SULLO SGANCIARE
LA RETRIBUZIONE DAL LAVORO
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Il video citato in cui Domenico De Masi afferma: “È auspicabile che non vi siano conflitti cruenti anche se si fa di tutto perché ciò avvenga, e questo è criminale” è “Audizioni su innovazione tecnologica e occupazione” (https://youtu.be/pfk7dYHzKEI). De Masi procede dicendo che se non vi saranno conflitti cruenti dovrà esservi necessariamente un cambiamento totale di prospettiva consistente nello “sganciare la retribuzione dal lavoro”. Vedi alla nota 1 la trascrizione di tutta la sua esposizione (1).
L’auspicio di De Masi è sostanzialmente la stesso di Rudolf Steiner nel 1918 e fino alla sua morte. Si veda ad esempio la 2ª e la 9ª conf. di “Esigenze sociali dei tempi nuovi”. Egli diceva queste cose (che poi espose compiutamente anche nel libro “I punti essenziali della questione sociale”: http://digidownload.libero.it/VNereo/rudolf-steiner-i-punti-essenziali-della-questione-sociale.pdf)perché VEDEVA che, con l’avvento della tecnica, il lavoro lo avrebbero fatto sempre più le macchine, cosa che gli economisti oggi non vogliono assolutamente vedere.
Ecco perché De Masi conclude dicendo: “si ha diritto a vivere anche se non mi date del lavoro. Non capisco perché se non mi date del lavoro non mi volete dare neppure del pane”, indirettamente accennando all’esigenza del minimo vitale per ogni socio dell’organismo sociale (il minimo vitale è una precisa legge sociale come la legge di Boyle-Mariotte lo è per la fisica... Di questo rapporto parlava Steiner quando spiegava la triarticolazione come elemento fondamentale, dicendo che si può seguire le leggi sociali senza agire contro di esse; cfr. il cap 3 de “I punti essenziali...” sopra citati.
Ecco le pagine di Steiner presenti nel video “Sullo sganciare la retribuzione dal lavoro”:
«Le cose da me esposte come scienza sociale, traendole dalla scienza dello spirito, sono all’incirca come il teorema di Pitagora, quando si sappia che il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati dei due cateti; non esiste alcuna esperienza che lo contraddica e bisogna applicare dappertutto questo principio. Lo stesso avviene del principio da me esposto della scienza sociale e della vita sociale. [...] Ciò cui si deve tendere [...] è di separare il lavoro dal procacciamento dei mezzi di sussistenza [...] Non vi è altro mezzo contro l’abuso che viene fatto col denaro, se non strutturando la società in modo che nessuno possa essere remunerato per il suo lavoro, che il procacciamento dei mezzi di sussistenza sia attuato in tutt’altra maniera. In tal modo non si potrà mai far sì che, qualcuno venga costretto, mediante il denaro, a lavorare» (R. Steiner, 2ª conf. del ciclo “Esigenze sociali dei tempi nuovi”, p. 45 dell’Ed. Antroposofica, Milano 1971).
E ancora:
«L’indagine deve avere per obiettivo la configurazione della struttura sociale, della convivenza sociale, al fine di staccare la merce oggettiva, il bene, il prodotto, dalla forza-lavoro. [...] Ma se si consIdera come assioma il fatto che la forza-lavoro è cristallizzata nella merce (Marx), che non è possibile separare questi due fàttori, ci si occulta proprio il problema principale, si capovolge ciò che invece deve stare sui piedi [...]. Se si rendono le misure necessarie nel senso della triarticolazione da me esposta, si ha la maniera per dissociare dalla forza-lavoro quanto oggettivamente è una merce, un bene distaccato dall’uomo» (ibid. 9ª conf., p. 221).
