IL PANE

 

 

Sotto la neve pane, sotto l’acqua fame

Chi ha pane non ha denti

Se vuoi diventare paffuto e bello, mangia pane cruscatello

Meglio un pezzo di pane secco e la tranquillità, che una casa dove si fanno banchetti e litigi

Il pane guadagnato con il sudore ha più sapore

Come posso parlare di Dio a milioni di persone che non possono fare due pasti al giorno? A loro può apparire solo sotto forma di pane e burro (Mhatma Gandhi)

Il pane era l'alimento primario della famiglia contadina. Due o tre pani al giorno, di 1500 - 1800 grammi l'uno, è la quantità che viene comunemente indicata come consumo medio giornaliero in una famiglia di una decina di persone. La massaia preparava e cuoceva da 16 a 20 pani alla settimana di solito il giovedì o il venerdì, per avere il buon pane fresco ogni domenica. Tutti i contadini facevano da sé il pane mentre i pigionali e benestanti lo acquistavano dai fornai.

Fino agli anni Trenta in tutte, o quasi, le famiglie si faceva il pane in casa, ottenendo un prodotto principe, superiore per sapore e sostanza a qualsiasi altra qualità di pane. Fuori città, quasi ogni casa aveva il suo forno, e per il popolo c’erano i forni comunali, dove si poteva cuocere il pane, lasciando in compenso una mica, ossia uno dei grossi pani (di circa 1 chilo) che in numero vario fra i venti e i trenta costituivano la cosiddetta cotta, ossia infornata (che serviva per un mese).

Le donne ritenevano lo spuntare dell’alba il momento opportuno per fare il pane, perché, dicevano che, col levare del sole leva bene anche il pane (per motivo della magia simpatica).

Il grano da farina doveva essere macinato in agosto, perché non si guastasse durante il caldo dell’anno successivo, e perché, quanto più era secco il frumento, tanto più rendeva farina. Oltre che di pura farina, alcune donne confezionavano il pane con farina mista a patate cotte; se fatto bene, riusciva assai soffice, leggero e squisito. Altro pane era fatto con farine miste di frumento e di fave; saporitissimo, riusciva però alquanto pesante ed era specialmente usato dai contadini per economia. Essi confezionavano pure il cosiddetto pane misto, con farine di frumento e di grano turco, oppure con cruschello o farina di segale.

Quando le donne preparavano, la cotta del pane, per accontentare i ragazzi ed anche per tradizione, facevano in più la focaccia, aggiungendo alla pasta del pane un po’ d’olio o di burro, zucchero e uva secca. Altre volte invece facevano, in più della cotta, panini di farina di grano turco con zucchero e burro; e talora qualche panino condito d’olio.

Portato il pane al forno, che nei piccoli paesi era unico (e un tempo la privativa era del feudatario), si pagava la tangente già detta "mica". Ad un lato del forno si usava praticare un piccolo foro, che si teneva aperto quando vi era introdotto il pane, allo scopo di lasciar uscire l’umidità. Il profumo emanato è ricordato da tutti. La bontà del pane dipende infatti dalla lavorazione e dalla cottura.

Il pane di ritorno dal forno si costumava metterlo in un gran cesto con manico, che si appendeva al soffitto per difesa dai topi; una corda faceva da saliscendi. Il pane doveva durare più giorni. Queste provviste fanno ricordare l’usanza di preparare intere ceste di dolci natalizi che servivano fino all’Epifania. In tempi seguenti ed in città, il pane fu contenuto in sacchetti di lino.

Il pane era ritenuto cosa sacra, e se ne cadeva qualche briciola a terra, si raccoglieva; e la madre esortava il bambino a farlo, dicendogli che Gesù scese da cavallo per raccattare un pezzetto di pane; che era un mezzo parabolico per insegnare anche l’economia. Mangiato caldo si diceva che faceva cadere i denti.

L’uso di fare la focaccia tutte le volte che si preparava il pane, era comune in tutte le famiglie: è l’uso stesso conservato dai panettieri, che hanno sempre pronta, col pane, anche la focaccia.

Il contadino, quando è privo di companatico, usa soffriggere il pane con uno spicchio d’aglio, cospargendolo di sale, convertendolo così in un saporito e appetitoso cibo che piace a molti. La sua merenda, il più delle volte, consisteva in pane che intingeva nel vino. I braccianti agricoli mangiavano pastasciutta con pane o pane con salami per primo e pane e vino per secondo. Il pane era ritenuto un mangiare completo e si diceva che di per sé è companatico.

Le qualità di pane sono distinte in pasta dura e pasta molle; con la pasta dura si fanno le forme di pane allungate, fatte a nodo, arricciate ed i grissini; con la seconda i pani fatti a mezzaluna e le focacce.

