Sulla percezione di Steiner

Sul concetto di percezione nel testo di Steiner sulla libertà

Nella sua “Scienza della libertà” (1ª parte de “La filosofia della libertà”) Steiner, per intendersi coi lettori, chiama PERCEZIONE il mero oggetto IMMEDIATO di sensazione. “Immediato” significa che NON è “mediato” dal pensare, e cioè che la mediazione concettuale non è ancora avvenuta nella determinazione di quell’oggetto.

Se io affermassi che la percezione è un frammento di materialità, sarei già in errore, dato che la proposizione “la percezione è un frammento di materialità” può essere dichiarata solo dopo averla pensata, cioè MEDIATA col pensare.

Di fatto, nulla di determinato può essere detto su quel mero oggetto IMMEDIATO di sensazione, che Steiner chiama PERCEZIONE. Infatti quell'oggetto è quanto si percepisce senza che il pensare abbia incominciato a MEDIARE, a RIFLETTERE, cioè ad attivarsi.

Pertanto coloro che dichiarano che la percezione sia questo o quello, pongono già un giudizio sulla PERCEZIONE, pongono cioè un concetto sull’oggetto percepibile. In altre parole pre-giudicano ciò che il pensare deve ancora determinare o mediare a proposito di esso. In altre parole confondono il sentire col pensare: mettono in moto un sentire riguardo a quell’oggetto di sensazione MEDIANDOLO subconsciamente grazie al pensare, che credono sentire. Quindi si può dire che quel sentire è spurio, dato che è esattamente il contrario dell’oggetto IMMEDIATO inteso da Steiner a proposito della percezione (o dell'oggetto di percezione così inteso). 

Il nostro corpo è anche un insieme di capacità percettive e di organi percettivi. Steiner non intendeva però la percezione fisiologicamente. Per Steiner la percezione è la cosa percepibile, l’oggetto di percezione. Faccio un esempio: se nel buio tocco qualcosa che non riconosco, so che lì c’è un oggetto ma non so ancora che oggetto è, dunque non so ancora che cosa sia quella percezione. Cos’ho fatto? Ho fatto l’esperienza della PERCEZIONE IMMEDIATA. Ovviamente ogni percezione mi stimola al riconoscimento di essa. Il riconoscimento è però possibile solo attraverso la MEDIAZIONE del pensare concettuale. La percezione però non è quel riconoscimento concettuale. Il riconoscimento attiene al pensare, al concettualizzare. Percezione (oggetto di percezione) e concetto sono due elementi equilibrati e distinti che insieme danno la realtà. La realtà è fatta di essi, non di mere percezioni come vorrebbero i materialisti, né di meri concetti o di mere idee come vorrebbero gli idealisti, gli spiritualisti. Tutto l’idealismo tedesco vive invece in questo disequilibrio di preminenza assoluta del concetto o dell'idea rispetto alla percezione.

Ma questo squilibrio è mentale! Al di là dell’equilibrio fra percezione e concetto c’è infatti la pazzia, la stessa pazzia che Goethe sembra imputare a Fichte, per esempio.

Si può rilevare ciò dai commenti di Giovanni Vittorio Amoretti in alcuni punti del “Faust” di Goethe. Il primo punto riguarda il versetto del personaggio “Idealista”: “In verità se io sono tutto questo, allora oggi sono pazzo”. Il commento dice: “[…] contro J. G. Fichte […]: l’io crea a sé il non io ed è con esso identico” (Goethe, “Faust”, Ed. Utet, Torino, 1975, pag. 216). Il secondo punto riguarda il personaggio “Baccalaureus”: “[…] Se io non voglio non è permesso al diavolo di esistere”. Il commento dice: “Se io non lo penso il diavolo non esiste. Più che un concetto fichteano per il quale il mondo esisteva in quanto l’io lo pensava, ci troviamo qui di fronte alle derivazioni da questo concetto quali si riscontrano negli scolari del Fichte” (ibid. pp. 308-309).

È ovvio che chi scotomizza la percezione (P. Archiati) mettendo invece in luce il mero concetto o la mera idea, vive l’abbaglio di quella “luce” e perviene all’alienazione essenziale di quel vertiginoso disequilibrio per cui si crede realtà solo il mondo assolutamente concettuale. Costui vive in meri concetti, ed è assolutamente convinto che se uno non pensa a una cosa, cioè ad una percezione, questa non esista. Ma chi si comporta è un alienato perché se stando al volante ti trovi di fronte un albero e non sterzi perché non vuoi pensarci, vai a sbatterci contro.

Sull’assolutizzazione fichteana, Amoretti commenta poi la parola “assoluto” detta da “Mefistofele” nel poema goethiano: “Assoluto. Allusione alla filosofia di Fichte e forse, in senso lato, anche a quella dello Schelling e dello Hegel” (ibid. pa. 306). Insomma perfino Mefistofele qui “consiglia […] di non sdegnare troppo la realtà, l’esperienza […] per andare verso un astrattismo assoluto […]” (ibid.). E sappiamo tutti chi è Mefistofele per Goethe...