(1) TRASCRIZIONE DELL'ESPOSIZIONE DI DOMENICO DE MASI (“Audizioni su innovazione tecnologica e occupazione”: https://youtu.be/pfk7dYHzKEI)
«Se noi leggiamo la parola “lavoro” nell’Enciclopedia Diderot e D’Alambert, vediamo che c’è scritto: “il lavoro è lo sforzo che fanno le viti quando entrano nel legno”. Questo significa che ancora nella metà del Settecento, il concetto di lavoro era completamente diverso dal nostro e non si era così strutturato com’è oggi e così come sarebbe avvenuto grazie soprattutto alla società industriale, quella società che si stava strutturando nella metà del Settecento, che a mio avviso, è praticamente declinata duecento anni dopo nella metà del Novecento, e che ora è sostituita dalla società dai connotati completamente diversi e che per comodità io chiamo “post industriale”.
Quando fu scritta quell’Enciclopedia, il lavoro era prevalentemente rurale, artigianale, ed erano ancora minimi i supporti tecnologici, che sarebbero diventati di lì a poco molto più imponenti e determinanti. È notorio che tutto ciò portò ad un travaso enorme di lavoratori dalla campagna alla città e determinò quelle condizioni di lavoro che sono descritte in moltissime ricerche dell’epoca e soprattutto nella condizione della classe operaia in Inghilterra di Engels (1830 ca.). Quella condizione, che determinò poi anche moti come il luddismo, che viene continuamente richiamato quando si parla di tecnologia, era una rivoluzione che praticamente sostituì, con trattori automatici, telai automatici, automobili e ferrovie, prevalentemente i cavalli. Questo può sembrare una cosa secondaria ma è determinante. Vi fu allora una vera e propria falcidia di cavalli, perché quell’ondata tecnologica sostituì le macchine elementari (il martello, la pialla, ecc.) o “analfabete” con delle macchine ad “alfabetizzazione elementare”, che incorporavano un po’ di logica umana, consentendo di fare cose, che avrebbero fatto altrimenti esseri umani. Però quelle macchine, per essere prodotte, richiedevano un lavoro, che non era equivalente (come si disse dopo, sbagliando) al lavoro che andavano a sostituire, ma era comunque un lavoro notevole. Cioè per produrre una macchina che sostituiva dieci persone non ce ne volevano dieci ma sei o sette. Comunque il rapporto era ancora abbastanza similare. Questo ha determinato, soprattutto negli economisti, una visione meccanica del rapporto tra macchina e lavoro, per cui si da’ per scontato (ma sempre di meno) che per produrre macchine occorre più gente di quanta ne sia sostituita dalle macchine stesse. Siamo comunque di fronte ad una svolta archeologica della tecnologia e della scienza, le quali procedono per andamenti aritmetici ma per andamenti geometrici. Abbiamo delle lunghe fasi di stasi. Per esempio dai tempi mesopotamici al 12° secolo d. C., per tre mila anni praticamente non c’è stato progresso tecnologico. Poi all’improvviso nel Medioevo, nel 12° secolo, si scopre la polvere da sparo, la stampa, la bussola, i mulini ad acqua, gli occhiali, tutta una serie di tecnologie che sono state profondamente significative per quell’epoca. Poi invece si passa ad un Rinascimento, e quindi ad un Seicento che prepara la rivoluzione industriale. Ma questa è solo una fase dello sviluppo umano. Questa fase termina con la seconda guerra mondiale.
Dalla seconda guerra mondiale in poi, i giochi cambiano completamente ma il modo con cui vengono descritti i giochi e vengono trattati dagli economisti sono gli quelli di prima. Si crea cioè quella che gli antropologi chiamano “cultural gap”: applicare alla fase successiva le regole e la mentalità maturate nella fase precedente. Oggi si sta facendo il gravissimo errore di applicare a questa situazione di sviluppo tecnologico le stesse considerazioni anti-ludiste che si applicarono giustamente nell’epoca delle prime macchine.