I contadini, oltre che del pane di mistura già detto, facevano consumo di gran quantità di polenta, che facevano semplice, o con le verze, o con le fave.

Le qualità di pane di mistura accennate erano le sole che mangiava il contadino ancora nella prima metà dell’800; quel pane era tanto mal fatto, che dopo pochi giorni induriva al punto da doverlo spaccare con appositi coltelli. Davano il pane bianco soltanto ai malati gravi. Allora gli agiati mangiavano il pane di fave, e quello di frumento soltanto i più abbienti. Ma si fanno tuttora qua e là in Italia schiacciate cotte sotto la brace.

Gli avanzi del pane non si gettavano mai via: in campagna costituivano il mangime per gli animali da cortile, ma anche nei centri urbani l’elemento primario per piccoli dolci o per caffelatte ed il brodo.

Sappiamo che quando l’uomo cominciò a coltivare i cereali rinunciò al nomadismo, si costruì il primo tetto, visse in comunità con una sia pur primitiva struttura sociale e religiosa. Le coltivazioni lo costrinsero ad osservare attentamente l’avvicendarsi delle stagioni e i movimenti della luna e del sole; egli dette quindi inizio alla scienza astronomica e per mezzo di essa inventò il calendario; inoltre trovò anche un sistema aritmetico per numerare e pesare.

All’inizio l’uomo tostava, su pietre piatte e arroventate, i grani che mangiava interi oppure frantumati: la torrefazione serviva a migliorare il sapore e la digeribilità, ne rendeva inoltre più facile e duratura la conservazione impedendo il formarsi di muffe.

In seguito iniziò a pestare il grano secco in un mortaio; in epoca palafitticola venne in uso il levigatoio, cioè una pietra levigata, larga e pesante, sulla quale il grano si schiacciava con un’altra pietra tenuta in pugno (macinello). Da questa lunga operazione risultava una farina di grossa grana che l’uomo impastava con acqua; quindi poneva le piccole forme ottenute tra due pietre roventi o sotto le braci.

Un po’ di pasta fermentate, perché casualmente dimenticata il giorno prima, aggiunta a pasta fresca, fece scoprire all’uomo il lievito mediante il quale rese tanto più appetibile il suo pane. Dal rudimentale mezzo sopra descritto di frantumare il grano, alle mole di pietra azionate dagli schiavi e finalmente al mulino con apparecchiatura meccanica, che libera l’uomo da un massacrante lavoro e offre una soffice, impalpabile farina, c’è di mezzo tutta la storia greco-romana.

L’abilità raggiunta dai Romani nell’arte della panificazione andò man mano perdendosi durante le invasioni barbariche. Sembra che soltanto i conventi possedessero panetterie di una certa importanza e che soltanto i signori nei loro castelli si facessero confezionare pane di frumento. Il cibo più comune in tutta l’Europa in quell’epoca fu costituito da polente di miglio: questo basso livello di alimentazione è da considerare una conseguenza delle razzie e delle distruzioni operate dai barbari.

Quando in seguito alla scoperta dell’America fu importato nel nostro Paese il mais, o granoturco, esso fu largamente coltivato e consumato nel Nord tanto che piemontesi, lombardi e veneti furono soprannominati polentoni; l’impiego del granoturco nei secoli successivi fece distinguere i ricchi dai poveri, perché furono questi che alla polenta dovettero ricorrere come cibo quotidiano.

Il vecchio forno artigianale, in campagna addirittura familiare, costruito con mattoni di terra refrattaria, era profondo, con il soffitto a volta e con la bocca semicircolare chiusa da uno sportello in ferro. Il pane di quel tempo era profumato, gustoso, e conservava la sua fragranza anche vecchio di giorni.

L'impasto

La sera prima la massaia preparava nella madia un monticello di circa 3 Kg di farina con u buco in mezzo dove poneva il lievito che poi bagnava con acqua tiepida per farlo ammorbidire e rinvenire. Il tutto veniva lasciato lì per l'intera nottata.

Al mattino la donna si alzava presto, impastava lievito sciolto e farina e lasciava lievitare per circa 4 ore. Nei periodi invernali, per mantenere il caldo necessario alla fermentazione, si poneva nella madia uno scaldino con la brace. Trascorse le ore di lievitazione la massaia univa al composto un quindicina di chili di farina e impastava a lungo, aggiungendo l'acqua tiepida necessaria ed un poco di sale, fino ad ottenere, sempre in ambiente sufficientemente caldo, un impasto omogeneo e di giusta consistenza.

Poi arrotondava un poco la massa di pasta, ne tagliava i pezzi ai quali dava via via la forma quasi tonda dei pani e li disponeva in fila su di una lunga asse coperta da un telo infarinato. Lasciava una piega del telo tra un pane e l'altro, perchè non si attaccassero, poi ricopriva tutti i pani con la parte del telo lasciata ciondoloni. Sopra, ancora, posava una coperta di lana e lasciava il tutto a lievitare per un'altra ora, in ambiente con un certo tepore, tale da favorire il "crescere del pane".

