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Achille
Lauro SUPERSTAR
La Democrazia
Cristiana
scatena la guerra
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Al
di là dell'edilizia e dei lavori pubblici vengono messi in cantiere molti
altri progetti, che purtroppo naufragheranno per l'ostilità e
l'ostruzionismo del governo.
Si chiede la licenza per installare una televisione privata, la prima in
Italia, ma si ottiene un diniego.
Si vorrebbe aprire un casinò a Sorrento, in maniera da usufruire di
flussi costanti di turisti anche nel periodo invernale, ma anche in questo
caso non si riesce ad ottenere la licenza dalle autorità centrali.
Si progetta una casa cinematografica nel capoluogo, da localizzare nella
Mostra d'Oltremare. Il pallino per i film al Comandante viene a seguito di
una passione che agita i suoi ormoni ancora tanto efficienti: ha infatti
conosciuto una sedicenne dalla folgorante bellezza, aspirante attricetta,
Eliana Merolla, che diventerà prima la sua amante e poi, dopo la morte di
Angelina, sua moglie. Per lanciarla egli finanzia una pellicola che la
vede interprete principale con lo pseudonimo di Kim Capri al fianco di
attori famosi, come Amedeo Nazzari e Paolo Stoppa, per un soggetto di Susy
Cecchi D'Amico.
Si progetta inoltre a Baia un cantiere, il più grande del Mediterraneo,
un investimento da dieci miliardi, ma non si ottengono i contributi
governativi, nonostante l'interesse alla realizzazione dimostrato dallo
stesso Giancarlo Valletta, all'epoca leggendario "padrone" della
Fiat.
A fronte di tante iniziative, nessuna delle quali purtroppo realizzate,
persiste nel bilancio comunale un deficit che cresce giorno dopo giorno
fino ad assumere proporzioni preoccupanti. E sarà su questo buco dalle
grosse dimensioni, oltre che sul non rispetto delle procedure burocratiche
che si baserà il contrattacco della Dc, che sotto le vesti dello Stato
interverrà in forze.
L'esame del bilancio preventivo del comune di Napoli per il 1956, condotto
dalla Direzione generale dell'amministrazione civile, aveva messo in luce
un disavanzo di circa trenta miliardi. Esso non aveva però impedito
l'assunzione, nel corso del 1955, di 1057 tra impiegati e salariati, il
che fece salire il numero dei comunali a ben 12.351 unità, senza
considerare i dipendenti dell'azienda tranviaria.
Questa situazione di dissesto permette al governo di intralciare l'attività
di Lauro, attraverso la sospensione, ad intervalli regolari, del delicato
meccanismo che garantiva, per mezzo dell'erogazione di mutui, il denaro
liquido sufficiente al pagamento mensile degli stipendi ai dipendenti
comunali.
Lauro è un fiume in piena, lo straripante successo elettorale alle
amministrative lo induce a conquistare altre piazze, per cui, in occasione
delle consultazioni regionali sarde dell'aprile 1957 si prepara alla
grande. Una task-force propagandistica, mai vista prima in Italia,
s'imbarca dal molo Beverello a bordo di una gigantesca nave-traghetto. A
Cagliari, sbarcano sotto gli occhi attoniti degli sbalorditi indigeni
sessanta automobili con altoparlanti e venti autocarri stracolmi di
materiale cartaceo e di tutto ciò che necessita per allestire una miriade
di sedi di partito, dai manifesti alle foto, dalle macchine da scrivere ai
televisori ed agli indispensabili calcio-balilla, in grado di procurare più
voti di qualsiasi promessa.
In pochi giorni alcune centinaia di sezioni monarchiche coprono
capillarmente tutto il territorio, battuto metro dopo metro da Lauro in
persona che, dimostrando per l'ennesima volta delle capacità di lavoro
fuori del comune, terrà discorsi dappertutto, anche nelle isolette più
sperdute.
Ad ogni comizio vengono distribuiti pacchi dono, ma i Sardi, più che da
questi regali, a cui non sono abituati, vengono colpiti dall'eloquenza del
Comandante, il quale eroderà voti, oltre che a covelliani e missini,
soprattutto ai comunisti, che perderanno oltre ventimila consensi, mentre
la Democrazia cristiana riesce a rimanere stazionaria.
Per la lista di don Achille è una vittoria al di là di ogni più
ottimistica previsione: 60.000 voti pari a 9% e a 6 seggi nell'Assemblea.
