AMANTEANI NEL MONDONOTIZIE |
Storia e tradizione |
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STORIA E TRADIZIONE DEL CARNEVALE AMANTEANO di Vincenzo Segreti |
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Dal 23 febbraio al 9 marzo si svolgerà il Carnevale con un ricco ed articolato programma allestito dal “Comitato Giuseppe Brusco”. Il cartellone, che prevede anche concorsi di maschere, proporrà al pubblico 18 carri allegorici, che con i figuranti ed opportune coreografie sbeffeggeranno i potenti della terra, condannando la dilagante violenza e le guerre, affronteranno i temi ecologici, faranno sognare l’infanzia con la riproposizione del mondo delle fiabe. Ma saranno soprattutto le farse in piazza, le commedie dialettali, la sagra della frittata, il commento musicale della locale Banda “F. Curcio” che riscopriranno in parte le antiche tradizioni del Carnevale Amanteano. Come tutti i Carnevali, quello della nostra città è la festa dell’allegria, della gioia di vivere, dell’Oraziano “carpe diem”, che si contrappongono ai mali e alla miseria. Nella settimana grassa il mondo viene rappresentato alla rovescia, la trasgressione istituzionalizzata, i deboli si vendicano dei torti subiti. Le prime notizie del carnevale di Amantea risalgono al 1635 quando, come si legge in un documento d’epoca, il mastrogiurato fu costretto ad intervenire con gli armati per sedare una gigantesca rissa. Nei secoli XVIII e XIX sulla festa in piazza si imposero i balli in maschera che la nobiltà e la borghesia organizzavano nei loro palazzi per distinguersi dalla “forsennata plebaglia”. Ritornata manifestazione popolare, agli inizi del Novecento, il Carnevale, durante il ventennio fascista, si celebrava in tono minore per ragioni di sicurezza e per la mancanza di libertà di espressione che non consentiva la satira di costume, specie nei confronti dei gerarchi e del clero. Nel dopoguerra la manifestazione crebbe qualitativamente con la storica sfilata del 1953. Da allora in poi, per iniziativa di un gruppo di artigiani e studenti, si potenziò la rappresentazione delle farse, dei canti e delle danze popolari, si introdussero nel corteo dei “mascherati” i carri e, negli anni ’70, grazie all’impegno della Polisportiva “Marcello De Luca”, si migliorò l’apparato scenografico ed artistico. Si arrivò, così, alla costituzione, come organizzatore unico, del Comitato Carnevale Città di Amantea, intitolato alla memoria di Giuseppe Brusco, un falegname, ingegnoso ideatore e costruttore di carri. Nata da una cultura marinara e contadina di sussistenza, la settimana grassa amanteana si compendiava, negli ultimi tre giorni (duminica, luni e marti) nel corso dei quali si sospendeva ogni lavoro per dedicarsi ai divertimenti e alle grandi abbuffate. |
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Tutti gli scherzi erano leciti e chi non li accettava veniva imbrattato di fuliggine e ridicolizzato dalle maschere. Inoltre, il Carnevale diveniva spettacolo pubblico mostrando evidenti analogie con la “Commedia dell’arte” e le pasquinate romane per i costumi, le satire a “canovaccio” e i canti salaci. Il Re della sfilata, naturalmente era “Carnulevari”, impersonificato da un omone grosso e vorace, accompagnato da “Corajisima”, una donna magra, isterica e contraddittoria, che desiderava la morte del marito come una liberazione, ma che poi ne piangeva con disperazione la morte. Le più significative maschere, che prendevano in giro i ceti benestanti, le cariche pubbliche e le professioni, raffiguravano “ ’u baruni”, “ ’u miedicu”, “l’avucatu”, “ ’u nutaru”, “ ’u sinnacu”, “ ’u prieviti”. Fra le maschere popolari, che impersonavano la malizia, l’allegria, la