita, quella luce; la luce della chiamata, dell’ispirazione, della veggenza; ha tradito il crepuscolo e il blu, il verde e l’oro.
Il paralitico guarito si getta alle spalle il giaciglio e ignorando il suo salvatore vuole uscire dal quadro; è uno dei più belli di maestro Jacopo; glielo ha mostrato, nella chiesa di san Rocco, per insegnarle che cos’è il dolore; le ha sempre fatto paura.
Il dolore….suo padre non ha niente in comune col dolore, ma sa descriverlo così bene; sa come trovare il segreto delle emozioni, anche senza provarle. Così come può serenamente seguire il gioco dei muscoli nel corpo scorticato di un cadavere, egli può, in divina armonia, osservare il percorso del dolore negli occhi, nel viso, nell’anima degli altri, senza turbarsi accompagnare alla discesa agli Inferi, sì, sì, anche lei; e adesso dovrebbe essere qui, a spiare questo suo dolore del corpo, questo schiantarsi, questo inutile tendersi delle membra, dovrebbe essere qui, ad imparare da lei, maestra di tormenti-ma non servirebbe; lui è della vita, niente può vincerlo, intaccare la sua energia, le sue certezze, e le sue certezze devono essere anche quelle degli altri, lui sa bene come far fare agli altri ciò che vuole, è un esperto nel manovrare manichini, nel muovere le figurine di cera nei suoi teatrini bizzarramente illuminati, figure di cera, anche lei come tutti una piccola figura di cera.
Non è possibile sopportare tanto dolore, non è possibile; se tu facessi un miracolo per me, io non ti volterei le spalle; libera, liberata, il tempo prenderebbe altra cornice, anche i colori varierebbero seguendo la stagione; entrare nel quadro aspettando il miracolo, con tutta la folla dei sofferenti. Ma ci sono altre tele che possono accoglierla; perché scegliere la tela del dolore?L’ha tessuta lei quella tela, Aracne il ragno che le tira le viscere, non nascerà mai il suo bambino, non nascerà mai, per fortuna Marietta è alla corte di Spagna,-e un principe la vide-, alla corte di Spagna, i ritratti degli Infanti, un celeste più lucente per questo corpino, risalteranno di più i pizzi del ventaglio se la luce proviene da destra, Marietta è alla corte di Spagna e non torna, non torna
Marietta Robusti morì di parto nel 1590.
UN INVERNO
Quell’anno, dopo le prime
piogge di novembre, il clima ritornò caldo. Le mattine
si succedevano azzurre e soleggiate, e la gente rimise
da parte gli impermeabili e i giacconi pesanti.
Dapprima furono i soliti discorsi sul tempo che è
cambiato e che non si capisce più niente, o
sull’estate di San Martino che si prolunga. Poi venne
dicembre; la mattina si sentivano gli uccelli
cinguettare attorno ai nidi, le rondini non erano
partite .Le notti erano tiepide e chiarissime, e in
televisione cominciarono i dibattiti sulla situazione
meteorologica. Qualcuno dei ragazzi saltava la scuola
per andarsene in spiaggia, il clima fu argomento di
battute nei cabaret e di gags negli spettacoli. Ma
poi, era quasi Natale, il sole mutò colore. La luce
prese una tinta dorata, d’un oro come spento. E
lontano nel cielo azzurrissimo si vedevano faville
dorate, come fuochi d’artificio silenziosi.
Allora
iniziarono le telefonate ai centri geofisici e agli
osservatori astronomici. Le trasmissioni scientifiche
parlarono degli “strani fenomeni” e li ricollegarono
all’effetto-serra. Gli esperti dissero che che il
mutamento climatico avrebbe avuto breve durata e
nessun effetto negativo. Nei talk show, astronomi e
dive discussero sull’argomento, tra sorrisi e break
pubblicitari.Le ditte impostarono le loro campagne
pubblicitarie sul “Natale tropicale”, lo slogan “Il
tuo Natale è un fiore di serra” fu premiato col
Delfino d’Oro, e ci fu la solita ridda di pacchi,
pacchetti e panettoni. Per tutto gennaio non
piovve.
I grilli, la notte, cantavano come in piena
estate.
A fine gennaio, i dibattiti sul clima
cessarono. Ogni mattina ci si alzava con un senso
strano di angoscia e per prima cosa si guardava il
cielo, aspettando di vederlo finalmente color cenere,
o gonfio di nuvole. Ma il cielo era azzurro, percorso
in lontananza da strisce e scintille d’oro, e la luce
sempre più giallastra e abbagliante.
Sui giornali,
non una parola sul tempo .La situazione politica, i
processi, gli incidenti, le cronache mondane. Di
notte, cominciarono ad attraversare il cielo grosse
stelle cadenti. Ma nessuno ne parlava. Le battute sul
tempo erano scomparse dagli show.