Ad urne da poco scrutinate, il materiale
propagandistico è stato già smantellato ed è di ritorno verso
Napoli, pronto, l'anno
successivo, ad essere scaraventato, opportunamente potenziato, per tutto
il Mezzogiorno, in occasione delle elezioni previste per il 1958.
La macchina da guerra laurina si prepara ad invadere Calabria, Puglia,
Lazio e poi anche le regioni settentrionali. Si prevede un potenziamento
nel numero dei pullman propagandistici. Quello speciale, allestito per il
Comandante è fantascientifico: contiene varie stanze, tra cui un ufficio
ed una camera da letto ed in pochi minuti il tetto è in grado di
trasformarsi in un palco pluridotato di microfoni multidirezionali,
per poter tenere discorsi in ogni piazza.
Nello stesso tempo, nel 1956, si è assistito al fallimento della
Confintesa, un raggruppamento di diversi partiti moderati patrocinati
dalla Confindustria, che è avversa a Fanfani, avendo perso per colpa sua
il controllo di oltre duecento aziende irizzate.
Di conseguenza ora la Confindustria comincia a pensare ad una "grande
Destra" guidata da Lauro, grazie ai cui uffici sperano per il 1958 di
sdoganare il Movimento sociale italiano.
Achille Lauro
Lauro
leader della "grande destra".
Il
tentativo di creare a livello nazionale un grande fronte a destra,
capitanato da Lauro, s'intreccia ambiguamente con la crisi finanziaria del
comune di Napoli e l'improvvisa "attenzione" del governo verso
il suo disastrato bilancio.
La realtà, molto eterogenea, che si doveva assemblare sotto una
denominazione retoricamente ambiziosa di "grande destra"
assommava in pectore a quattro milioni di voti, per cui rappresentava
un'operazione politica in grado d'influenzare significativamente gli
equilibri consolidati.
Un ostacolo era costituito dalla vecchia ruggine tra il Comandante e
Covelli, esacerbata dal recente passaggio di un consistente numero di
onorevoli dal Pnm verso il gruppo parlamentare laurino.
Le trattative ed i piani di battaglia fervevano da tempo, mettendo in
ansia le testate governative, che ammonivano apertamente di "pericolo
di destra", da cui bisognava stare particolarmente attenti, "per
l'inveterata abitudine mentale a vigilare solo sui bastioni dell'estrema
sinistra".
Lauro cercava, attraverso questi suoi non dissimulati programmi di
"ampliamento", di esercitare una pressione sul governo, che, nel
mese di dicembre, facendo seguito a dei minuziosi controlli, aveva
commissariato gli uffici elettorali e demografici del comune.
La guerra fredda si acuì quando Tambroni, rispondendo ad una serie di
interrogazioni in Parlamento, enumerò, con voce distaccata, una serie
d'irregolarità riscontrate durante le ispezioni, che andavano dalla
prodigalità eccessiva nell'erogazione del denaro pubblico alla
sistematica elusione delle procedure burocratiche previste dalla legge.
Fu allora chiaro a tutti che l'attacco sferrato verso l'amministrazione
comunale avrebbe portato in breve allo scioglimento d'autorità della
giunta; una mazzata terribile per il Comandante, ben difficile da
assorbire. Molti, impauriti, cominciarono a battere in ritirata, seguendo
l'italico costume di abbandonare il perdente e di correre in soccorso,
quando possibile, del vincitore. Tra questi coraggiosi, i liberali, con
Einaudi in testa, che minacciava grottescamente le sue dimissioni
irrevocabili dal partito in caso di accordo con Lauro. Gli stessi missini,
pur stigmatizzando, attraverso i loro giornali, lo spudorato colpo di mano
del governo "di colpire Lauro, fautore dell'unità a destra",
preferirono per il momento accantonare il sogno malizioso della sacra
coalizione.
Tra le voci dissonanti a livello nazionale l'autorevole "Il
Tempo", con un editoriale di Alberto Consiglio dal titolo ambivalente
"In difesa dei mariuncelli", volle giustificare ampiamente, con
un'acuta analisi storica, il comportamento della giunta laurina:
"Lauro come sindaco ha ereditato il malcostume amministrativo da
secoli di spagnolismo e di borbonismo, da cento anni di unità nazionale a
conduzione piemontese ed anche, sia detto per onestà, da un decennio di
democrazia repubblicana..., il deficit pauroso del comune partenopeo trova
in parte giustificazione nel volto rinnovato della città, nel risanamento
di interi quartieri, forse temerariamente affrontato, però praticamente
realizzato".
