LA MIETITURA

 

I mietitori il sole gli impazza

E come cani abbaiano a chi passa.

I mietitori fanno l'incanata

Nel vino rosso mai non metton acqua.

E per ogni mannella una sorsata,

E il piede della bica è la caraffa.

Gabriele d'Annunzio, La Figlia di Iorio, atto I - scena 2

 

I preparativi

 

Rispetto agli altri cereali e ai legumi, la produzione del grano occupava il primo posto: ad esso erano rivolte le principali attenzioni del massaro per tutto il ciclo produttivo, dall'aratura alla trebbiatura, da esso proveniva la fonte della relativa ricchezza dell'azienda perché, se un'esigua parte era destinata al fabbisogno delle famiglie del massaro e del proprietario, la maggior parte veniva venduta.

I giorni che precedevano la mietitura erano giorni di vigilia per il grande avvenimento: si preparavano gli attrezzi, si estirpavano le erbacce dall'aia e dagli immediati dintorni, si controllavano i carri per il trasporto, si pulivano i locali destinati al deposito del grano, si rendevano idonee le stanze dell'abitazione del bovaro per trasformarle in dormitori per i contadini assunti per i lavori imminenti.

Soprattutto si preoccupava il massaro di ingaggiare anzitempo, sin dai primi di giugno, i lavoranti che dovevano risiedere nella masseria per almeno un mese. La manodopera era raccolta nei dintorni della masseria o in paese;

Il lavoro da iniziare era molto duro e massacrante, per cui solo quegli uomini e quelle donne provati da quel tipo di fatica si prestavano.

Dice al riguardo un proverbio: Timpe de spapernà zite daddò zite daddè, timpe de mète tutte i zite se dòne ntrète.

 

La vigilia della mietitura

 

Il pomeriggio del giorno antecedente la mietitura il massaro aveva l'accortezza di recarsi alle abitazioni del personale ingaggiato per prelevarlo, col traino o col calesse, e portarlo in sede, date le distanze e i mezzi dell'epoca (si andava a piedi), affinché il mattino dopo, prima del levar del sole, i lavoratori fossero nei campi già rifocillati e riposati.

Il viaggio per la masseria trascorreva tra convenevoli, scherzi, canti, narrazioni di casi personali, ecc. La prima sera, dopo cena, ci si intratteneva sugli stessi motivi; spesso si improvvisava un ballo augurale accompagnato dal suono festevole dell’organetto, antenato della fisarmonica molto in uso nelle campagne, ma si andava a letto presto.

Il primo giorno della mietitura cadeva all'incirca nella settimana di San Vito (15 giugno), perché un popolare proverbio comandava: Quan arriva Sante Vite vèrde o secch metite! Vale a dire, non era tempo di indugiare oltre, bisognava mietere subito; per evitare il disperdimento dei semi durante la raccolta, le spighe non dovevano essere completamente inaridite.

Prima ancora della levata del sole, uomini e donne erano già pronti per partire a piedi verso i campi. Si indugiava un po' solo nel caso che la notte avesse prodotto umidità.

Giunti sul posto, i cinque o sei falciatori si preparavano per l'operazione: applicavano al braccio sinistro una fascia di pelle di capra o di tela, per proteggersi sia dalle graffiature di spine ed erbacce sia dalle falciate; infilavano alle dita della mano sinistra cinque pezzi di canna lunghi quanto ogni dito, tagliati ad arte, con un foro attraverso cui era legato un filo di spago: i cinque fili rimandavano a un legamento comune da fissare al braccio, per lo stesso scopo protettivo.

Infine impugnavano le tradizionali falciole da mietere (a falce a falciòdde), dacché da noi la frullana o falce armata (u falciòne) a manico lungo è in uso a partire dal secondo ventennio del nostro secolo. Il lavoro con la falce messora (il primo tipo) era molto lento ma bene eseguito e richiedeva manodopera abbondante. Tale mietitura, tra l'altro, è necessaria ancora oggi quando si abbia un frumento molto irregolare e allettato.

I falciatori si predisponevano a scala in senso diagonale alla linea di campo, per non intralciarsi il lavoro e per evitare il pericolo di ferirsi l'un l'altro; il primo mietitore faceva da capofila.

Ogni mietitore impugnava con la mano sinistra le spighe senza estirparle e colla destra le falciava alla base. Due o tre manète mietute costituivano un piccolo fascio che veniva legato subito in modo provvisorio con alcuni culmi, di cui un capo si avvolgeva al pollice sinistro, e poggiato sul braccio. Subito dopo il falciatore formava altri tre o quattro mazzetti sempre da legare insieme e trattenere sul braccio sinistro colla stessa arte, dietro il pollice: il tutto era detto la “vregna”, che diventato pesante e ingombrante ostacolava i movimenti del falciatore e perciò era posato sul terreno. Il lavoratore ricominciava a fare un’altra vregna e così via.