La situazione tecnologica odierna (2016) è spiegabile attraverso un noto racconto cinese, dove si parla di un pescatore che salva la vita dell’Imperatore, e l’Imperatore gli dice che in cambio è disposto dargli qualunque cosa. Allora il pescatore risponde: “Mi basta prendere la scacchiera degli scacchi e mettere un chicco di grano nel 1° quadratino, due nel 2°, quattro nel 3°, otto, sedici, trentadue, e così via. Naturalmente l’Imperatore, così come gli attuali economisti, risponde affermativamente che non è un problema. Il problema incomincia ad apparire però quando si raggiunge la prima parte della scacchiera e si entra nella seconda parte. Perché lì i raddoppi sono naturalmente all’ennesima potenza, fino ad arrivare ad una quantità di riso che tutta la Cina non potrebbe praticamente dare. Io credo che noi, per quanto riguarda le tecnologie, siamo alla fine della prima parte della scacchiera. Cioè siamo in una situazione in cui gli effetti della tecnologia non sono proporzionati aritmeticamente a tutto quello che è avvenuto prima. Intanto non si tratta solo dell’informatica che continuamente viene evocata ma si tratta di un indice composto che è dato dalle nanotecnologie, dalle biotecnologie, ovviamente anche dall’informatica, e così da tante altre branche e, soprattutto ora, dall’intelligenza artificiale. Perché con l’intelligenza artificiale praticamente le macchine in qualche modo si laureano, e quasi quasi conquistano dei “Master” Quindi sono capaci di fare cose che noi non avremmo mai pensato di poter affidare alle macchine. Esiste a Miami una macchina della Google autoguidata. Un guidatore umano riesce a tenere , la moglie che parla, ecc. sotto controllo, a seconda dei casi, fino a 20, 25, segnali (il semaforo, il cane che passa, la moglie che parla, ecc.). Il sensore che c’è attualmente - e quindi primitivo - sopra una macchina autoguidata riesce a tenere sotto controllo contemporaneamente 2000 segnali, che grazie al satellite vanno su un raggio enorme (perfino ai blocchi di traffico che ci sono a 5, 10, 20 Km, ecc.).
Ecco, noi stiamo per avere questo tipo di tecnologie e questo tipo di tecnologie, ci piaccia o no, (sono “labour saving”) sostituiscono molto più lavoro di quanto richiedono per essere fatte.
L’idea che si possa produrre più beni e più servizi con meno lavoro è qualcosa di strepitoso. Invece per gli economisti è una iattura perché li costringe a rivedere tutti i loro schemi, che sono oramai tutti obsoleti. Perché quando si dice “neoliberismo” si dicono ancora le idee di Adam Smith, 1779, cioè idee che, per quanto uno le voglia modernizzare, sono nate ancora all’epoca dei cavalli.
I sociologi del lavoro non sono neanche stati capaci di trovare dei nomi. Dicono che un facchino lavora, un metalmeccanico lavora, un manager lavora, un poeta lavora, un artista lavora, ma con quell’unica parola dicono cose diversissime fra di loro. Diceva Conrad: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo dalla finestra, io che sono scrittore, sto lavorando?”. Bisogna invece avere almeno tre parole per caratterizzare il lavoro. La fatica è quella dell’operaio, il lavoro è quello del bancario o dell’esprimersi del professore, o dell’artista o dello scienziato. Resta il fatto che i sociologi, anzitutto, dovrebbero smettere di dire la parola “lavoro” come fatto omnicomprensivo. Il cosiddetto lavoro inteso come fatto omnicomprensivo comporta che oggi si vada in pensione tutti lo stesso giorno sia che si sia metalmeccanici alla catena di montaggio, sia che si sia giornalisti, sia che si sia manager. Un giornalista arrivato a 65 anni quando finalmente ha imparato l’arte del giornalismo deve andare in pensione. Quindi sono cose proprio screanzate in quanto esulano dalla comprensione del lavoro quale è oggi. Per accettare il telelavoro si è ricorsi ad un espediente linguistico chiamandolo “smart working” per paura di chiamarlo “telelavoro”. Comunque sia, è ovvio che in un mondo in cui è possibile collegarsi per qualunque cosa, in qualunque punto, in qualsiasi momento, e lo fanno tutti i figli dei lavoratori purché abbiano una decina d’anni, i genitori non possano che prenderne atto.