La prima campagna politica all'americana messa in pratica in Italia e gli
stupefacenti risultati ottenuti incutono timore ai membri del governo, i
quali decidono d'intervenire con fermezza prima che sia troppo tardi,
anche alla luce delle nuove condizioni politiche, interne ed
internazionali, che sono venute a crearsi. Infatti la dura repressione
dell'insurrezione ungherese da parte dei carri armati sovietici ha aperto
gli occhi anche a chi non voleva vedere ed ha convinto Nenni a liberarsi
dall'imbarazzante alleanza con il Partito comunista. Ci sono ora le
condizioni per un dialogo più proficuo fra cattolici e forze di sinistra
moderate, che sarà visto con benevolenza anche dal nuovo papa Giovanni
XXIII.
Il blitz scatta proditoriamente il 28 aprile 1957, una data fatale per il
laurismo, che comincerà da allora il suo tormentoso declino.
Un calcolato ritardo del contributo integrativo da parte del governo non
permette il pagamento degli stipendi agli spazzini napoletani, i quali
entrano in sciopero e non ci vuole molto per la città a trasformarsi in
una gigantesca pattumiera a cielo aperto, anche per il lavoro della
teppaglia al soldo della Dc e degli attivisti comunisti che sparpagliano
dappertutto cartaccia e residui organici. Dopo pochi giorni è previsto
infatti a Napoli un importante congresso internazionale di medicina, con
scienziati arrivati da mezzo mondo: quale migliore occasione per le
opposizioni riuscire a dimostrare che la situazione dell'amministrazione
comunale ha superato abbondantemente il livello di guardia? Nonostante il
prefetto (rapporto del 18-4-'57) avesse scongiurato il ministro competente
che, "per evitare il precipitare di una situazione già gravissima
dell'ordine pubblico, in seguito allo sciopero dei dipendenti
comunali", era urgentissimo sbloccare i mutui previsti dalla legge.
Don Achille non si fa sorprendere, torna di corsa a Napoli con un aereo
privato, preleva i soldi necessari dalle casse della flotta e paga gli
stipendi ai netturbini che in poco tempo ripuliscono la città.
Ma Fanfani, il suo nemico, ha piazzato i suoi uomini al posto giusto per
sferrare l'attacco finale: Tambroni, ministro degli Interni, è incaricato
di fare la faccia feroce, mentre Gava, in uno dei frequenti incontri che
avvenivano tra loro, fingerà di voler mettere a posto le cose.
Nel frattempo anche lo stesso prefetto Diana, dimostratosi sempre
filolaurino, verrà sostituito con Marfisa, che ben presto dimostrerà la
sua ostilità.
Tambroni avvertiva Segni che l'instabilità finanziaria del comune di
Napoli non poteva "non avere ripercussioni sul piano politico"
(lettera del 29-7-'56), anche in considerazione che per il 1957 si
preannunciava un deficit di oltre 33 miliardi.
Il disavanzo era dovuto alla necessità indifferibile di far circolare
denaro nella città, stremata sotto il profilo economico e
psicologicamente ci si poteva ritenere autorizzati a comportarsi in quel
modo dall'esistenza di una legge, che prevedeva per i comuni la facoltà
di contrarre mutui per colmare un eventuale buco nel bilancio, senza
l'obbligo di aumentare le entrate.
L'atteggiamento avverso del governo, ritardando capziosamente l'erogazione
dei mutui integrativi dei bilanci per il 1955 e 1956, non solo vanificava
del tutto i benefici della legge speciale, ma impediva di fatto lo stesso
esercizio dell'ordinaria amministrazione.
La battaglia a viso aperto fu preceduta da un breve periodo, in cui si
cercò di far prevalere l'idea che fosse la burocrazia ministeriale a
richiedere, necessariamente, un esautoramento della giunta Lauro, come
risultato di un neutrale iter amministrativo.
Scaramucce furono il commissariamento dell'Eca ( Ente comunale di
assistenza) feudo personale di Gaetano Fiorentino, che si vide scippato un
prezioso generatore di voti e di consenso, oppure l'inchiesta prefettizia,
su denuncia del consigliere comunista Bisogni, riguardante presunte
irregolarità nell'uso di auto del comune e sull'utilizzo dei buoni
acquisto della benzina. Indagine che evidenziò pesanti responsabilità a
carico dell'assessore alla Nettezza urbana Amato.