Alle spalle dei mietitori agiva il legatore di covoni, che raccoglieva alcune vregn (quattro o cinque) disseminati nel campo e li metteva insieme per fare il un covone. Indi prendeva un pugno di piante più lunghe, lo divideva a metà e annodava incrociandole le estremità colle spighe e lo poggiava a mo’ di legaccio a metà della lunghezza del covone tenendo con le mani le due estremità libere e, prendendo in braccio il covone, lo capovolgeva a terra e legava la cintura per tre volte.

Il covone era fatto e veniva lasciato a lato; il legatore ricominciava la sua fatica molto pesante e fastidiosa, anche per la presenza di spine nel grano. Il frumento non doveva essere sfatte (troppo maturo), altrimenti si spezzava perché secco: anche per questo motivo il grano si mieteva quand'era ancora verde-dorato.

 

Le soste e l'alimentazione

 

Dall'alba al tramonto si andava avanti con lo stesso ritmo lavorativo nella calura estiva allietata dal frinire delle cicale, dal canto degli uccelli e dal canto dialogato dei falciatori (uomini e donne), intessuto di botte e risposte. Solo l'acqua ristoratrice mitigava l'arsura dei lavoratori e ne era custode un giovane o una donna che accorreva alla chiamata dei mietitori, avendo poi cura di riporre il prezioso contenitore al fresco di un fragno o di qualche covone.

Erano previste, nella lunga giornata assolata, tre soste. Alle nove, all'arrivo della massara che in un paniere portava sul campo di lavoro pane, cacioricotta fresco, ricotta forte, ventresca arrotolata, vino e altra acqua di riserva, il caposquadra o il massaro dava l'ordine di sospendere il lavoro: era la colazione della durata di circa mezz'ora, consumata sul campo, al sole.

La seconda sosta era prevista dopo mezzogiorno (12,30-13) ed era più lunga e più compensatrice. Ci si riparava sotto un albero e se non c'era nelle vicinanze lo si cercava: l'ombra era quanto mai indispensabile nell'ora più battuta dal sole. Compariva di nuovo l'attesa figura della massara, che, questa volta, recava alimenti più sostanziosi: un piatto grande (comune) di pasta casalinga con polpette di uova e di pane, oppure pasta e ceci, frittura di zucchine o di fiori di zucca, cicoria o sedano da mangiare insieme alla pasta, vino o altro. Consumato velocemente il pranzo, ci si stendeva per assopirsi un po' e ce n'era veramente bisogno. Questa lunga sosta non durava più di un'ora e mezzo.

La terza ed ultima sosta avveniva dopo le 17, della durata di circa mezz'ora, per consumare lo spuntino pomeridiano: una frittata di uova, formaggio fresco oppure sciolto nell'olio bollente, ecc. In tal modo si riprendeva con buona lena il lavoro fino al tramonto.

Ma non era finita: prima di rientrare alla masseria bisognava raccogliere i covoni sparsi nel campo. Era questo un lavoro più leggero ma richiedeva maggiore esperienza.

 

Il riposo

 

Finalmente i falciatori rientravano nella masseria che era già al buio e tolti i segni del lavoro massacrante, riordinati e rinfrescati, alla luce fioca di lampade ad olio o a petrolio o a gas (ma queste ultime dai primi del XX secolo), si riunivano a tavola per la cena calda consumando fave o legumi, verdura cotta, baccalà, vino o altro.

Dopo cena si sedevano all'aperto sull'aia, per il riposo tanto meritato; se avevano voglia cantavano, raccontavano storie, ballavano. Finito il breve svago, si ritiravano nelle anguste stanze improvvisate a dormitori.

La mietitura, nel complesso, si prolungava per dieci-venti giorni, dalla metà di giugno ai primi di luglio; a questo periodo va aggiunto il tempo occorrente per il trasporto sull'aia.

Un mese di continuo via vai di gente, di tensioni, di preoccupazioni, di pericoli, ma soprattutto di dura fatica che accomunava uomini e donne, uomini ed animali, massaro e dipendenti; tutti consumavano le loro energie alla grandissima impresa che si ripeteva ogni anno inesorabilmente col suo cerimoniale forzato, se si voleva sopravvivere al proprio destino.

Dice al riguardo un proverbio: alla massarìa nu manca nu pane nu fatìa. C'era ricchezza (relativa per il massaro) sì, ma anche tanto lavoro.

Terminate le lunghe ed estenuanti operazioni della raccolta delle leguminose e delle biade e del loro trasporto dal campo all'aia (dalla seconda quindicina di giugno alla prima quindicina di luglio), si passava immediatamente ad altre complesse e snervanti attività in cui culminava e si esauriva 1'intero ciclo produttivo-lavorativo della masseria: la battitura o trebbiatura. Tale periodo occupava lo spazio di circa un mese: dalla seconda meta di luglio alla prima meta di agosto, secondo 1'estensione della masseria e la quantità dei prodotti.

 

 

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