Quindi reputo che tutta la tecnologia, e qui stiamo parlando di hardware ma tutto ciò che poi è software, non c’è una “App” che non serva per risparmiare lavoro. Allo stato attuale si calcola un milione e trecentomila “App” già in azione. Non c’è nessuna “protesi” duttile come il cellulare o come il computer che non sia dotato di strumenti per risolvere e ridurre il lavoro. D’altra parte i dati danno ragione a quanto affermavo vent’anni fa. Noi andiamo verso un mondo in cui per fortuna è possibile produrre più beni e più servizi con meno lavoro. Abbiamo una parte del mondo che è totalmente disabituata a lavorare, ed abbiamo un’altra parte del mondo che è totalmente alcoolizzata di lavoro. Quindi siamo di fronte ad un duplice impegno: ottenere che metà mondo che non ha mai lavorato incominci a lavorare e ottenere che l’altra metà del mondo che lavora troppo cominci a frenare la sua quantità di lavoro.
Finora il problema della disoccupazione tecnologica è stato risolto in modo che ogni macchina che entra in azienda il lavoro si riduce. Però il padre continua a lavorare per otto, nove ore al giorno mentre il figlio è completamente disoccupato. Questo avviene per la mancanza di immaginativa. Si sente dire che la riduzione degli orari di lavoro in Germania e in Francia non ha avuto conseguenze sulla disoccupazione. Invece le conseguenze ci sono, dato che questi due Paesi hanno un tasso di disoccupazione che è quasi la metà del nostro. E a cosa è dovuto se non alla riduzione degli orari di lavoro?
Dunque dovremmo proprio impegnarci in due direzioni.
La prima direzione è la destrutturazione del lavoro. Oggi milioni di persone escono di casa la mattina, fanno una o due ore di viaggio per andare in ufficio per fare le stesse cose che potrebbero fare da casa. Questo fa paura perché naturalmente toglie dalle grinfie onnivore dell’organizzazione aziendale e/o sindacale le persone. Ma non le toglie neppure perché se il sindacato o le aziende utilizzano bene Internet i legami coi lavoratori non sono meno forti, anzi, forse sono più “real time” di prima. Poi vi è l’esigenza di dover riprogettare il lavoro in modo che la quantità di tempo lavorativo erogato dai lavoratori non sia stabile ma sia fortemente fluttuante e soprattutto sia in forte riduzione complessiva. In questo momento (2016) in Italia ci sono 23 milioni circa di occupati e 4 milioni di disoccupati. Se i 23 milioni di occupati invece di fare settimane di 40 ore le facessero di 36 ore, i 4 milioni di disoccupati sarebbero occupati. Ovviamente questo calcolo è elementare ed andrebbe articolato e studiato, lavorandoci sopra.
L’altro aspetto è quello che avviene dentro l’azienda. Siccome il lavoro diminuisce a vista d’occhio, dentro le aziende non si fa quasi niente. Se si guardano i ritmi di lavoro della Telecom o dell’Eni o della Fiat o della Google. Sono praticamente risibili. E si introduce in azienda sempre più questioni. La Google mette perfino i biliardini, il ping pong, ecc., per non dire: “Andate a casa e giocate quanto volete perché quello che dovevate fare è stato fatto”. Se oggi in molte aziende si dicesse: “Quando avete finito andate a casa”, la maggioranza uscirebbe a mezzogiorno.
