IN TOSCANA

Il contadino mangiava bene altro che nel periodo della segatura e della trebbiatura del grano, a giugno e a luglio. Era la fine di un anno di lavoro e quindi s'era tutti contenti perché voleva dire che anche per l'anno a venire l'avvenire era abbastanza tranquillo.

La mattina ci s'alzava prima del sole e non c'era il cambio dell'ora come oggi, sicchè alle quattro spesso s'era bell' e in piedi e quando si levava il sole s'era fatto almeno dieci manne, cioè dieci fasci di grano. S'andava a lavorare nei campi, e verso le sette e mezza passava la massaia e ci portava la colazione, che nove volte su dieci era la panzanella.

La panzanella si fa col pane duro, che in casa non mancava mai, che veniva bagnato e strizzato e condito con olio extravergine di oliva, sale e aceto e con le cipolle e altre verdure fresche a seconda di quel che c'era. Se non c'era la panzanella ci toccava una fetta precisa e contata di salame o di prosciutto mangiata con di molto pane. Ma di norma toccava la panzanella e una volta un lavorante raccontava che era andato a segare il grano da un contadino per una settimana e che aveva fatto la colazione a casa il primo giorno. Nei restanti sei giorni, meno quella colazione, aveva mangiato 17 panzanelle!

Un altro mio amico raccontava che una volta arrivò a casa, da ragazzo, e chiese alla su' nonna che c'era da mangiare e lei gli rispose "Panzanella e rizzati!" cioè e alzati da tavola e quindi nient'altro da mangiare.

Pranzo

Durante la segatura del grano, cioè quando colla falce si tagliava, a pranzo nelle case c'erano a mangiare anche tutti quelli che venivano da fuori per lavorare, venivano "a opra" si diceva, gli si dava qualche cosa di paga, e spesso mangiavano nelle famiglie, sicché quei giorni, anche se si lavorava sodo, erano anche giorni di festa. Verso le dieci e mezzo si faceva un piccolo riposino, e la massaia ci portava un gocciolino di vinsanto e un pochino di cantucci fatti in casa, e così s'arrivava all'ora di pranzo.

Quando suonava le dodici, cioè suonavano le campane di mezzogiorno, il capoccio diceva "si fa una manna, che sarebbe un fascio di grano, per la massaia e si va a mangiare:" Così si arrivava in cucina o sull'aia, a seconda di dove era stato apparecchiato, verso l'una. Per tradizione usava mangiare mezzo chilo di lesso, cioè di carne di manzo, oppure una gallina o un papero che veniva cucinato lesso e col brodo ci si faceva la minestra. Il lesso veniva comprato dal macellaio che veniva a venderlo per i poderi, e si mangiava solo in tempo di segatura. Si condiva con l'olio, l'aceto, e il pepe, mentre il sale veniva messo mentre coceva. Di contorno ci si poteva mangiare i sottoli, che erano per la maggior parte funghi o carciofini, che venivano scottati e messi coi grani di pepe nei barattoli con l'olio di oliva.

IL LAVORO

Pace Raniero, di anni 76, insieme a sua moglie Libriani Gioconda, di anni 70, abitavano nel casale del Cunicchio che è situato su di un cucuzzolo.

Egli ci racconta che nel terreno del suo casale l'aratura veniva effettuata a mano: l'aratro era trainato da un bue o un asino: Il bue era bianco pezzato di marrone, mentre l'asino era grigio scuro.

L'aratro era di forma molto semplice; aveva due manici, che si congiungevano dietro al vomere, da quest'ultimo partiva un'asta che sorreggeva una piccola ruota, su questa asta c'erano attaccate due catene che congiungevano l'aratro al bue. La famiglia Pace non era ricchissima, infatti aveva pochi appezzamenti di terra sparsi qua e là in varie parti del paese, lontani qualche chilometro dal casale.

Quindi per raggiungere la località la famiglia doveva alzarsi quando era ancora buio per iniziare il lavoro all'alba. Mentre Pace Raniero imbracava il bue, sua moglie preparava un ricco e sostanzioso cestino di cibo e vino per la colazione e il pranzo. Generalmente nel cestino metteva: due coppie di pane cotto nel forno del casale, delle cipolle e, quando capitava, qualche uovo. Per bere preparava un fiascone di vino e uno di acqua. Finito di sistemare il bue e la cesta con le vivande si caricava l'aratro sul carro. Dopo di che, all'incirca alle quattro del mattino, la famiglia si dirigeva verso il campo.Generalmente il primo campo che aravano era la "Tenuta della serva". Mentre si dirigevano al campo, Gioconda, la più vista della famiglia, cominciava ad intonare una canzone, subito dopo le si accodava anche Raniero coi figli.

Molto spesso, lungo la strada, si potevano incrociare amici e gente che non erano del paese, tipo i Vignanellesi, ma che coltivavano la terra a Vasanello.

Una volta giunti al campo si sganciava il carro e si metteva in un angolo dove non avrebbe dato fastidio. L'imbracatura del bue veniva sostituita dal "gioco" cioè una cinta di cuoio larga all'incirca venti centimetri.