Erano tutti segni tangibili dell'avvenuto divorzio tra la Democrazia
cristiana e Lauro, favorito in parte dall'attività intransigente del
governo di transizione, presieduto da Adone Zoli, che seguì alle
dimissioni del gabinetto Segni. Tale governo, nato nel mese di maggio,
anche se di breve durata, adottò uno stretto controllo della spesa
pubblica e la rigida osservanza di "rigorosi criteri dell'economia
nell'esame dei provvedimenti legislativi". S'impegnò a fondo nel
contenere il flusso dei finanziamenti agli enti locali, che si era oramai
trasformato in un fiume in piena.
A Napoli, in questa fase d'instabilità economica, il ritardo nei
pagamenti alle imprese appaltatrici del comune provoca vistoso
malcontento, che viene segnalato dal prefetto al ministero competente in
numerosi rapporti riservati, evidenziati e resi pubblici dallo storico
Pierluigi Totaro, che ha esplorato sui documenti gli anni d'oro di Lauro
sindaco, dal 1952 al 1958.
"Piccole aziende sull'orlo del fallimento, enti che non trovano più
credito neanche per fronteggiare le modeste spese di carattere
indispensabile, appaltatori che, ovviamente, fanno incidere il rischio del
mancato pagamento sull'ammontare del costo dei loro servizi, stato d'ansia
e di agitazione delle masse impiegatizie e dei lavoratori, che vedono la
precarietà della loro situazione".
Una denuncia accorata e precisa che trovò orecchio da mercante nelle
stanze del potere romano.
Il primo, il 12 agosto, con 40 gradi all'ombra, invia a Napoli tre
ispettori a verificare eventuali irregolarità amministrative, tali da
giustificare l'arrivo di un commissario, mentre l'altro compare riceve a
Roma il Comandante e gli fa capire che "nel caso in cui il sindaco
avesse il buon senso di dimettersi insieme a tutta la giunta, potrebbero
non essere celebrati processi penali a suo carico"(Zullino).
Una pesante intimidazione che fa capire, se tutto è vero, che non
soltanto in tempi a noi più vicini, la magistratura è stata pronta a
diventare il braccio armato del potere.
Lauro torna a casa furioso e si prepara alla battaglia, che si pronostica
senza esclusione di colpi, fiducioso - come sempre - nel successo. Ma la
situazione tende a precipitare nel mese di dicembre, quando Tambroni,
rispondendo in Parlamento ad alcune interpellanze, si dilunga in un
implacabile atto d'accusa verso l'amministrazione comunale partenopea.
Sono state accertate "gravi, diffuse, sistematiche irregolarità
e deficienze" e si preannuncia che il governo chiederà al Presidente
della Repubblica di firmare il decreto di scioglimento della giunta. Sono
17 le contestazioni mosse al primo cittadino, con l'assegnazione di un
termine per l'eliminazione delle irregolarità e per eventuali
controdeduzioni.
Il Comandante viene indotto insieme ai suoi consiglieri a dimettersi, cosa
che fa, assieme a sette assessori, il 20 dicembre, perché si ritiene che
ciò possa fermare l'azione del governo, non potendosi sciogliere una
giunta formata successivamente e presieduta da un altro sindaco.
Le dimissioni, precedute da una lunga autodifesa che ebbe vasta eco sulla
stampa, furono motivate dalla partecipazione alle elezioni politiche e
vennero duramente osteggiate dalle opposizioni, che vedevano vanificate,
con la fuga del sindaco, le speranze d'imporre all'avversario il colpo del
Knock-out .
Quindi, il 6 gennaio, Lauro fa eleggere con i 45 voti della sua
maggioranza monarchico-missina al suo posto un uomo di assoluta fiducia:
Nicola Sansanelli, ex federale fascista, già assessore al patrimonio
nelle giunte precedenti, il quale rimarrà in carica per soli 38 giorni.
L'elezione avviene in un'aula semideserta abbandonata per protesta
dall'opposizione.
Il Comandante attraverso i suoi organi di stampa informa di aver lasciato
il seggio di palazzo San Giacomo, unicamente per impegnarsi su di un
fronte più vasto per i destini di Napoli e del Mezzogiorno.