In questa alienazione dunque vivono coloro che, come P. Archiati, D. Fusaro, e molti sedicenti filosofi odierni, credono fichteanamente che la percezione sia un inganno da superare.

Per esempio, già nel titolo del libro di Archiati “La percezione. Un inganno da superare” (Ed. Archiati, 2004)  c’è già la testa dura dei tedeschi, una tedeschità che Goethe chiama “bizzarra”. Dice Goethe allo Eckermann: “I tedeschi sono, del resto, gente assai bizzarra! Con i loro pensieri profondi e le loro “idee” che essi cercano ovunque e cercano di ficcar dentro ovunque, si rendono la vita più difficile di quanto essa dovrebbe essere. Eh! abbiate dunque una buona volta il coraggio di abbandonarvi alle impressioni, di lasciarvi ricreare, di lasciarvi commuovere, di lasciarvi elevare e di lasciarvi istruire, ed infiammare ed animare verso qualche cosa di grande. E non pensate solamente sempre che ogni cosa sarebbe vana e inutile se non è un qualsivoglia astratto pensiero od un’idea” (“Gespräche mit Goethe” del 6 maggio 1827 in “ Goethe, “Faust”, op. cit. Introduzione, nota 1, pag. 26).

Questi “tedeschi del pensiero” di conseguenza sbagliano non solo nell’esperienza delle cose del mondo ma anche nell’esperienza di se stessi. La reale esperienza dell’io non è una pensata di solipsisti trascendentali assoluti, sedicenti sacerdoti della verità che pretendono di insegnare ex cathedra la filosofia di Rudolf Steiner tramite categorie fichtiane o heideggeriane, o tramite dottrine del logos o altre teologie, perché un simile modo di percepire il mondo è pazzesco.

Il libro “La filosofia della libertà” di Steiner non abbisogna di predicatori né di alcun supporto, in quanto i suoi contenuti poggiano su essi stessi.

Il libro “La filosofia della libertà” abbisognerebbe semmai di mero studio individuale. Perché il tempo dei predicozzi è finito. Basta con le chiese! Basta con la chiesa! La messa è finita! E basta anche coi nazionalismi!

Oltretutto, l’idealismo di J. Gottlieb Fichte, come ogni altro idealismo o spiritualismo assoluti, non aiuta la comprensione dei testi di Steiner in quanto non apre mai ad una vera esperienza dell’io, dato che l’io è per costoro un’idea tra le altre o un concetto fra gli altri. Invece “io” vale solo per me. Per tutti gli altri io sono un tu.

Lo stesso dicasi per M. Heidegger. Heidegger è famoso più per le sue idee sbagliate che non per l’avere scoperto che noi poveri esseri umani conduciamo le nostre vite per lo più come zombie. Ma questa sua grande scoperta la sentiamo ripetere da sempre anche nei vari Bar Sport. Certamente gli errori di pensiero di Heidegger che condussero al nazismo, li sentiamo di meno…

Insomma chi, in base a filosofie, pensati, ideologie o teologie, procede per pregiudizi sui contenuti delle percezioni per spiegare la percezione di Steiner, conduce solo a idealismi semantici, in cui l’unica esperienza possibile è il “parolismo”, il “blateralismo”...

L’evoluzione dialettica, l’eristica, l’arte di avere sempre ragione non è che evoluzione della furbizia: parlantina. Non cultura! Parlamentarismo deforme in quanto staccato cioè assoluto (ab-solutus, disciolto) dall’esperienza dei relativi contenuti concettuali.

Ciò che allora si studia non è la filosofia di Steiner ma solo ciò che “si può dire” o che “non si può dire” (per essere nel giusto o per essere nel gruppo): si può dir questo? si può dir quest'altro? Queste sono le domande dei dialettici che gli ascoltatori fanno ai cosiddetti maestri. Ma che razza di gente è questa? È gente che vuole sapere ciò che si può dire e ciò che non si può dire. Ma a che serve poi? A parlare nel politicamente corretto? Povera antroposofia! Qui siamo nel girone dei politicastri, non dei cercatori scientifico-spirituali.

La libertà diventa allora il “dover essere” liberi (di dire questa o quest’altra pensata o scienziaggine new age del tipo “tutto è maia”, ecc.), e ciò in base a un comunismo giuridico costituito da “legalità oggettive” e/o da “REGOLE di libertà” (“regole di censura della non libertà”, pazzesco!) attuabili mediante un orwelliano Stato poliziesco del pensiero, inventato da Fichte! “Ma Alda! Ma Alda!” diceva Ezio Greggio. Meglio la sua filosofia di quella di certi maestri!