lussuria, l’ipocrisia, l’astuzia, l’ingenuità, la vanagloria, “ ’u coscinuotu”, “ ’a pacchiana”, “ ’u Jaccheru”, “ ’u tavernaru”, “ ’u politicu” e il classico Jugale. Una particolarità erano i gruppi carnascialeschi che davano una ridicola testimonianza delle classi egemoni (aristocrazia, borghesia) e una descrizione realistica dei ceti subalterni (contadini, pescatori), sottolineandone le differenze socioeconomiche. Ad aprire e a chiudere il corteo erano “i fratelli”, incappucciati in camici bianchi, ora anonimi Pulcinella, ora paurosi fantasmi. Tutti questi personaggi erano rappresentati da uomini: le donne apparvero alla ribalta solo dopo la seconda guerra mondiale per la loro tardiva emancipazione, dando maggiore credibilità ai personaggi femminili. Ma accadeva, ed accade spesso l’inversione dei ruoli, per provare le emozioni del sesso diverso e per rendere più buffa e movimentata la scena. Prima dell’avvento della motorizzazione, le maschere, divise in gruppi di quartiere, giravano per le vie a piedi o sui carri, trainati da buoi o da muli, e su carrette, spinte a mano; veicoli variopinti ed addobbati alla meglio. Il martedì grasso fra i rioni si svolgeva lo spettacolo. Alle danze, ai canti con accompagnamento di una stonata fanfara seguivano scenette, strofette, basate sull’abilità mimica e la facile battuta, che mettevano alla berlina i maggiorenti, manifestavano momenti di felicità di fronte alle amarezze dellavita, esortavano alla crapula, esprimevano il desiderio di libertà e di benessere, reagivano ai soprusi dei potenti. |
Fra gli autori di queste pungenti satire e parodie si menzionano Francesco Mileti, versatile poeta, e Antonio Gagliardi, abile “capocomico”. Le cronache del tempo riferiscono che non di rado seguiva una versione della farsa ottocentesca in ottave di Costantino Jaccino da Celico “Lu testamientu di Carnalevaru”, un vero inno alla filosofia epicurea, che Carnaluvari lascia in eredità ai posteri. Ora il testimone è stato raccolto dal commediografo Salvatore Sciandra, autore di un’esilarante commedia “A frittata ’i Carnulevari”, che la locale compagnia del Piccolo Teatro Popolare “il Coviello”, metterà in scena sabato 1 marzo nell’auditorium delle scuole medie, che ospiterà anche altri spettacoli. La festa terminava con il funerale di Carnulevari, scoppiato per aver ingurgitato troppo vino e cibo, nonostante l’assistenza di grotteschi medici. A mezzanotte, un enorme fantoccio delle stesse fattezze veniva dato alle fiamme fra gli schiamazzi della popolazione. Così si chiudeva il ciclo della gozzoviglia e si apriva il periodo penitenziale della Quaresima. Questa, sotto la forma di una donna pupazzo, velata di nero, e adorna di sette piume di gallo, che anche in molti altri paesi della regione veniva esposta sulle finestre e sui balconi, come segno di espiazione. Sotto il profilo culinario calabrese, il Carnevale mantiene l’antico rituale della carne di maiale. Ancora si consumano i tipici salumi ed altri prodotti del suino. Ma il piatto più importante è la frittata confezionata con i vermicelli, salciccia, uova e la “resamoglia” (i saporiti residui del grasso cotto del maiale) mentre è d’obbligo il vino rosso. Se, una volta, durante la settimana grassa i poveri potevano soddisfarsi di cibo e di vivande, raggranellare qualche soldo a spese della comunità, ancora oggi, malgrado l’imperante individualismo, resta cordiale l’accoglienza che le maschere ricevono nelle case. Nessuno ha mai rifiutato cibo e denaro perché, secondo la credenza, colui che respinge questi ospiti apportatori di gioia e buone nuove, andrà incontro a disgrazie e malanni. Vincenzo Segreti |
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