La cottura

Durante la preparazione e la lievitazione la massaia provvedeva anche a scaldare il forno, situato generalmente accanto al focolare. Per scaldare il forno occorrevano circa due ore e per questo si adoperavano fascine di legna ricavata dalla potatura delle viti o da potatura degli olivi. Per sapere quando il forno era caldo al punto giusto si controllava il colore della sua bocca che rimaneva aperta: quando diventava biancastra per circa 4 cm dal bordo interno verso l'esterno il forno era sufficientemente caldo e si poteva ripulirlo dai tizzoni con il tirabrace.

Poi si puliva ben bene il piano con un cencio bagnato legato in cima ad un bastone. Il forno caldo appariva internamente tutto bianco ma negli anfratti dei mattoni rimaneva della caligine che doveva essere tolta affinché non sporcasse il pane; per fare questo si chiudeva la bocca del forno, con l'apposito sportello di ferro e il movimento dell'aria causato dall'improvvisa interruzione del tiraggio faceva cascar giù la caligine.

Quasi sempre per valutare la temperatura del forno si cuoceva una "schiacciata a mezzo forno": veniva preso per questa un pane dall'asse, schiacciato con le mani e la punta delle dita fino ad ottenere uno spessore di mezzo centimetro circa, poi condito con olio e sale e quindi infornato. La schiacciata doveva cuocere in circa un quarto d'ora; se si cuoceva prima voleva dire che il forno era troppo caldo e per raffreddarlo un po' vi si mettevano dentro per pochi minuti delle frasche con foglie verdi; se la schiacciata cuoceva più lentamente il forno non era ben caldo e in questo caso bisognava contentarsi del pane poco cotto, anche se veniva tenuto dentro più a lungo.

A questo punto si infornava: con gesti rapidi la massaia prendeva ad una ad una le forme di pane dall'asse, tirando la piega del telo con la mano sinistra per depositare il pane su un'assicella con manico che teneva nella destra; da questa il pane veniva deposto sulla "panaia" (una spatola di legno affilata ai bordi, larga un po' più di un pane, con un lungo manico) per essere collocato dentro il forno. Tutta l'operazione doveva essere eseguita rapidamente, poi il forno veniva chiuso.

Dopo venti minuti si apriva il forno per controllare la cottura e per spostare i pani meno cotti (quelli più vicini alla bocca) al posto di quelli nelle zone più calde del forno. la cottura si completava in un'ora circa; poi, con la panaia, si sfornava, sistemando i pani, dopo averli puliti dalla cenere con uno spazzolino di saggina, sull'asse del pane (senza telo) ritti a coltello e poggiati l'uno all'altro, in attesa che si raffreddassero.

Al pane è sempre stata legata una certa immagine di sacralità e diverse pratiche devozionali:

Sull'architrave in pietra della bocca del forno si trovava spesso incisa una croce;

La massaia si faceva il segno di croce prima di iniziare l'impasto così come segnava in croce i pani prima di infornarli.

Non si doveva porre il pane rovesciato sulla tavola perché "porta male" e quando accadeva usava invocare Santa Brigida, sua protettrice;

Il pane non doveva assolutamente essere sprecato ed ogni briciola veniva sempre accuratamente raccolta. Ai ragazzi si diceva che chi sciupava una briciola di pane sarebbe stato mandato a ricercarla, in Purgatorio, con un dito acceso!

 

Morandi – Natura morta con pane e limone

 

Dichiarazione d’amore al pane

di Warner Schäfer

 

Il pane, l’ho amato fin da bambino.

A casa ne avevamo tutti i giorni, di qualità e forme diverse.

Lo facevamo anche in casa.

Ricordo bene con quale dignità la nonna - aveva più di ottant’anni ed era quasi cieca- tagliava fette dopo fette dalla grossa pagnotta di tre chili e mezzo con l’affilato coltello per il pane, che noi bambini non potevamo neppure toccare.

Le fette erano tutte dello stesso spessore, senza avanzi, ritagli o pezzi troppo piccoli. Non ho mai perso l’amore per il pane.

Il pane mi ha accompagnato durante tutto il periodo della scuola: durante la guerra era  prezioso, dopo la guerra era indispensabile.

Oggi preferisco il pane a qualsiasi altro tipo di alimento e mi arrabbio se mi trovo davanti  del pane poco buono, preparato senza cura.

Per me benessere, sicurezza, salute sono legate al pane; il pane è la casa,  la famiglia, la vita.

Mi piace il suo profumo la sua fragranza, lo scricchiolio di un panino fresco, il sapore deciso del buon pane di segale.

Senza il pane non sarei quello che sono.

 

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