Quando Marx scrive “Il Capitale”, la città più industrializzata del mondo è Manchester e il 96% dei lavoratori dipendenti di Manchester sono operai. Tutta l’impalcatura giuridica e sociologica del lavoro è basata su una visione pan-operaia del lavoro stesso. Mezzo secolo fa, nelle campagne dei paesi rurali, quando gli anziani parlavano di lavoro, pensavano ai braccianti agricoli. Pian piano quando parlando di lavoro o di lavoratori si incominciò a pensare agli operai. Oggi la realtà del lavoro è molto diversa. Grazie alle nuove tecnologie, alle nuove forme di organizzazione, alla globalizzazione, ecc., allo stato attuale in Italia, il 33% dei lavoratori è fatto di operai: il 33% contro il 96% della metà dell’Ottocento. Un altro terzo di lavoratori riguarda lavoratori intellettuali che però fanno attività esecutive, come ad esempio il bancario, ed un altro terzo i lavoratori creativi, come ad esempio i politici, gli artisti, gli imprenditori, ecc. Per il lavoro creativo non esiste orario di lavoro. L’orario di lavoro è una pura finzione. Se per esempio si ha l’assillo di una musica o di una legge da portare avanti, a questa si pensa anche quando si è a casa, o mentre si fa la doccia o mentre si è al cinema, e così via. Il 33% del lavoro creativo ha orario solo astrattamente come fatto convenzionale, ma non esiste un vero e proprio orario di lavoro. L’orario di lavoro riguarda il 66% di chi fa lavori esecutivi o materiali. Il problema è che in tutta questa realtà noi abbiamo fatto dipendere il cibo dal lavoro, cioè la quantità di cibo dalla quantità di lavoro. “Se qualcuno non vuole lavorare, neppure deve mangiare” diceva Paolo di Tarso (2 Tessalonicesi 3,10). Lo diceva pure la canzone “Bandiera rossa”. Ora, come si distribuisce la ricchezza nel momento in cui alcuni non lavorano o lavorano molto meno di quanto avessero lavorato in precedenza? Si immagini uno scenario estremo in cui tutto il lavoro fisico, produttivo, si faccia in Cina e che tutto il lavoro impiegatizio si faccia in India. Questa immaginazione non è neanche tanto estrema o utopistica, dato che in certe organizzazioni oramai è così. Per la Apple tutto il lavoro fisico si fa in Cina e tutto il lavoro mentale si fa a Cupertino. Dietro ogni telefonino c’è scritto “Designed by California by Apple” o “Assembled by China”. Se tutto questo andasse avanti, cioè se solo la Cina producesse beni e se solo l’India producesse informazioni, gli altri Paesi di che cosa mangerebbero, se si continua a pensare che il lavoro sia l’unico modo per distribuire la ricchezza? E nel momento in cui pochissimi riescono a produrre ricchezza, tutti gli altri come vivono? Questo significa che noi andiamo verso un mondo in cui il rapporto tra scuola e lavoro e tra lavoro e retribuzione si sta rompendo completamente. E più si rompe, e più questa sciocchezza del rapportare la scuola al lavoro si ripete a livello politico. Ma che cosa si vuole rapportare se già oggi il ragazzo di quinta elementare quando arriva nel mondo del lavoro trova un mondo completamente modificato? Quindi anni oggi equivalgono a 150 anni di un tempo. Non bisognerebbe mai guardare le statistiche che non si riferiscano a meno di due anni fa. Le statistiche che si usano oggi sono completamente obsolete. Alcune si riferiscono ancora come fenomeno statistico al 2002, 2003, 2004! Ma oggi questa è una follia. È alienazione essenziale. E lo sarà ancora di più nell’esponenziale “scacchiera” tecnologica del futuro (per quanto sia fatta di soli 64 quadratini!).
Quindi lo scenario è sicuramente quello del distacco progressivo ed esponenziale della scuola dal lavoro, e ciò è il contrario di quello che politicamente si sta facendo adesso. Un ragazzo di 20 anni ha davanti a sé 60 anni di vita, cioè 530 mila ore. Cosa farà questo ragazzo nelle prossime 530 mila sue ore? Immaginiamo che trovi lavoro a 25 anni e che lavori fino a 65 anni. Questa cosa è impossibile. Ma immaginiamola. E che lavori 40 ore la settimana. Sono in tutto 80 mila ore di lavoro. 530 mila ore di vita meno 80 mila ore di lavoro fanno 450 mila ore di non lavoro. Immaginiamo che questo ragazzo dedichi 10 ore per dormire, mangiare e curare il corpo. Sono 220 mila ore. Ne restano ancora ben 230 mila di totale tempo libero. E gli insegnanti dovrebbero prepararlo alle solo 80 mila ore di lavoro, trascurando tutto il resto, quando il lavoro è un settimo della vita? Ma perfino il primo articolo della Costituzione dovrebbe essere modificato. Perché dire che la Repubblica è basata sul lavoro significa dire che l’Italia è una Repubblica democratica basata su un settimo della vita.