Egli infatti si adopera per formare finalmente la "grande
Destra", un progetto più volte accarezzato e mai andato in porto,
con un ambizioso obiettivo: superare i due milioni di consenso, mandando
così al Parlamento 70 rappresentanti.
"Una vigorosa crociata contro il socialcomunismo e la Dc per
sottrarre l'Italia all'atroce dilemma tra potere rosso e dittatura
clericale".
Purtroppo i potenziali alleati nicchiano. Infatti Covelli guarda oramai
con simpatia Fanfani, dopo aver offerto i suoi voti per l'elezione di
Gronchi, mentre Michelini prudentemente tace.
La lotta ingaggiata appassiona tutta l'Italia e di essa parlano le penne
più famose: dal "pontefice" Indro Montanelli a Giovanni Ansaldo
che, dopo un lungo periodo di non belligeranza, ha cominciato dalle pagine
del "Mattino" una guerra ad oltranza, avvelenando giorno dopo
giorno i suoi articoli di fondo.
Anche sul piano politico locale le accondiscendenze democristiane del
passato svaporano con l'elezione di Davide Barba, un fanfaniano, a nuovo
segretario provinciale. Nello stesso tempo il quadro della politica
nazionale spinge verso queste difficili decisioni; fanno infatti molta
paura: la concorrenza sempre più temibile dei monarchici nel Mezzogiorno,
il crescente timore della vagheggiata "grande destra", mentre si
manifesta lampante l'inutilità dei voti laurini in Parlamento, divenuti
oramai superflui.
I giochi sono fatti: il 13 febbraio 1958 il Presidente della Repubblica
firma il decreto di scioglimento della giunta comunale napoletana per
quanto retta, non più da Lauro, ma da un nuovo sindaco e nonostante il
parere contrario espresso dal Consiglio di Stato, perché prevalse la
convinzione truffaldina che, la presenza del Comandante come assessore,
ponesse la giunta Sansanelli in linea di netta continuità con la
precedente.
Il giorno successivo il prefetto Correra, scortato da ben 7
vicecommissari, prende possesso di palazzo San Giacomo.
Lauro furente minaccia: "Discuteremo con Tambroni quando avremo 70
deputati a Montecitorio".
Nello stesso tempo gli attivisti cercano di aizzare la piazza, provocando
disordini e cortei di protesta, ma la polizia schierata in forze scoraggia
anche i più facinorosi.
La sostanziale assenza d'incidenti di piazza fu un ulteriore dimostrazione
di civiltà e di atavica tollerante pazienza da parte dei napoletani, i
quali, pur dispiaciuti per lo scioglimento della giunta, non si
abbandonarono a quelle strenue violente difese campanilistiche che hanno
contraddistinto la storia italiana degli ultimi 50 anni.
Fu una tangibile conferma che il laurismo non era stato contrapposizione
allo Stato, ma capacità di calamitarne la benevolenza, attraverso
pacchetti d'interventi economici, da gestire poi al di fuori dei rigidi
schemi burocratici, che tendono a paralizzare ogni iniziativa. L'unico
metodo per governare una città difficile come Napoli!
Lo stesso Lauro sarebbe stato danneggiato da una esplosione di rabbia
popolare, che avrebbe troncato qualsiasi aspirazione di ritornare
legalmente al timone della città, con un forte potere contrattuale da
spendere a Roma, fonte inesauribile di finanziamenti ed agevolazioni.
Egli era pronto a combattere, e duramente, una battaglia che riteneva già
vinta in partenza.
L'unica protesta che si concluse fu quella, come pittorescamente descrive
Zullino, capeggiata da "Nannina a chiattona", la quale alla
testa di un gruppo di donne sfilò, alternando urla e bestemmie a slogan,
per le strade, mentre le sue vaiasse affiggevano ritratti di Lauro ai
cofani delle automobili. Il tutto condito da apprezzamenti irripetibili
nei riguardi del nuovo commissario ed a lodi sperticate agli attributi
virili, il famoso "pescione", del Comandante.
L'isolamento politico di Lauro si coglieva dalla stampa; perfino il
missino "Secolo d'Italia" ironizzò, essendo giorni di
carnevale, sul "giovedi magro" dell'ex sindaco.
Don Achille si difende vigorosamente nel corso di un'affollatissima
conferenza stampa tenuta a Roma il 17 febbraio.