Questa cinta veniva agganciata sotto al petto del bue; lateralmente, invece, c'erano due ganci che servivano per attaccarci le catene. Poi si scaricava l'aratro che veniva attaccato all'animale.

Pace Raniero portava sempre con sè un bastone fatto apposta per colpire il bue quando si fermava.

Dopo aver fatto questi lavori, all'incirca alle cinque appena sorgeva il sole, la famiglia cominciava a lavorare.

Raniero, che era il più robusto, reggeva l'aratro. Gioconda, andava a "fare" la cicoria con i suoi figli.

Dopo circa quattro ore di duro lavoro la famiglia si riuniva sotto un albero per la colazione.

Si mangiava del pane fatto in casa, qualche pomodoretto, una cipolla e si bevevano un paio di bicchieri di vino.

Alcune volte succedeva che, mentre la famiglia di Raniero stava seduta a fare colazione, passavano i cavalli della famiglia Mariani: I cavalli erano generalmente sei, i quali trainavano tre carri, sui quali c'erano tre grossi aratri.

Allora Raniero diceva: "Eh, si ce li potevo avè io tutti quelli cavalli ! Nun c'era bisogno de arzasse la mattina alle quattro e a tist'ora emio aggià finito".

Subito Gioconda allora gli rispondeva: "E zitto. Accontentete de quello che c'hai, che ce stanno addri come Nino che vanno a giornata pe potè magnà una pagnotta de pane".

Alle dieci, prima che si riprendesse il lavoro, Raniero diceva: "Doppo 'na magnata accossì, nà bella pisciata".

Quindi si girava verso una pianta e faceva i suoi bisogni, dopo di che riprendeva il lavoro, che proseguiva monotamente fino a quando Raniero non alzava gli occhi al cielo e non vedeva che il sole era già alto.

Allora si accorgeva che era mezzogiorno e quindi era ora di pranzo. Sganciava l'aratro dal bue, gli allentava la cinta e lo legava con una lunga corda ad una pianta.

La famiglia pranzava e i cibi erano gli stessi con i quali avevano fatto colazione.

Poi il lavoro proseguiva nel pomeriggio fino a quando non faceva buio.

LA RACCOLTA DELLE OLIVE

Era una piovosa giornata d'inverno ed io mi stavo annoiando, quando sentii quillare il telefono: era la mia amica Rachele, che mi chiedeva se potevo andare da lei a giocare. Appena arrivai, iniziammo a discutere su cosa fare, dal momento che pioveva. Così decidemmo di scendere a giocare ai "negozianti" nella taverna. Dopo aver tanto giocato ci accorgemmo che aveva smesso di piovere ed era uscito un bell'arcobaleno. Pensammo perciò di uscire a fare una passeggiata. Strada facendo, incontrammo una signora anziana, DOMENICA CAPONE, soprannominata Mecuccia, di 69 anni. Le abbiamo chiesto cosa stava facendo e lei ci rispose che stava preparando gli attrezzi per raccogliere le olive; iniziammo a seguirla. Camminando camminando, ci parlava di come si raccoglievano le olive. "Quando ero una bambina, orfana di madre, abitavo nel casale di FONTANA ANTICA con mio padre CAPONE SILVESTRO, e mia sorella CLARA. Ci dovevamo alzare prestissimo per governare gli animali, che erano lì nel casale e verso le 6,30, si partiva per l'oliveto. Ci andavamo con il nostro fedele asino e con il carretto, che, oltre a trasportarci, serviva "a caricare" gli attrezzi, come il telo per "raccogliere" le olive, la scala, ed i bigonci.

Appena arrivati nell'oliveto, scendevano dal carretto staccandolo dall'asino, che invece lo legavamo ad un albero per paura che fuggisse. Quindi iniziavamo subito l’opera. Mio padre con mio fratello, appoggiavano una scala all'albero e, facendo molta attenzione, salivano sulla scala mentre io e mia sorella ci preoccupavamo che non scivolassero. Io non mi sono mai arrampicata su di un albero, perché soffrivo di vertigini. Comunque, anche io avevo un po’ di lavoro: dovevo sistemare un telo sotto i piantoni che serviva per raccogliere le olive.

Poi seguiva l'operazione della scelta: venivano eliminate i frutti rovinati, le foglie, eventuali zolle di terra ecc.

Verso mezzogiorno e mezzo si sospendeva il lavoro, perché la fame incominciava a farsi sentire; si mangiava un ottimo pane e pomodoro, cosparso di solo sale e, molto spesso, senza olio perchè quello dell'anno precedente era finito già da un pezzo. Il nostro stomaco, dopo questo pasto, resisteva ancora per poco ai morsi della fame. In queste condizioni si ritornava al lavoro, ancora per qualche ora, poi, quando i polpastrelli delle nostre dita incominciavano a reclamare, indolenzite per il troppo strisciare dei ramoscelli, si versavano le olive nei bigonci e si partiva alla volta del frantoio, dove le olive e, le nostre fatiche, diventavano finalmente olio."

DOMENICA CAPONE aveva terminato il suo racconto. Noi dopo essere tornate a casa, volevamo essere solidali con lei, almeno per una volta e ci preparammo un piatto di pane, pomodoro, sale..... naturalmente senza olio.

 

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