Una sera durante
uno spettacolo in diretta l’attore comico Enrico Fassi
(morto poi in un incidente d’auto), mettendo da parte
la scaletta urlò nel microfono: “Perché state a
rincretinire dietro a questi spettacoli, perché non vi
chiedete com’è che non vi dicono la verità, che la
terra sta deviando dalla sua orbita, che l’asse…”A
questo punto la trasmissione fu interrotta per qualche
minuto, poi il comico riapparve sorridente e sornione
a dire che era tutto uno scherzo. Quello fu uno degli
ultimi programmi ad andare in diretta.
Le
congregazioni religiose organizzavano processioni per
chiedere la pioggia; e la notte la musica che usciva a
fiotti dalle discoteche si mescolava alla cantilena
delle litanie. I profeti delle sette mistiche
predicarono le piaghe d’Egitto e la fine del mondo.
Non c’era nulla, in fondo,- quasi nulla - di anormale.
La gente faceva la spesa, lavorava, comprava,
affollava i bar, le discoteche e le strade: ma con
qualcosa di spento negli atteggiamenti e nella voce,
come oppressa da un pensiero fisso o da una condanna
inesplicabile.
Il diciotto febbraio i negozianti
tolsero dalle vetrine gli articoli invernali e fecero
l’esposizione con abiti leggeri, dai colori allegri e
lucenti. I visi dei vetrinisti erano terrei mentre
sistemavano tra i manichini i gelati di plastica, le
conchiglie e le reti da pesca. La luce del sole s'era
fatta rossiccia: nelle campagne la terra si spaccava
per la sete e le vipere giungevano a cercare acqua nei
rubinetti delle case fuori paese. La gente si era
riunita in comitati, e i comitati erano andati in
delegazione agli istituti geofisici, ai Ministeri,
alla Prefettura, ottenendo risposte generiche,
tranquillizzanti e contraddittorie. Poi i comitati
furono sciolti e le riunioni vietate. E poi domande e
proteste cessarono. Agli inizi di marzo la gente
conservò negli armadi la roba invernale, e cominciò a
discutere dell’estate. Le riviste proposero le nuove
collezioni di costumi e le ragazze li comprarono, e
comprarono gli abbronzanti per andare al mare. I
cantautori composero canzoni per l’estate, la spiaggia
iniziò a popolarsi e tutto sembrò uguale a
prima.
Ma in certi momenti la luce rossiccia aveva
come un’intermittenza - più chiara più scura -, e nel
cielo senza una nuvola s’infittivano le scintille
d’oro come muti fuochi d’artificio, messaggi
indecifrati e lontani.
Allora anche nei gruppi più
chiassosi si spandeva uno strano, spesso silenzio,
dove dominava il fruscio del mare e lo stridio di
innumerevoli uccelli.
ALCUNI GIUDIZI CRITICI
"La scrittura si svela
itinerario iniziatico senza approdi...una sorta di
coazione ad evadere dal mondo assurdo e senza
regole del quotidiano movimenta il diagramma dei
destini vissuti con originaria passione di donna[....]
Nei cieli corrotti delle enumerazioni, delle viete
analisi folte di rinunciate prede, i prodigiosi dardi
di Angela attendono di fulminare un eterno presente
d'estasi...
-Antonio Pane, su La Rosa e il
Labirinto, in Arenaria,n.23/24-.
"Un fitto
intreccio di narrazione che percorre il doppio filo
dell'osservazione e dell'autocoscienza...
La
delicatezza della rosa diventa brivido avventuroso del
labirinto....un modo di offrirsi al lettore scevro di
compromessi e di ipocrisie..."
- g.d.m. su La Rosa
e il Labirinto, in L'Ora, 28/12/1992.
“A Cefalù una professoressa mi ha dato una sua raccolta di racconti pubblicata da una tipografia locale. Ne ho sfogliato svogliatamente le prime pagine e ho finito per leggere il libro tutto d’un fiato. L’autrice, Angela Di Francesca, ha vissuto sempre in Sicilia ma culturalmente si è affidata al grande fiume della cultura europea…La sua ribellione alla realtà, la sua sensibilità approfondita e calda contrastano col ricordo che ho del suo aspetto di donna timida, perfino sottomessa. Peccato che gli editori siano chiusi in circoli perversi che non consentono loro di prestare avventurosa emozione a opere che al richiamo mondano sostituiscono quello dello spirito”.( TURI VASILE,Il Giornale, aprile 1996).
“Tra i tanti libri che si autonarrano, questo di Angela Di Francesca “La rosa e il labirinto” ha il pregio dell’essenzialità e di una scrittura poeticamente sinuosa che lascia intendere una certa consapevolezza del laboratorio e della lima. Un fatto straordinario se si pensa che l’autrice è del tutto ignota e che il suo autonarrarsi sembrerebbe muovere da memorie sessantottesche epurate dalla retorica di rito che quella data richiama.I venti brevi racconti intrigano il lettore e sanno suggerire e far rivivere uno spaccato di realtà vivo nella coscienza dei giovani di ieri che non sanno assuefarsi alla delusione e continuano, tra trasgressione e utopia, a dialogare col mondo e a cercare le regioni del suo scadimento. …L’anima e la cultura dell’autrice rimandano ad una scrittrice di razza che sa trovare ritmo e misura a tratti ineccepibili”.(PIERO LONGO, agosto 1992, Giornale di Sicilia)