Dopo una notte trascorsa senza dormire per approntare il documento con
l'aiuto del fedele scriba Giovanni Gatti, parlerà per tre lunghissime ore
con i giornalisti, con una vis polemica straordinaria, colorita da frasi
vivaci, alternando vernacolo e lingua, esplicative del fatto che questa
volta non si tratta dei soliti discorsi preparati da Cafiero o Pugliese e
letti con difficoltà senza trasporto, ma del pensiero genuino del
Comandante, che una volta tanto si dimostra grande oratore, sottolineando
la gravità del provvedimento deciso dal governo in assoluto dispregio
della volontà democraticamente espressa e rintuzzando con pignole
precisazioni le infondate, pretestuose contestazioni di Tambroni.
Per inciso Lauro venne accusato di gravissimi illeciti amministrativi,
invadendo il campo di interesse della magistratura, ma nessun processo fu
mai celebrato a suo carico, per cui i casi sono due: o le irregolarità
contestate non erano così gravi come la stampa si sforzava di mettere in
evidenza, oppure il comportamento acquiescente dell'autorità giudiziaria
non fu cristallino.
Le sue proteste avranno un'eco di consenso anche nella stampa di sinistra
che percepisce il sopruso governativo e lo esplicita senza perifrasi dalle
pagine del suo organo di stampa nazionale l' "Unità" (24
dicembre 1958).
"Anche a Napoli, il fanfanismo è prepotenza, è sostituzione della
"autorità" alla volontà e al funzionamento degli organismi
democratici eletti dal popolo, è visione burocratica dall'alto, di tipo
coloniale dei metodi di governo e di amministrazione, è subordinazione
agli indirizzi della grande industria monopolistica settentrionale, è
corruzione. Dove la Dc non ha ottenuto i voti sufficienti a costituire
delle maggioranze, là interviene l'autorità dello Stato".
Insigni giuristi indipendenti, come Arturo Carlo Jemolo, stigmatizzarono
la decisione del governo,evidenziando il diverso comportamento verso le
autorità municipali secondo il colore della giunta: "La tutela sui
comuni è da noi continua, quel che è peggio, intensamente politicizzata,
sicchè non opera dove ci sono amministrazioni care a ministri e deputati
di maggioranza, ma può invece essere vessatoria".
Anche la stampa straniera s'interessò scandalizzata agli avvenimenti
napoletani, tra cui l'autorevole "Tribune de Genève" che spezzò
una lancia a favore del Comandante, il cui comportamento moderato aveva
evitato che potessero nascere disordini: "Sino ad oggi non si vede di
quale irregolarità Lauro si sia reso colpevole; se talune spese sembrano
esagerate, egli non ha messo nulla in tasca ed ha usato tali somme a scopi
benefici. Non si può dire se, diretta da altri partiti, la città avrebbe
potuto avere un bilancio tanto pulito; in ogni caso, soltanto le elezioni
potranno dare un quadro preciso dell'orientamento politico dei
cittadini".
Purtroppo anche i napoletani, voltabandiera come sempre, praticarono
l'antico vizio italico di correre in soccorso del vincitore, mentre
Ansaldo, cominciò a martellare sempre più dalle pagine del
"Mattino" sui nefasti metodi del laurismo.
I risultati delle elezioni sono disastrosi; il 25 maggio dalle urne, al
posto dei "minacciati" due milioni, usciranno soltanto 700.000
voti e la strombazzata falange di 70 deputati sarà costituita da uno
sparuto manipolo di soli 14 elementi.
Il colmo è costituito dalla mancata rielezione dello stesso Comandante,
pur con la scusante che egli non aveva avuto timore a ingaggiare la lotta
nel difficile collegio di Castellammare di Stabia, da sempre inespugnabile
feudo dei Gava.
Avvilito e deluso, dichiara che pur continuando nella battaglia "quel
che è certo è che io non sento di avere gli stessi impegni che assunsi
con i 300.000 napoletani che nel 1956 mi diedero il voto, e ciò perché
questi voti sono diventati la metà".
Un ciclo storico irripetibile si era chiuso, perché l'epopea del laurismo,
ridotta se non al silenzio a disordinati e dissordanti rumori di fondo,
pur continuando imperterrita fino alle elezioni del 1976, con il
Comandante in lizza ad oltre 90 anni, non raggiungerà più i fasti del
decennio d'oro.
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