Invece succede che le aziende non fanno altro che accaparrarsi il 100% del tempo. Adesso la parola magica è “disponibilità”. Ora c’è la disponibilità. Ma la disponibilità è degna di qualcosa di pirandelliano, o del naso di Gogol [la vicenda della perdita del naso contenuta nel racconto “Il naso” (1936) di Gogol di Nikolaj Gogol ricorda il motivo originario della storia contenuta nel romanzo “Uno, nessuno e centomila” (1926) di Luigi Pirandello dove il protagonista, Vitangelo Moscarda, in seguito a una serie di rivelazioni diverse e contrastanti fatte sul suo naso da più persone, non sa più chi è, e questo lo conduce in manicomio perché la mutevolezza del suo corpo nel divenire del tempo contrasta con l’incontrovertibilità epistemica del suo io, generando spersonalizzazione e frammentazione schizofrenica di sé - nota mia]. Disponibilità significa che questo lavoratore alienato, di solito un manager, va alle otto del mattino in ufficio ed esce alle dieci di sera se è in un paese cattolico, se invece è in un paese protestante esce alle cinque di pomeriggio. Da noi dopo le cinque le aziende sono dei “gay pride”: sono tutti maschi che stanno lì. Le donne intanto vanno a casa per accudire la famiglia e loro stanno lì, non per amore del lavoro, ma per odio della famiglia. Questa è l’azienda italiana per la quale i politici fanno le leggi senza minimamente capire di che cosa si tratta.
Oggi dunque c’è la… “disponibilità”, cioè la felicità dell’alienato dipendente di essere raggiungibile in qualsiasi momento dal capo, anche mentre sta facendo l’amore. Ed è felice. È orgoglioso di questo. Quando telefona il capo, dice ai figli: “State zitti… È il capo, c’è il capo al telefono”. E il capo, con questo delirio di onnipotenza, è tronfio. In realtà è tronfio di delirio di impotenza perché i suoi dipendenti, esattamente come lui, non fanno niente tutto il giorno ormai nelle aziende, però fuori del lavoro bisogna chiamarlo per fingere qualcosa. Allo stesso modo trovi sulle spiagge ad agosto capi o solerti manager che telefonano continuamente alla segretaria chiedendo: “C’è qualcosa di nuovo?”. Ma cosa volete che ci sia! Perfino le brigate rosse d’estate non hanno mai fatto un attentato…
Credo pertanto che lo scenario sarà di resistenza ancora lunga a voler vedere le cose come stanno, cioè secondo logica di realtà. E quindi si resisterà creando ancora a lungo infelicità. Infatti i giovani disoccupati, dopo un anno, dopo due anni, e dopo tre anni dalla laurea cosa fanno? Dalle ultime ricerche di Domenico De Masi risulta che: suona la sveglia alla mattina, il padre esce per andare a lavorare, la mamma esce per andare a lavorare, e il giovane sta a casa a masturbarsi continuamente il cervello. È una tragedia. Milioni di persone stanno così. E dicono che il Jobs Act ha creato lavoro! 300 mila lavorano ma ci sono milioni di persone che sono senza lavoro.
Lo scenario è dunque questo: è auspicabile che non vi siano conflitti cruenti anche se si fa di tutto perché ciò avvenga, e questo è criminale. Dunque se non vi saranno conflitti cruenti vi sarà una prima fase in cui si capisca finalmente che bisogna sganciare la retribuzione dal lavoro, perché si ha diritto a vivere anche se non mi date del lavoro. Non capisco perché se non mi date del lavoro non mi volete dare neppure del pane. E poi naturalmente una destrutturazione totale, grazie alle tecnologie che sono il più bel dono che gli ingegneri ci possano fare».