IN VALTELLINA

 

La colazione del contadino doveva essere molto abbondante perché doveva fornire l’energia per il duro lavoro nei campi. Il primo pasto consisteva in polenta di grano saraceno, accompagnata a volte, da formaggio giovane o da latte di mucca.

Il pranzo, detto "merenda", era consumato con la polenta (l’avanzo dei pasti precedenti) accompagnata con qualche piccola quantità di cacio o qualche pezzetto di salsiccia.

La cena consisteva in minestra di semi di miglio, di panico, o d’orzo. Talvolta era di riso o di tagliatelle fatte con farina di segale. Il brodo della minestra era di legumi e di patate, condito da una piccola dose di grasso di animale o di burro. Le patate molte volte erano anche l’unico elemento di un pasto, però questo capitava quando c’era povertà o la stagione era "magra".

In autunno i ragazzi andavano a raccogliere le castagne che venivano bollite e a volte ridotte in farina con la quale si faceva anche il pane.

La maggior parte del cibo era costituito da sostanze vegetali, tranne i latticini che erano largamente consumati. Così come le patate, l’orzo, i legumi, le rape e i cavoli che venivano anche fatti essiccare durante l’estate perché, fatti rinvenire nell'acqua, costituissero cibo per l’inverno. I più poveri si nutrivano con una minestra chiamata "pesto" costituita da panico e miglio pestato. Le verdure e l’insalata venivano condite con burro e vino in sostituzione dell’olio e dell’aceto. Con la farina di sarceno si facevano, come oggi, i pizzoccheri, che venivano conditi con molto formaggio e burro.

La minestra costituiva innanzi tutto il pasto della sera, e molte volte la s’indicava con il nome di scena. Più che minestra, come s’intende oggi, bisognerebbe parlare di minestrone. Infatti non si poteva immaginare questo cibo senza patate, verze, fagioli, rape ed altre verdure, in ogni stagione.

L’ingrediente principale, che dava il nome alla minestre, erano il riso e la pasta (anche di formato un po’ grosso), i pizzoccheri, l’orzo e, nei tempi più remoti, il miglio o il panico. Spesso questi ingredienti erano anche abbinati e cotti insieme e allora si aveva la minestra maridada: ris e macarunin, ris e fidilin (spaghetti), pizocher e panich. Il condimento era costituito dal solito grasso di maiale che, al tempo della macellazione del suino, veniva cotto in una grossa culdera e poi conservato in olle di terracotta o in recipienti di pietra come i lavec' della Valmalenco. Al momento della cottura affioravano dei grumi grigiastri che si consolidavano, raffreddandosi, nella parte superiore: erano piccoli residui di carne che si trovava mescolata al grasso; erano chiamati grìpui e finivano anch’essi nella minestra come condimento. Quando la minestra era cotta, questi grumi affioravano e galleggiavano e non facevano certo bella mostra; erano particolarmente sgraditi ai ragazzi. Come condimento veniva usato qualche volta anche il burro, ma sempre in piccole quantità.

Nei maggenghi invece la minestra veniva sempre condita con il burro o col latte, anche se non era di riso e se conteneva qualche patata. La minestra veniva mangiata nelle tipiche ciotole di legno (i ciapéi) e anche con cucchiai di legno. In genere piaceva molto agli anziani e ai vecchi, molto meno ai ragazzi, specialmente quando era troppo carica di verdure e grìpui. Nelle sere invernali, quando tutta la famiglia era riunita attorno al focolare a mangiare quella povera cena, i ragazzi di nascosto buttavano via qualche verdura e i detestati grìpui, che proprio non andavano giù. A volte si aggiungeva alla minestra un pizzico di formaggio grattugiato (el trit), non certo di grana, ma di formaggio casalingo o addirittura di ricotta secca e affumicata. Spesso la minestra della sera non era consumata tutta e quella che rimaneva non veniva certo buttata al maiale; veniva conservata e riscaldata per la cena seguente, a volte integrata con nuove verdure e con un pugnello di riso pasta o pizzoccheri.

Solamente nei giorni di festa e per occasioni importanti si potevano mangiare dolci tipici, come:

la kopéta, un dolce che si confeziona in Valtellina in occasione delle feste di alcuni santi; è una delicata pasta fatta di noci pestate e cotte nel miele, ridotta a quadratini ricoperti da due fogli d’ostia;

il panùn, rustico panettone contadino fatto spesso anche con farina nera e farcito d’uva secca, noci, castagne, ecc.;

i prézel, erano pani intrecciati fatti con la pasta dura che rimaneva sul fondo della madia;

i brazadèl erano i pani col buco da mettere a seccare infilati nelle pertiche;

per i bambini il rito della panificazione aveva sempre un’appendice di festa che si sottolineava con la fornitura delle pize, focacce di varie forme: orso, bambola, galletto…

i kanèdel erano polpettine rotonde di farina bianca o gialla impastata con burro, uova, lardo o salame ed erbe aromatiche e cotti nel brodo, questi erano molto diffusi nel bormiese;

nella prima settimana di quaresima si facevano nelle case li manzòla, che erano frittelle schiacciate;

la fugacina era una piccola focaccia di farina di frumento impastata con le uova, il burro e l’uva passa, era un dolce tipico per le nozze.

Il pane non serviva soltanto per l’uso quotidiano, ma c’era un pane per ogni occasione. Così i "panini di San Nicolò" erano dei minuscoli pani che venivano distribuiti in Chiesa il giorno di San Nicolò e servivano a combattere il mal di gola.

 

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